In Italia i sondaggi conobbero il loro boom alla fine degli anni Ottanta, entrando nelle case attraverso la televisione, e ben presto divennero qualcosa di familiare. In ogni puntata di Mixer Giovanni Minoli divulgava i risultati di un sondaggio, come faceva Arrigo Levi in Punto Sette; il sondaggio entrò da protagonista anche nelle trasmissioni di quiz, a partire da Telemike, gioco di Mike Buongiorno. Ma sin dall’inizio l’affermazione del sondaggio é accompagnata da atteggiamenti ambivalenti. C’è chi ne fa un totem, qualcosa a cui sacrificare altre forme d’indagine della realtà, ed anche un’arma decisiva di propaganda politica. C’è chi, invece, tende a banalizzarlo o a demonizzarlo, confondendo lo strumento – utile – con l’utilizzo a volte perverso che viene fatto. Sulla validità o meno dei sondaggi e sul ruolo che essi giocano ormai nel mondo d’oggi, in particolar modo nel campo politico, si può e si deve discutere, ma non senza aver prima dissipato un pregiudizio assai diffuso, che genera confusione nel pubblico e, in molti casi, anche tra gli stessi committenti e i giornalisti: sotto il nome di sondaggi vengono fatte passare tante operazioni che sondaggi non sono. Un esempio per tutti: nel «televoto», a cui faceva ricorso pesantemente Michele Santoro nella trasmissione Tempo Reale; c’era tutto il fascino dei grandi numeri, essendo moltissime le persone chiamate ad esprimersi, ma l’attendibilità del risultato era assai vicina allo zero. Chi interveniva telefonicamente, infatti, non faceva parte di un campione casuale, com’è richiesto da ogni seria indagine, ma era un pubblico autoselezionato, cioè particolarmente favorevole o particolarmente contrario. Va da sé che queste e altre pratiche distorsive non sono sondaggi.
A introdurci nell’universo dei sondaggi e a capire i difficili rapporti che essi hanno con i media ci viene incontro un libro agile, documentato e appassionante: Opinioni in percentuale – I sondaggi tra politica e informazione, pubblicato da Laterza. L’autore è Nando Pagnoncelli, direttore generale e amministratore delegato di «Abacus», uno dei più accreditati istituti di ricerca di mercato e sondaggi d’opinione che opera nel nostro Paese. «Abacus» è la filiale italiana del quarto gruppo al mondo in quel settore, Taylor Nelson-Sofres: non può permettersi atteggiamenti di sudditanza nei confronti di clienti o gruppi politici. In pagine di esemplare chiarezza, senza il solito abuso di termini inglesi, Nando Pagnoncelli ci aiuta a capire il processo di perfezionamento continuo delle tecnologie in uso per restringere sempre di più il margine di errore nei sondaggi; ma egli non si stanca di avvertire che il vero problema è far capire – sia ai committenti, sia ai conduttori televisivi e ai giornalisti – che le esigenze di spettacolarizzazione e la corsa frenetica nell’urlare “la notizia” prima dei concorrenti comportano prima o poi scacchi cocenti e brutte figure.
Incidenti del genere accadono ovunque, ma nel nostro Paese il primo flop clamoroso si verificò nelle elezioni regionali del 1995. È un caso ormai entrato nella memoria collettiva. Si votava in 15 regioni ed Emilio Fede, direttore del Tg4, aveva puntato tutto su una variante degli exit poll, gli in house-poll, sondaggi telefonici realizzati presso campioni di elettori rientrati a casa dopo il voto. Era stato preparato un cartellone con la cartina dell’Italia e relative bandierine: rosse per il Centro-sinistra, azzurre per il Centro-destra. Fu un disastro. Fede, subito dopo gli in house-poll, incautamente infilzò su quella cartina undici bandierine azzurre. Alla fine quelle elezioni furono vinte dal Centro-sinistra: nove regioni a sei. Il difetto di prudenza nella comunicazione delle previsioni di vittoria è, infatti, tanto più pericoloso quanto più le stime sulle forze, due schieramenti contrapposti, sono vicine al 50%. Ed i famosi – o forse, meglio famigerati – exit poll hanno bisogno di essere via via corretti dalle “proiezioni” del voto; le stesse proiezioni, a loro volta, possono incappare in errori, perché si tratta pur sempre di rilevazioni campionarie e ogni campione porta con sé uno scomodo compagno di strada: l’errore statistico, che oggi viene conosciuto come “forchetta”. Tuttavia non è solo ai giornalisti della tv che succede di incorrere in disastrosi errori di comunicazione, perché qualche volta le cose vanno storte anche per i loro colleghi della carta stampata. Celebre è il caso dell’ Espresso che, nel novembre 1992, pubblicò un servizio-choc, “Aiuto, uno su dieci odia gli ebrei”, da cui risultava che in Italia c’erano nientemeno che sei milioni di antisemiti, cioè il 10,4% della popolazione. Per fortuna quel servizio si fondava su una lettura del tutto errata dei risultati del sondaggio che il settimanale aveva commissionato. Si comprende bene allora perché le pagine conclusive del libro siano dedicate a tracciare «Piccolo vademecum alla lettura dei sondaggi».
“Bisogna tornare – scrive Pagnoncelli – a un concetto di sondaggio che sia un elemento conoscitivo prima che uno strumento di pressione o di condizionamento dell’opinione pubblica. Credo che nel lungo termine questo potrà essere utile anche agli stessi esponenti politici. Più il sondaggio viene usato in modo spregiudicato per condizionare la gente, più si scredita agli occhi dell’opinione pubblica… Sondaggi, quindi come elemento di conoscenza e non di persuasione e condizionamento. Ma c’e altro pericolo che la politica deve evitare: utilizzare i sondaggi per inseguire la volontà popolare. Il politico non deve rinunciare al coraggio di scegliere per sé e per gli altri. Non deve venir meno alle proprie responsabilità”.
Giornale di Brescia, 22.11.2001. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Nando Pagnoncelli sul tema: “Il difficile rapporto tra cittadini e informazione: il tema dei sondaggi di opinione”.