Guido Stella è stato poeta, ma anche saggista fecondo, critico letterario attento e sagace. La prima impressione che si prova nel rileggere i volumi che raccolgono i suoi saggi, apparsi su diverse riviste, è la vastità dei suoi interessi e delle sue letture. Egli fu un lavoratore instancabile. Ne fanno fede le sue traduzioni – ben trenta opere dal francese, dall’inglese e dal tedesco, per le editrici bresciane Morcelliana, Queriniana, Paideia; lo studio “L’umanesimo cristiano e l’editrice Morcelliana” (nel volume Morcelliana 1925-1975 Humanitas 1946-1976, Brescia, 1976, pp.97-125); gli appunti per una biografia sulla figura più alta del laicato cattolico bresciano, Vittorino Chizzolini, 1985, pp. 32, Brescia Fedele; e soprattutto i volumi che raccolgono i suoi scritti critici, tutti pubblicati nelle Edizioni Voce del Popolo di Brescia. Sono cinque: “Primo Mazzolari e altri saggi”, 1986, pp.166; “Maestri e amici”, 1984, pp.160; “Parole, immagini e oltre”, 1985, pp. 160; “Nel battito del tempo” (Uomini e idee), 1986, 196; “Padre Giulio Bevilaqua e altri saggi”, 1987, pp. 184. Né di lui si deve dimenticare l’appassionato lavoro di redattore della rivista Humanitas svolto per quasi vent’anni, dal 1960 al 1978, e il decennale contributo dato, attraverso il Giornale di Brescia, con le sue “cronache di cultura” e i suoi articoli.
Anche solo limitandoci alla saggistica e alla critica letteraria, sorge spontanea la domanda: che cosa muoveva Stella a esplorare avidamente autori appartenenti ai più diversi orientamenti? Vi era in lui una sempre rinascente, inesausta sete di conoscere, di capire l’umano nelle sue multiformi esperienze, sì che il libro in quanto tale, in cui quelle esperienze sono condensate o proposte, lo affascinava, costituendo un’ attrazione irresistibile. Leggere meditando e colloquiare con gli autori fu il suo vero modo di viaggiare, nel profondo, là dove le paratie ideologiche cadono e ognuna si trova nudo, riscoprendosi simile agli altri, mosso dalle stesse passioni ed aspirazioni, tormentato dalle stesse domande. In Guido Stella la curiosità intellettuale si trasformò in lavoro serio, disciplina e vocazione, amore per una cultura non ghettizzata, libera, che avesse porte e finestre. D’altra parte fu proprio la sua solida cultura classica, unita ad una eccezionale sensibilità religiosa, a rendere accogliente e insieme vigile, critica, non conformistica la frequentazione dei contemporanei.
Stella ha svolto la sua indagine in direzioni molteplici. Si può dire che nella sua opera si intersecano, arricchendosi a vicenda, almeno quattro gruppi di saggi. il primo gruppo riguarda un nutritissimo drappello di scrittori italiani del Novecento: Nicola Lisi, Domenico Giuliotti, Giuseppe Prezzolini, Mario Soldati, Guido Piovene, Carlo Cassola, Mario Pomilio, Giovanni Arpino, Primo Levi, Mario Rigoni Stern, Giorgio Saviane, Fausta Cialente, Elsa Morante, Dino Buzzati, Ignazio Silone, Diego Fabbri, Cesare Angelini, Valerio Volpini, Agostino Turla, Rodolfo Doni, Giuseppe De Luca, Luigi Cantucci, David Maria Turoldo, Beppe Fenoglio, Alberto Moravia, Carlo Laurenzi. I giudizi di Stella sono pesati, non ad effetto, e tuttavia i più riusciti rimangono ben fissi nella mente. Come quando scrive che “la personalità di Guido Piovene è ugualmente debitrice a Voltaire e a Pascal” o definisce “piacevole, ma non necessario” lo scrittore Mario Soldati, la cui disinvolta bravura scade spesso nel divertissement.
Un secondo gruppo di saggi è dedicato allo scandaglio di autori stranieri: Graham Green, Franz Kafka, Ernest Wiechert, Gertrud von Le Fort, Gilbert Keith Chesterton, Gabriel Garcia Marquez, Jack Kerouac, Saul Bellow, oltre, s’intende, i francesi Georges Bernanos, Francois Mauriac, Emmanuel Mounier, Charles Péguy, Daniel Rops, Jean Guitton. I francesi Stella se li portava dentro, come compagni di viaggio a cui si fanno le domande più inquietanti. Gli scritti più densi di Guido Stella in campo letterario, a mio avviso, sono tuttavia quelli dedicati a Graham Green, autore di un capolavoro come “Il potere e gloria” e polemista scomodo ma efficace, e a Kafka. Stella invita a “non misurare le convinzioni etico-religiose di Graham Green sul metro di una rigida ortodossia come spesso vien fatto”, perché egli ama il paradosso, la provocazione lanciata ai credenti, e “la sua opera è un’apologia dell’amore, l’amore quale viene proposto dal Vangelo, contro la legge, la casistica morale”. Il saggio su Kafka è tra le cose migliori che Stella abbia scritto. A suo giudizio senza dubbio esiste una “lettura negativa” di Kafka ed è legittima, essendo egli lo scrittore che ha colto come pochissimi altri l’ambiguità di ogni scelta e la potenza del negativo. Franz Kafka rivive e ripropone gli interrogativi di Giobbe in ogni sua opera e, in tal modo, può essere detto l’autore di un solo libro. È vero che “Kafka non è mai riuscito a dare una risposta alle domande che i suoi libri ponevano, ma la sua esistenza è ricerca continua di un Assoluto che sentiva necessario più che il pane”. Come la vita e l’opera di Leopardi, la vita e l’opera di Kafka possono, dunque, essere accostate con una cifra, tutt’altro che arbitraria, che può essere cosi sintetizzata: “È proprio il valore assente che viene richiesto, esigito continuamente”.
Il terzo gruppo di saggi vede Guido Stella accostarsi a uomini che hanno testimoniato in modi diversi la fede che li animava nel profondo. Eccetto Tovini, sono personaggi che Stella ha potuto studiare giorno dopo giorno e non superficialmente. Sono sacerdoti che hanno avuto un ruolo importante nell’anticipare il Concilio, nel farne risaltare le novità che esso comporta e che la cristianità tardava allora e tarda adesso a recepire: padre Giulio Bevilacqua, don Peppino Tedeschi, don Lorenzo Milani, don Primo Mazzolari. Sono sondati nella loro umanità e nelle idee direttrici della loro opera i due papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI, ma anche laici come Giuseppe Tovini, Teresio Olivelli, Alcide De Gasperi, Enrico Roselli. Nell’ultimo scritto di Stella sul padre filippino, il cardinale che volle rimanere parroco in una chiesa di periferia, si legge una confidenza d’immenso valore: “Il testo conciliare – precisa Stella – al quale egli si sentiva più attaccato era quello sulla libertà religiosa”. Il più necessario a rendere credibile il dialogo dei cattolici con i cristiani delle altre confessioni, con i credenti in altre re1igioni e con i non credenti; la sola risposta che la Chiesa doveva dare agli equivoci che furono originati dal Sillabo di Pio IX.
Un’ultima considerazione sulla scrittura di Stella. Se nella conversazione il suo proposito sincero di essere non solo equanime, ma benevolo e mite con tutti, di tanto in tanto cedeva al gusto della battuta polemica, nella pagina scritta Stella non lasciava nulla all’impressione del momento. L’eticità immanente al suo mestiere Stella l’avvertiva profondamente e ha saputo esprimerla mirabilmente in un passo che credo doveroso riportare per intero. “L’incontro, il dialogo, il confronto costruttivo tra i due umanesimi, quello cristiano e quello laico, che dividono gli animi dei contemporanei, è l’intento profondo dei volumi che raccolgono saggi di tempi diversi. Animati da uno spirito conciliare, nel senso profondo auspicato per gli intellettuali da Paolo VI, essi affrontano argomenti diversi, a volte apparentemente disparati e impossibili a coniugare in una coerente visione. L’autore spera di aver raggiunto, almeno in parte, la sua ambizione: raccogliere semi di verità e di bellezza, dovunque essi si annidino. Nessun giudizio è definitivo. Anche quando è negativo, esiste sempre un margine di riserva”.
Concludo, infine, con un ricordo personale, scusandomi di dover ricorrere a un’auto-citazione. Guido aveva letto la mia recensione del quinto volume dei suoi saggi sul Giornale di Brescia. Incrociandomi in redazione, mi ringraziò e discutemmo scherzosamente sull’uno o l’altro punto del mio scritto. Ed ecco che, ad un certo momento, Guido taglia corto e, vincendo il pudore proprio di rendere palese ciò che si porta dentro, mi dice: “Senti, a dirti la verità a me bastavano le prime dieci righe dell’articolo. Nel leggerle m’è venuto un nodo alla gola. Mi ci sono riconosciuto”. L’incipit a cui Guido si riferiva è il seguente: “Ci sono uomini per i quali la cultura non è un elemento dell’ambiente, qualcosa di connaturale, quasi una necessità dello status sociologico in cui ci si trova installati sin dalla nascita. Per costoro la cultura è conquista aspra, faticata e insieme fonte inesauribile di gioia; per alcuni essa diventa anche disciplina che umanizza e apertura all’orizzonte della fede”. Così è stato per Guido Stella.
Giornale di Brescia, 26.7.1989.