Se prima di morire Benedetto Croce avesse riesaminato il giudizio di condanna su Schiller espresso in “Poesia e non poesia”, forse lo avrebbe corretto o ripudiato come fece per analoghe, ingiustificate severità nei confronti di Manzoni e di Pascoli. L’ingiusto verdetto non ci impedì, però, quando eravamo giovani, di leggere i drammi di quel grande e di nutrirci del loro amore di libertà, di decenza umana, di rispetto per gli altri, di appassionata contestazione di ogni sfruttamento e angheria. Di tutto ciò come non serbare gratitudine a un autore che – insieme a Novalis, a Kant, a Humboldt, a Goethe – sta a rappresentare l’altra Germania, quella che è patria dello spirito per tutti coloro che amano i valori della civiltà europea? Schiller è una grande figura, di cui occorre ricordare la nobiltà dell’ispirazione poetica, ma anche la ricchezza di esperienze di cultura e le molteplicità di intuizioni profonde. Si pensi, per portare un esempio, a un’opera come le “Lettere sull’educazione estetica dell’uomo”, del 1795, più volte tradotta in italiano, da ultimo presso l’Utet di Torino e La Nuova Italia di Firenze. Quelle “Lettere” fanno di Schiller un filosofo dell’arte e, contemporaneamente, un autentico maestro di vita morale. Novalis, che venerava Schiller come persona e come artista, vedeva in lui l’uomo degno di essere scelto a “educatore del prossimo secolo”, che per lui era il XIX. Sulla stessa lunghezza d’onda sta l’apprezzamento che del drammaturgo tedesco e del suo magistero etico-politico dette qualche decennio dopo il nostro Mazzini.
In questa nota si vuol richiamare l’attenzione solo su un aspetto particolare della personalità ricca e insieme armonica di Schiller: il suo interesse per la storia, attestato dagli “Scritti storici”, tradotti in italiano da Mondadori. Schiller fu spinto ad occuparsi di storia da una necessità reale, dal bisogno di conoscere da vicino quegli avvenimenti che sarebbero entrati, o che avrebbero potuto entrare, a far parte della sua produzione drammaturgica. La prima ricerca riguarda “La secessione dei Paesi Bassi”. È un capitolo di storia europea tra i più esaltanti perché attesta la vittoria della libertà sul dispotismo, del debole sul prepotente, di un piccolo paese contro una potenza militare che perseguiva una politica moralmente inaccettabile. Lo scritto è incompiuto, ma il modo di raccontare è serrato, forte nel gioco dalle antitesi che lo permea da cima a fondo. Due saggi sono dedicati all’attività legislatrice e alla missione storica di Mosè. Il cosiddetto stato di natura, su cui Rousseau aveva fatto leva nella sua polemica contro la società corrotta, non giustifica per Schiller le idealizzazioni fantastiche che ne sono state fatte. Esso è penosamente insufficiente all’attuazione delle potenzialità specifiche dell’uomo ed è, pertanto, di ostacolo al suo progresso. Alla libertà si giunge, invece, vincendo lo stato di natura ed entrando a far parte di una società fondata sulla legge. Senza legge, infatti, non c’è ordinata convivenza tra gli uomini, né popolo, né Stato. Per quanto imperfetta e sempre perfettibile, la legge apre il varco a un processo di affrancamento: a un patto, però, che non si chiuda in se stessa, trasformandosi, a sua volta, in un aberrante assoluto, soffocatore dei sentimenti più nobili e di ogni progresso. Insomma, c’è una legge alla maniera di Solone, in Atene, e c’è una legge alla maniera di Licurgo, in Sparta. Non è certo un caso che lo scritto “La legislazione di Licurgo e di Solone” fu ripubblicato e letto in Europa negli anni 1939-’45, come un manifesto antihitleriano.
Le pagine sulla “Storia della guerra dei Trent’anni-Wallenstein” sono tra le migliori. In esse si intravedono le ragioni che porteranno Schiller a dedicare una delle sue tragedie più importanti al duca di Friedlandia. La ricostruzione storica del personaggio ha il ritmo di un racconto di Hitchcock, in cui tutte le prove di colpevolezza del generalissimo, descritte con un crescendo di alta drammaticità, sono implacabilmente smontate solo alla fine. Il dubbio allora si insinua invincibile nell’animo del lettore, giacché nessun atto ci autorizza a considerare dimostrato il suo tradimento.
Lo scritto più ricco di intuizioni reca un titolo a dir poco ardimentoso: “Che cos’è e a qual fine si studia la storia universale”. È il testo della prolusione accademica tenuta dal poeta, che saliva in cattedra per la prima volta, nel 1789, nella piccola università di Jena. L’attesa di quel discorso attirò tanta folla che gli studenti e il docente dovettero cercare in un altro edificio un’aula più vasta, per tre-quattrocento persone, attraversando insieme in un insolito corteo, le vie delle cittadina. “Ampio e fecondo è il campo della storia – esordiva Schiller – e nel suo ambito è contenuto tutto il mondo morale. In tutte le situazioni che l’uomo vive, in tutte le varie forme dell’opinione, nella sua follia e nella sua saggezza, nella sua corruzione e nel suo perfezionamento, la storia l’accompagna. Essa deve render conto di tutto ciò che l’uomo riceva e dà”. Alla storia, però, ci si deve accostare con una mentalità non utilitaristica, senza voler trarre da essa un guadagno immediato o differito che sia. “Nella ricerca della verità storica non si entra avendo un’anima da schiavo”. Chi vuol studiare una scienza solo per servirsene, ne restringe l’ambito per meglio maneggiarlo; ma una specializzazione che frantuma e disgrega non può portare lontano. Chi, invece, abbia testa filosofica rispetta le discipline diverse dalla sua e si avvale con rispetto dei loro contributi, lavora a slargare di continuo i suoi orizzonti e, spinto da un impulso sempre vivo verso ciò che è perfetto, demolisce insoddisfatto l’edificio delle sue stesse idee per ricostruirlo più solidamente. “Chi ha la testa filosofica amerà pur sempre la verità al di sopra del suo sistema”. Lo spirito filosofico non può riflettere a lungo sulla storia senza che sorga in lui l’impulso a sottrarne gli eventi alla cieca causalità, ravvisando in essi un principio teleologico. Ciò consegue subito il risultato di disabituare le menti da una visione volgare e meschina della vita e di sospingerle a incontrare lo Spirito supremo nella sua più alta manifestazione.
La storia, infine, corregge i giudizi frettolosi, le astrattezze, le univisualità che falsano la vita. Dal cammino umano collettivo che chiamiamo storia si leva, tacito ed eloquente insieme, l’appello a incrementare il retaggio di verità, di eroismo morale e di libertà, che ci è stato affidato da quanti ci hanno preceduto perché noi lo trasmettessimo, arricchito e potenziato, a quelli che verranno dopo di noi. Questo e non altro, è il vero senso della storia. Per quanto diverse siano le condizioni in cui siamo chiamati ad operare nella società civile, tutti possiamo recarvi un contributo. L’essenziale è per ognuno fare la propria parte.
Giornale di Brescia, 10.3.1997. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Irene Perini su “F. Schiller: la tragedia di Wallenstein”.