La Cecoslovacchia nel 1918 fu, tra gli Stati successori dell’impero austro-ungarico, l’unico a scegliere con Masaryk la democrazia; ma dieci anni dopo fu abbandonato a se stesso e praticamente consegnato alla volontà di dominio di Hitler, proprio dalle democrazie occidentali, dalla viltà di Neville Chamberlain, il premier inglese, e dalla miopia del governo francese. Malgrado gli impegni sottoscritti sei mesi prima, con il Patto di Monaco del 29 settembre 1938, il dittatore nazista volle occupare tutta la Cecoslovacchia e smembrarla. I cecoslovacchi sperimentarono, dunque, per primi, a partire dal 15 marzo 1939, quel regime di terrore e di schiavismo che le SS imposero poi durante il conflitto a tutta l’Europa e per primi iniziarono la “resistenza” alle barbarie.
Dopo il 1945 la Seconda repubblica cecoslovacca sembrava avviata a riprendere. sia pure in un contesto geopolitico diverso, l’esperienza democratica che l’ aveva così bene caratterizzata nel periodo tra le due guerre; ma il colpo di Stato del comunista Gottwald nel febbraio del ’48 pose fine a quella prospettiva. Da allora, per oltre quarant’anni, un regime di violenza e di menzogna ha oppresso la Cecoslovacchia. Eppure, malgrado la diffusa pratica della delazione e l’onnipresenza della polizia politica, in quel meraviglioso Paese c’è sempre stata gente fornita di una convinzione: che vi sono cose per le quali vale la pena di vivere e, dunque, per le quali vale la pena di soffrire, e quelle cose sono proprio i valori di fondo e le scelte che ad ogni costo devono essere sottratte al diktàt del potere e alle pretese dell’ideologia totalitaria.
Fu per questo motivo che nel ’68 praghese l’autocoscienza della società civile sovrastò da ogni lato col suo dinamismo l’altalena di ardimenti e pentimenti di quei comunisti, primo tra i quali Aleksandr Dubcek, che pure speravano sinceramente di dare al loro potere un volto umano. Oppressa dalla reazione del potere neo-stalinista, ma anche rinvigorita dall’impari lotta, quell’autocoscienza divenne la premessa e la vera forza del movimento in difesa dei diritti umani, noto poi in tutto il mondo col nome di “Charta ’77”. L’intrecciarsi di molteplici fattori ha fatto sì che nel 1989 – nel bicentenario della Rivoluzione Francese – si registrasse una straordinaria accelerazione del corso storico e che quello fosse “l’Anno della Primavera dei Popoli Europei Umiliati” dal totalitarismo comunista. Il collasso dell’impero sovietico e la totale mancanza di consenso popolare ai regimi comunisti dell’Europa centro-orientale hanno posto rapidamente fine al dominio comunista nel cuore del nostro continente. La libertà ha trionfato, senza alcuna violenza, a Varsavia, a Budapest, a Berlino, a Praga. Nell’altra Europa l’impossibile, dunque, è accaduto.
A Praga la “rivoluzione di velluto” ci ha fatto assistere addirittura a un avvenimento, che può ben assurgere a simbolo di quell’incredibile 1989: il 29 dicembre, per l’effettiva investitura del popolo e col voto dei suoi stessi persecutori, un uomo, Vaclav Havel, passava dal carcere al Castello presidenziale! Nella sua fantasia, quale drammaturgo avrebbe potuto mai immaginare un epilogo di tal fatta? E come negare che la realtà di ciò che è stato supera di gran lunga il sogno?
Lo stupore che ci afferra dinanzi ai grandi eventi epocali di cui siamo testimoni deve, però, essere consegnato alla memoria di noi stessi e dei posteri e, quindi, tradursi anche in documento. Di qui l’idea – che è stata dei giovani della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura di Brescia – di raccogliere in una mostra, allestita in collaborazione con il Comune di Brescia, e in un catalogo (reso possibile grazie al contributo della Fondazione Cab-Istituto di Cultura “G. Folonari”) i manifesti della prima campagna elettorale, svoltasi nella primavera del ’90, nella Terza repubblica cèca e slovacca. Quei manifesti traducono, infatti, in immagini e messaggi l’uscita della Cecoslovacchia dal comunismo, il giudizio su di un’atroce illusione che è costata lacrime e sangue, la fine di un’epoca; ma essi documentano, altresì, i nuovi orizzonti che si aprono all’impegno e alla speranza di quel popolo, la sua profonda aspirazione a tornare a casa, cioè alla sua vera “patria più grande”, all’Europa. La Cecoslovacchia vuol ricongiungersi con tutta l’anima all’Europa, ma anche l’Europa sa che allo sviluppo di un umanesimo rinnovato e alla costruzione della comune società futura è indispensabile l’apporto della Cecoslovacchia. L’ apporto che ci viene, appunto, dalla sua alta e multiforme civiltà, così come dall’incomparabile lezione del suo eroismo morale nella lunga resistenza al totalitarismo, prima nazista e poi comunista.
In occasione dell’inaugurazione della mostra “Democrazia anno uno”, il Giornale di Brescia, su proposta e con la fattiva collaborazione della CCDC sia nella stesura dei testi che nella parte iconografica, ha pubblicato il 3 dicembre 1990 un fascicolo di 16 pagine. I soci della CCDC che hanno scritto articoli sono stati Vesna Cunja, Maurizio Faroni, Petra Franchi, Fulvio Manzoni, Filippo Perrini, Matteo Perrini.