Il 28 febbraio, poco più di un mese fa, Pietro Ostellino lasciava la direzione del “Corriere della Sera”, assunta quasi tre anni prima. Dopo l’ondata rossa di Pietro Ottone – che oggi rispolvera la saggezza di Seneca ad uso dei nostri capitani d’industria – e l’ortodossia a sinistra di Alberto Cavallari, Ostellino in poco tempo è riuscito a restituire al primo quotidiano nazionale un’identità culturale, una linea politica liberale e democratica e più di metà delle centomila copie perdute. Laico, ma non malato di “bigottismo laicista”, Ostellino ha dato voce e spazio anche ad una corretta informazione sui molti fermenti che percorrono il mondo cattolico. Così, ad esempio un suo articolo, in difesa dell’uomo oltre ogni ideologia, del 19 marzo 1983, è la più bella e fedele epigrafe dell’azione di Giovanni Paolo II e andrebbe riletto in questi giorni in cui il Papa è in uno dei Paesi più divisi e infelici dell’America Latina, il Cile. Attribuire, infatti, all’insegnamento e alla testimonianza cristiana del Papa un significato di “schieramento politico”, come sono inclini a fare molti, e in prima fila i Baget Bozzo e i cronisti televisivi della Rai in Sudamerica, significa non capire che Giovanni Paolo II è divenuto – come scrive Ostellino – egli stesso il simbolo del rifiuto della violenza, da qualsiasi parte essa provenga, da destra come da sinistra. “Ed è perciò che, da destra e da sinistra, c’è ancora chi, non avendo capito e auspicato che Giovanni Paolo II si schieri dalla propria parte politica, si chiede sino a che punto egli riuscirà a restare fedele alla sua scelta”.
Ostellino ha in più occasioni espresso la sua concezione di un giornalismo “civile” e i suoi sono orientamenti da cui è difficile dissentire. Ci limitiamo a ricordare la distinzione fra neutralità e imparzialità e alcune osservazioni sulla metodologia dell’informazione. “Un giornale può benissimo non essere neutrale – dichiara Ostellino – e anzi non può esserlo. Può benissimo mettersi da una parte piuttosto che dall’altra, ma deve mantenersi fedele al metodo dell’imparzialità. Là dove il primo modo di essere, la neutralità, è un atteggiamento politico – frutto della scelta personale di valori etico-politici – l’imparzialità è un atteggiamento mentale, frutto della convinzione che una mezza notizia, la presentazione di una sola faccia di un problema sono innanzitutto cattiva informazione e quindi cattivo giornalismo, oggettiva e soggettiva manipolazione dei fatti”. Occorre, insomma, che un giornale offra ai suoi lettori tutte le informazioni che consentano loro di farsi una propria opinione anche se essa non dovesse coincidere con quella espressa dal giornale stesso. È il criterio, appunto della imparzialità; che non implica affatto, come pure taluno ritiene, la rinuncia ai valori alle scelte ideali. Non sarebbe possibile, infatti, né a una uomo, né a un giornale professare una specie di indifferenza morale di fronte alla violenza, all’obitorio, all’ingiustizia, quale ne sia la provenienza. Nel mondo del giornalismo, invece, si è spesso riluttanti a rendere esplicite le proprie convinzioni etico-politiche nel timore di apparire di parte. “Io credo, al contrario – scrive Ostellino – che ci siano valori della convivenza civile e democratica che debbono essere apertamente dichiarati. Ed è proprio attraverso l’individuazione di una corretta metodologia dell’informazione e la dichiarata adesione a certi valori piuttosto che ad altri che un giornale può far conoscere ai suoi lettori quali siano i suoi parametri di giudizio che esso usa per valutare autonomamente i comportamenti delle parti politiche”. Ostellino non si nasconde che ci vuole una bussola per mantenere la giusta direzione nel cammino. È l’idea di libertà.
Ostellino si è fatto conoscere dal largo pubblico, in un quindicennio di lavoro al “Corriere”, come redattore agli esteri, editorialista, ma soprattutto come corrispondente a Mosca dal 1973 al ’78 e a Pechino negli anni 1979-’80. Dalla conoscenza diretta delle due grandi centrali del comunismo e dai servizi a caldo sulle questioni di più drammatica attualità sono nati i volumi Intervista sul dissenso in Urss (1977), Vivere in Russia (1977), Vivere in Cina (1981), In che cosa credono i russi (1982), I nuovi militari (1983). Questi libri hanno avuto un notevole successo e tuttavia, a mio parere, il sembiante interiore di Ostellino emerge meglio dall’ultimo libro, dal titolo baconiano rovesciato, Cose viste e pensate, pubblicato poco più di un anno fa. Il libro è e non è di Ostellino. È suo, perché è ben lui che ne ha scritto i diversi capitoli nel corso degli ultimi vent’anni; e non è suo, in un certo senso, perché l’idea, la scelta e l’accorpamento per temi sono opera di Edmondo Araldi e Franco Grassi. Il modo intelligente di raggruppare per argomenti gli scritti migliori di un testimone nel nostro tempo fa sì che Cose viste e pensate, edito da Rizzoli, anche per la coerenza epistemologica che li percorre, non costituisca affatto un libro datato, ma un’occasione veramente preziosa per ripensare la storia più recente e per riflettere sul futuro. Il volume si legge d’un fiato ed interessa anche per l’importanza e la varietà dei problemi affrontati: la “grande politica” internazionale e interna, il mestiere di giornalista, viaggi inchieste e interviste, interventi polemiche e note di costume. È difficile dire quale capitolo del volume sia da preferire. Se gli scritti di politica estera ora costituiscono il pezzo forte anche per numero di pagine, e potevano essere pubblicate a sé, la parte che sembra meno organica – interventi, polemiche, note di costume – riguarda aspetti non secondari della nostra convivenza sociale e della nostra politica. Nelle pagine di Ostellino non vi sono fatti staccati dalla ricerca dei loro nessi, né pensieri che non si appoggino a fatti. Si avverte qua e là, discretamente, la voce di De Tocqueville, di Bobbio, di Sartori, di Max Weber e di qualche altro maestro. Ma non è cosa da poco aver scelto quei maestri.
Giornale di Brescia, 2.4.1987. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Pietro Ostellino.