Tra gli Stati successori dell’impero austro-ungarico l’unico che imbocca la via del regime democratico è la Cecoslovacchia. I1 padre spirituale ed insieme l’autorità politica più eminente del giovane Stato, in cui devono convivere etnie diverse e divise da lunghi rancori, è un umanista, un filosofo: Tomas Garrigue Masaryk, presidente della Repubblica da1 1918 al 1935. Hitler, che aveva mobilitato la forte minoranza tedesca incorporata alla Cecoslovacchia, cercava solo il pretesto per occupare quello Stato, ma, paradossalmente, fu fermato a Monaco dall’arrendevolezza di Inghilterra e Francia. Il 29 settembre del 1938 fu sancita l’immediata cessione dell’intera regione dei Sudati al dittatore nazista e alle condizioni da lui poste; ma Hitler attuò il suo disegno palesemente criminale sei mesi dopo, invadendo la Cecoslovacchia il 15 marzo 1939. Fu il prologo alla tragedia, alla seconda guerra mondiale, che scoppiò appunto il 1° settembre (grazie all’accordo nazi-comunista de1 23 agosto per l’invasione e la spartizione della Polonia). La Cecoslovacchia fu, dunque, la prima tra le nazioni europee a sperimentare il regime di terrore delle SS, che poi accomunò quasi tutti i popoli europei, e i suoi cittadini furono i primi a “resistere” all’oppressore nazista. Ma se nel ’39 la Cecoslovacchia fu tradita dalla viltà dei governi inglese e francese, cioè di due Stati democratici, nel febbraio del ’48 fu tradita dall’Urss, il “grande fratello” che pose fine ad ogni esperienza democratica appoggiando il colpo di Stato del comunista Clement Gottwald. Quello che è successo ai cecoslovacchi potrebbe essere designato con un’espressione di Arrigo Levi: “Un popolo fu rinchiuso nella prigione di un mostruoso interludio”.
Chi vuol capire come si possa resistere al nazismo e al comunismo, senza lasciarsi omologare da un potere totale, che tende ad azzerare ogni altra realtà e ogni altra voce che non siano espressioni del regime, deve leggere Interrogatorio a distanza, edito da Garzanti in Italia. Quel libro ha due autori, è come un dramma con due personaggi: chi interroga, con la ferma volontà di andare sino in fondo ad ogni problema posto; e chi risponde, mettendo allo scoperto la sua anima e, con essa, il senso profondo di una battaglia di cui non si conosceva per nulla l’epilogo. Chi interroga è Karel Hvizdala, giornalista e scrittore costretto all’esilio in Germania fino al fatidico 1989, e chi risponde è Vaclav Havel, il drammaturgo, che esce ed entra in carcere, insieme a tanti amici di Charta ’77, l’uomo dai cento mestieri a cui il regime aveva persino proibito di studiare dopo la scuola dell’obbligo. Interrogatorio a distanza uscì in Germania nel 1986, quando nessuno, Havel per primo, poteva neppure sognare quel che sarebbe successo tre anni dopo. Con amarezza devo dire che in Italia si è aspettato che il dissidente Havel, portavoce di Charta ’77, diventasse presidente della Repubblica Ceca e Slovacca perché la grande editoria cominciasse a interessarsi della sua persona e dei suoi scritti. Prima solo una piccola editrice cattolica, la Cseo, aveva pubblicato di lui molti dei testi teatrali e alcuni dei suoi coraggiosi interventi raccolti nel bellissimo volumetto Il potere dei senza potere. Il fatto che il libro sia stato in piccola parte scritto e poi quasi tutto dettato al magnetofono, in risposta a precise domande, tra un’incarcerazione e un’altra, conferisce ad esso un valore di testimonianza storica ed un significato morale altissimo, sì che, a giusto titolo Interrogatorio a distanza costituisce una di quelle poche grandi opere del Novecento che devono essere poste a fondamento della nuova Europa. Di quell’Europa che è già in cammino, ed è prefigurata dalla nostra volontà di costruirla, di farla essere; e non è ancora, perché essa sarà innanzitutto il risultato di una reciproca apertura ai doni che una parte dell’Europa può cercare con intelletto d’amore e attingere nell’altra.
Questo mio appassionato invito a leggere Interrogatorio a distanza, non può che limitarsi a segnalare alcune delle tante piste su cui il lettore è sollecitato a intraprendere un “suo” cammino. Perché questa è la prima lezione che ci viene da quel testo: non declamazioni di sublimi principi, com’è abituale ad una distorta mentalità latina, ma l’ingenuità consapevole di agire senza calcolo, di agire concretamente, assumendosi la responsabilità di pagare per quello che si fa come singoli individui. La vera rivoluzione è sempre una rivoluzione esistenziale, un assolvere il proprio compito che personalmente tocca a ognuno di noi assolvere momento per momento. Non si tratta affatto di ripiegare sulle cosiddette “piccole questioni”- questa logica perderà i protagonisti della primavera di Praga del ’68, Dubcek in testa – ma, al contrario, di costruire consapevolmente, con i mille gesti quotidiani di rifiuto reale della menzogna propalata e imposta dal potere, la società parallela a quella dello Stato totalitario. E Havel, quando chiariva il metodo della “costruzione dal basso” della società parallela, sapeva bene che la sua diagnosi riguardava non solo il mondo comunista, ma anche quello occidentale, perché l’uno e l’altro, sebbene differenti sotto alcuni aspetti e incomparabili sotto altri, attraversano una crisi comune: la coscienza del conflitto fra gli interessi elementari e originari dell’uomo come persona concreta e l’inabissarsi del singolo nel “megameccanismo” della società con la sua forza anonima, irresponsabile, banalizzante. Queste pagine non si fermano dinanzi a nessuno nello sforzo di dire, “a futura memoria”, una parola chiara sulle responsabilità di gruppi e persone di fronte alla menzogna istituzionalizzata e alle chiacchiere dell’ideologia. Pur essendo sempre pervase di profonda umanità, esse quindi possono risultare, per il rispetto che si deve ai fatti, persino impietose verso personaggi troppo enfatizzati per convenienze di partito, o per difetto di informazione, o per l’inclinazione propria dei mass-media a parlare solo e sempre di uomini elevati a simboli esclusivi di tutto quello che accade. Illuminanti, in tal senso, sono le risposte di Havel all’amico “inquisitore”, quando Hvizdala gli pone le seguenti domande:”Il 1968 viene spesso alquanto mitizzato, particolarmente dagli ex gerarchi comunisti. Lei è uno di coloro che non hanno mai voluto soggiacere al fascino di quest’aura. Come ricorda il 1968? Perché e che cosa scrisse a Dubcek nell’agosto del 1989?”. E Havel dà una risposta, misuratissima nel tono ma dura nella sostanza, anche all’ex-comunista Milan Kùndera. Kùndera – e non era solo lui a farlo – era di quelli che spiegava l’occupazione sovietica e l’adattamento cecoslovacco ad essa come “il destino storico nazionale” del suo Paese. Quand’era comunista, credeva di “reggere il volante della storia” e da ex-comunista, divenuto meritatamente autore di successo mondiale, ha creduto di poter irridere i dissidenti, i cui atti di protesta descrive come esibizionismi di disperati, perché il loro rischio implica la mancanza della certezza aprioristica del successo. Indipendentemente dal fatto che quei disperati hanno in realtà vinto, non è proprio questa caratteristica che dà alla loro azione il sigillo del valore morale, di ciò che va fatto qui ed ora, perché è giusto farlo se vogliamo rimanere uomini, se vogliamo ancora avere dignità e liberta interiore? Lo scetticismo totale dell’autore della Insostenibile leggerezza dell’essere non è forse l’altra faccia di quella moneta falsa, che è l’entusiasmo per le illusioni dell’ideologia? Havel è un artista dotato di un grande senso di auto-ironia, ben consapevole della essenziale ambivalenza di ciò che è umano; ma su di un punto il nascosto lirismo della sua anima s’è manifestato appieno. Quando ha scritto, ad esempio, riflessioni come queste: “La speranza è un orientamento del cuore, che oltrepassa ciò che e immediatamente vissuto, e che ha dimora da una qualche parte, lontano, oltre le sue frontiere. Sento che le radici più profonde della speranza sono conficcate nel Trascendente e ciò è qualcosa di più di una convinzione, è un’esperienza interiore… Quanto più sfavorevole è la situazione in cui manifestiamo la nostra speranza, tanto più profonda e la nostra speranza. Quella speranza – che riesce a dispetto di tutto a tenerci a galla, a indurci a buone azioni e che e l’unica vera fonte della vertigine dell’anima umana e delle sue aspirazioni – noi la prendiamo, per cosi dire, da un altro luogo”.
Giornale di Brescia, 21.11.1990. Articolo scritto in occasione della presentazione del libro di K. Hvizdala, alla presenza dell’Autore, promossa dalla Ccdc.