Non è agevole collocare un Don Bosco nelle coordinate consuete, e quasi obbligate, a cui ci ha abituati la storiografia politica in questi decenni e che noi abbiamo interiorizzato a tal punto da venirci naturale applicarle ad ogni temperie storica, ad ogni situazione e personalità. Gli schemi politicistici, concepiti per coppie di antinomie (autorità-profezia, tradizionalismo-riformismo, intrasigentismo-conciliatorismo) sono del tutto inadeguate a rappresentare la complessa vicenda storica di Don Bosco.
Don Bosco capì che nella situazione piemontese, prima, e dello Stato post-unitario, poi, la religione rischiava di essere mescolata troppo alle amare passioni della politica e non si lasciò imprigionare dagli storici steccati. La linea operativa che caratterizzò l’opera di Don Bosco, – e sulla sua scia anche quella del bresciano Piamarta, fondatore dell’Istituto Artigianelli nel 1886 – in quasi mezzo secolo di attività, ed in particolare dopo il 1848, fu il dialogo con le istituzioni politico-giuridiche dello Stato liberale, non per tentare soluzioni del conflitto fra Stato e Chiesa, ma per scopi più urgenti ed essenziali. Il prete santo di Valdocco, a cui premeva sempre e in primo luogo “aiutare gli uomini a conquistarsi la vita eterna”, aveva compreso che sono le opere concrete con cui i cattolici assumono la reale rappresentanza degl’interessi della povera gente, sono le iniziative riuscite di evidente utilità sociale a fare di essi una forza costitutiva del Paese.
Bisogna far parlare i fatti, se si vuol rifondare il cattolicesimo negli animi del popolo ed essere interlocutori credibili per coloro che hanno in mano il governo della cosa pubblica. E su questa linea, da diversi punti di vista, Don Bosco e i suoi successori riuscirono a vincere molte partite con la società e con lo Stato liberale. Seguendo la loro impostazione culturale e pedagogica, i salesiani finirono per svolgere numerose funzioni di supplenza proprio in ampi settori sociali e istituzionali – dall’istruzione popolare all’assistenza sociale, alla formazione professionale, all’accesso ai gradi superiori della cultura dei poveri, purché capaci – nei quali lo Stato liberale non si impegnava o conseguiva risultati insoddisfacenti.
L’originalità organizzativa e strategica della visione salesiana non era, però, legata soltanto alle funzioni di supplenza che l’esercito operoso di Don Bosco andava svolgendo e per le quali lo Stato liberale, proprio in considerazione della sua insufficienza, concedeva ampia libertà d’azione. Essa nasceva anzitutto dall’intelligenza dei tempi, che Don Bosco ebbe in grado eminente, e dalla sua vivacissima disposizione al confronto col moderno in campi come il sistema di produzione industriale, le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro per la classe operaia. Don Bosco è grande anche perché ha capito che il ruralismo era un’utopia fuori dalla realtà e che il problema vero era quello di accettare la sfida dei tempi nuovi, impegnandosi con tutte le forze a far entrare le nuove leve nel processo di produzione industriale, attrezzando i giovani sul piano della competenza professionale e formandoli ad una saldezza morale e religiosa tale da renderli vittoriosi di fronte ai pericoli di dissociazione e di perdita in umanità che la fabbrica recava con sé.
Don Bosco ha contribuito a rinnovare, nella Chiesa e nella società, quella che uno studioso di grande perspicacia come Piero Bairati chiama “l’etica del lavoro produttivo”. Fondatore di “una congregazione nuova – sono parole di Don Bosco – per incorporarsi col popolo e assimilarsi a lui in una sola vita”, la cultura salesiana del lavoro (“chi non sa lavorare non è salesiano”) non appartiene affatto alla patetica storia del paleocapitalismo e supera da ogni lato la concezione meramente assistenzialistica. Sin dai primi regolamenti della Casa, redatti tra il 1852 e il 1854, Don Bosco insiste sul valore auto-formativo del lavoro e sul suo alto significato sociale, essendo esso sempre un modo di servire il prossimo e di contribuire al bene comune. “Adamo era stato posto nel Paradiso terrestre perché lo coltivasse”, ammoniva Don Bosco. E nella redazione definitiva del regolamento dei laboratori salesiani, quella del 1877, all’art.19 si legge una chiara eco del paolino “chi non lavora non mangi”: “l’uomo è nato pel lavoro e solamente chi lavora con assiduità trova lieve la fatica e potrà imparare l’arte intrapresa per procacciarsi onestamente il lavoro”. Don Bosco ha cercato di non rendere dolorosi a intere generazioni di giovani la transizione da una società rurale e paleoartigianale a una società che ha ritmi e comportamenti completamente diversi: ma ha voluto insegnare loro la serietà del lavoro organizzato, ha insistito sulla specializzazione professionale e sulla qualità del prodotto perché nella società di mercato l’individuo si inserisce e si afferma in ragione della sua capacità personale di produrre beni e servizi. Bisogna tendere – ed è anche questa la lezione del grande piemontese – a far acquisire ai lavoratori il ruolo sociale che essi sono in grado di conquistarsi. Non aveva torto la “Voce dell’operaio” di Torino, che non si era mai occupato di Don Bosco, a scrivere, in occasione della morte:”Don Bosco consacrò al bene della classe operaia la sua grande anima”.
L’intuito imprenditoriale di Don Bosco era così forte che gli permise di mettere a frutto rapidamente la lezione dei fatti, sin dall’inizio del decennio cavouriano. Per quanto potesse non condividerla, Don Bosco capì che la politica ecclesiastica liberale era irreversibile e che in quelle condizioni era assolutamente necessario, per la realizzazione dei programmi educativi e sociali, la conquista della massima autonomia economica nei confronti sia della Chiesa sia dello Stato. Le sue intuizioni non potevano reggersi su rendite ecclesiastiche ed egli si mise nelle condizioni di non possedere beni che potessero essere considerati come manomorta ecclesiastica. In una società fondata sulla libertà d’impresa, le istituzioni salesiane dovevano essere esse stesse un’impresa privata. E senza l’avvedutezza, il coraggio, il gusto del lavoro ben fatto avrebbe avuto tanta fecondità la sua stessa opera di educatore e di apostolo? L’efficienza, posta al servizio dell’amore di Dio e del prossimo, non è anch’essa una forma di preghiera? E dove mai nel Vangelo viene elogiata l’inettitudine?
Giornale di Brescia 2.4.1988. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Piero Bairati.