Da sedici anni a questa parte che cosa è accaduto in Libano?
La piccola nazione dei cedri è il solo Paese ad essere stato visitato ed evangelizzato da Gesù stesso che, durante la vita pubblica, si spinse – avvenimento unico – fuori dai confini della Palestina per predicare in Libano. La lunga e travagliata storia del Paese mediorientale, dopo la dominazione dei turchi ottomani, registra nel 1943 la fine del mandato francese, che aveva gestito il potere in Libano all’indomani dello sfaldamento dell’impero turco mussulmano. In quel medesimo anno viene stipulato il «patto nazionale», che permetteva alla società multietnica e pluriconfessionale libanese di instaurare un equilibrio – seppur delicato come tutti gli equilibri – tra le religioni, distribuendo con equità le cariche pubbliche. Ben diciassette erano e sono le confessioni religiose radicate sul suolo libanese, che conta poco più di 10.000 kmq di estensione. Tale patto, tra l’altro, permette ai cittadini di religione cattolica – e più in generale cristiana – di non venire fagocitati nell’«oceano» islamico che li circonda, poiché tale confessione deteneva il diritto di esprimere il presidente della Repubblica. I cristiani, maggioritari in Libano ma minoritari in tutto il Medio Oriente, godevano così di una relativa sicurezza. Il Libano in pace sarebbe diventato la Svizzera del Medio Oriente.
Negli Stati mussulmani, i cristiani, in conformità alla legge islamica, sono considerati cittadini di seconda categoria e sono privi dei diritti di partecipazione alla vita politica del proprio Paese, limitando così di molto anche il loro raggio di azione sul piano culturale e sul piano propriamente religioso. Al contrario, il Libano è l’unico Paese arabo nel quale i cittadini di diversa religione hanno parità di diritti: in Libano la proposta della fede viene diffusa – in forza del patto nazionale – tramite la missione e l’apostolato. Nei Paesi mussulmani, invece, si pretende di far trionfare la propria verità religiosa con la discriminazione, l’abuso e le armi.
L’equilibrio nel Libano viene rotto all’indomani della fondazione dello Stato d’Israele, per l’esodo dei palestinesi, come anche per la fuga degli stessi dalla Giordania, dopo i massacri del cosiddetto «settembre nero» nel 1970. I Paesi arabi mussulmani, che dell’irredentismo palestinese fanno la bandiera della «rinascita islamica», non hanno offerto ai profughi l’ospitalità che ha invece concesso loro il Libano. Anzi, il monarca giordano, come si è detto, ne fece strage per impedire loro di instaurare uno Stato entro lo Stato (come faranno in Libano), e di attentare alla sovranità del Paese ospite. La Siria stessa ha sempre adoperato con i palestinesi la tattica del «bastone e della carota», alternando alleanze e vessazioni. Con l’arrivo di circa 600.000 palestinesi (e forse più), il delicato equilibrio religioso e nazionale del Libano si infrange definitivamente, a favore della confessione mussulmana sunnita. Gli attentati alla sovranità e alla sicurezza, da parte di un vero e proprio Stato palestinese entro i confini libanesi, portano diritto alla guerra. Nella primavera del 1975, in una conversazione con Saeb Salam, primo ministro libanese, sunnita, Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, dichiara le proprie intenzioni: «Ho tutto l’interesse a internazionalizzare il conflitto del Libano. Non ravviso alcun inconveniente che il Paese divenga un secondo Vietnam, né che tutto il Medio Oriente affoghi nella guerra: farò di Beirut una seconda Stalingrado. Che il sangue scorra fino alle ginocchia a Beirut, che il Libano divenga un fiume di sangue! Io, Yasser Arafat, non ci vedo alcun inconveniente!» (cit. in B. Cervellera, Libano la pace futura, Emi, Bologna, 1990, p. 41). Le milizie volontarie cristiane guidate da Bashir Gemayel – figlio di Pierre Gemayel, fondatore del Partito Kataeb e «padre» dello Stato libanese – furono l’anima e il corpo della resistenza agli attacchi dei fedayn, a fronte di un esercito regolare libanese attendista e inerte.
L’aggressione continuata a una terra senza amici.
Allo scopo di eliminare i «campi-profughi» palestinesi, muniti di ingenti armamenti stanziati nel sud del Paese, Israele attua ben due invasioni: nel 1978 e nel 1982, quando viene addirittura raggiunta la capitale Beirut. Il progetto è – almeno a breve termine – quello di suddividere il Libano in Stati rigidamente monoconfessionali – ovviamente sempre in guerra reciproca. Israele occupa circa il 13 per cento del territorio libanese: all’estremo sud una «fascia di sicurezza», lungo il confine, sotto il diretto controllo delle truppe di Tel Aviv; e, poco più sopra, una zona fino al «confine naturale» del fiume Litani controllata dall’esercito del Libano meridionale. A nord di Beirut, nella regione del Kesrouan, le forze libanesi cristiane e di Smir Geagea (ben poco è ormai rimasto delle gloriose milizie costituite da Bashir Gemayel), ribellatesi al governo regolare del generale Michel Aoun, primo ministro ad interim, sembrano aver similmente accettato – con notevole miopia politica – il progetto di spartizione confessionale della nazione dei cedri.
Nel 1982 la forza multinazionale di pace permette ai palestinesi, incalzati dagli israeliani, di fuggire, abbandonando i territori occupati dei campi profughi. Pochi giorni dopo la sua elezione, Bashir Gemayel, l’uomo-simbolo della Resistenza nazionale cristiana e della Resistenza libanese tuot court, l’uomo che pareva poter assicurare la pace e la stabilità del Paese, viene assassinato da Habib Shartroum, sicario del Partito social-nazionale siriano, lo stesso che detiene il potere a Damasco (cfr. Jean-Pierre Alem, Le Liban, Presses Universitaires de France, Parigi, 1985, p. 118, nota 1). La Siria aveva aggredito il Libano nel 1976, quando, sotto le bandiere della forza di dissuasione araba era rimasta ben presto l’unica padrona del campo. Con il pretesto di una pacificazione che non è mai giunta, la Siria, appoggiando ora l’uno ora l’altro dei contendenti, ha occupato fino al 70 per cento del territorio libanese.
Dopo l’assassinio di Bashir Gemayel, viene eletto alla presidenza della Repubblica il fratello, Amin Gemayel. La crisi libanese viene in qualche modo «congelata», nel tentativo di serbare le distanze dai nemici della sovranità libanese. Nel 1988 il Parlamento riunito per l’elezione del Presidente della Repubblica, che sarebbe dovuto succedere ad Amin Gemayel, in mancanza del quorum necessario, non riesce ad esprimere il nome del futuro capo dello Stato. Secondo quanto previsto dalla Costituzione libanese in siffatte circostanze, allo scadere del proprio mandato il presidente uscente, Amin Gemayel, incarica il generale Michel Aoun, capo dell’esercito regolare di formare un governo ad interim, con il compito di ristabilire la legalità nel Paese e di procedere alla elezione del Presidente della Repubblica.
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A tale atto la Siria risponde opponendo la figura di Selim Hoss, mussulmano, in qualità di primo ministro, con l’intento di dividere la dirigenza politica del Paese. Il primo ministro legittimo, Michel Aoun, decreta allora la «guerra di liberazione» contro i siriani, con lo scopo di bloccare ogni ingerenza nella politica libanese. I porti delle zone cristiane vengono recuperati alla legalità, ma l’azione del generale cristiano induce le forze libanesi di Samir Geagea a distaccarsi dal suo progetto politico e dalla sua azione militare. L’ultimo atto della tragedia libanese si va preparando. Il 22 ottobre 1989 a Taif si stipulano gli accordi voluti dal mondo arabo, accordi che portano all’elezione del Presidente della Repubblica filo-siriano, così da garantire «legalmente» l’ingerenza di Damasco.
Réne Moawad, che all’indomani della sua elezione sembra tentare un contatto con il generale e primo ministro Michel Aoun, viene assassinato e sostituito da Elias Hrawi, tuttora in carica. Dopo varie minacce mai attuate, il governo di Hrawi procede, a fine settembre 1990, al blocco commerciale della zona del Libano libero – quella controllata dal generale Michel Aoun – affamando la popolazione. Qualche tempo prima, nel mese di agosto, Saddam Hussein invade lo sceiccato del Kuwait, rivendicandolo come diciannovesima provincia dell’Iraq.
Il 13 ottobre, aerei Sukhoi siriani bombardano il palazzo presidenziale di Baadba, nei pressi di Beirut: il primo ministro Aoun è costretto alla resa. Da molti anni i siriani non adoperavano l’aviazione in Libano per tema delle reazioni internazionali e per paura di una ritorsione israeliana; ora però è scattato il semaforo verde, e anche Israele finge di non vedere, salvo ribadire l’intangibilità dei propri possedimenti in Libano. Nei giorni del blocco economico migliaia di persone si erano schierate davanti alla Baadba per difendere con uno «scudo umano» il generale Michel Aoun e i suoi ministri. per evitare una strage Aoun si arrende e ripara, insieme alle tre figlie e alla moglie, nell’ambasciata francese.
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Davanti all’aggressione continuata di questo Paese, nessun intervento politico estero c’è stato e nessuna condanna. Il Libano non ha amici. Solo il Santo Padre rinnova i suoi appelli. Nei giorni successivi alla resa si perpetrano numerosi massacri, che coinvolgono soprattutto la comunità cristiana. Molti ufficiali di Aoun vengono uccisi, alcuni addirittura decapitati.
Domenica 21 ottobre, Daniel Chamoun, leader del partito nazionale liberale, figlio di Camille Chamoun, ex presidente del Libano, viene barbaramente trucidato, insieme ai due figli maschi, di cinque e sette anni, e alla moglie; ignoti sicari agiscono indisturbati, fuggendo in mezzo a una selva di posti di blocco siriani. nell’intervista rilasciata a un quotidiano spagnolo la vigilia della morte, Daniel Chamoun aveva dichiarato: «Taif fu un colpo di Stato incruento, conclusosi con l’offensiva siriana contro Baadba. Il generale Aoun era il capo di Stato in carica quando fu convocata la riunione di Taif. Era stato nominato primo ministro dall’ultimo presidente Amin Gemayel. Come tale scelse il Parlamento e indisse le elezioni, ma esse non interessavano alla Siria che occupa i due terzi del nostro Paese. I deputati eletti nel 1972, e che continuano ad autoprorogare il proprio mandato, sono più docili per Damasco. Da allora non vi sono state più elezioni e si è accettata la “legalità” nata a Taif con un colpo di Stato, ripeto, istituzionale. Ora, con l’offensiva siriana, si è posta fine sanguinosa alla legittimità». Queste ultime parole di Daniel Chamoun, che ha pagato a duro prezzo il suo amore per la libertà, per la giustizia e per la verità. E con lui centinaia di altre persone. In Libano si sta soffocando e distruggendo ogni possibile residuo del libero passato del Paese, e ogni focolaio di un’eventuale riscossa.
Giornale di Brescia, 11 marzo 1991. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Khoueiry Jocelyne.