Nel febbraio 1956 il Partito comunista celebrò il suo XX congresso, nel corso del quale Krusciov lesse a porte chiuse il suo famoso rapporto sui crimini di Stalin e, nelle settimane che seguirono, il contenuto della sua relazione si diffuse a poco a poco tra la popolazione. Fu un intero universo mentale che vacillò. Milioni di uomini e di donne furono liberati dal Gulag. Per impulso del nuovo procuratore generale dell’Urss, Rudenko, fu riorganizzato il potere giudiziario. La censura allargò la sua stretta. Furono riallacciati dei contatti con il mondo esterno. Questo periodo è entrato nella storia col nome di disgelo: la banchisa aveva scricchiolato, il ghiaccio aveva incominciato a muoversi, ma non si era ancora sciolto. Mettendo fine al culto di Stalin e al terrore di massa, Krusciov non aveva affatto intenzione di sopprimere il sistema sovietico. Al contrario, sperava di restaurarlo in tutta la sua combattività ideologica facendo ritorno alle “norme leniniste”.
A differenza del resto della società, la Chiesa non godette a lungo del disgelo. Nel 1958 il Partito comunista decise di lanciare una grande campagna antireligiosa. Ben presto Krusciov avrebbe annunciato che la costruzione della società comunista sarebbe più o meno ultimata entro i prossimi vent’anni e naturalmente bisognava che, prima di quel momento, la religione fosse scomparsa. Una valanga di propaganda antireligiosa si rovesciò sul Paese. Metà delle chiese fu chiusa. Spesso i funzionai locali effettuavano queste operazioni in modo brutale, facendo spaccare tutto ciò che si trovava all’interno. Si arrivò fino a centocinquanta requisizioni al giorno. I preti che venivano a trovarsi senza parrocchia, senza altre risorse e con la famiglia da sfamare, erano spesso ridotti alla mendicità. Il numero delle comunità monastiche fu considerevolmente ridotto. Erano circa un centinaio nel dopoguerra, dopo non ne restarono che sedici.
Nel clima che si venne a creare con l’offensiva antireligiosa lanciata da Krusciov, a un giovane ebreo fu negato l’accesso alla facoltà di teologia ortodossa di Zagorsk, una delle cinque ancora esistenti in Unione Sovietica. Quel giovane che non era mai stato in seminario e che aveva acquistato per suo conto una solida cultura scientifica e letteraria, oltre che teologica, si chiamava Aleksandr Men’. Quando Men’ fu presentato al Vescovo ausiliare di Mosca, questi non ebbe esitazione alcuna e subito l’ordinò diacono. Era il 1° luglio 1958. Padre Men’, che oggi la Russia e il mondo cristiano onorano come una figura tra le più eminenti della spiritualità ortodossa e un degno continuatore di Vladimir Solov’ev, rimase sempre lì, al grado più basso del clero, essendo divenuto parroco di una chiesetta di periferia solo un anno prima di quel 9 settembre 1990, quando fu barbaramente trucidato, a colpi d’ascia, a pochi metri da casa sua.
Aleksandr Men’, che fu ospite della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura di Brescia nel suo primo viaggio fuori dell’Urss, nel novembre del 1989, è uno dei grandi cristiani di questo secolo, un testimone di Cristo di eccezionale levatura intellettuale e di gioiosa, schietta semplicità. Del “segreto” della sua personalità ci ha reso in qualche modo partecipi lo slavista Yves Hamant, con il profilo biografico Aleksandr Men’ pastore e martire, appena uscito in traduzione italiana (La Casa di Matriona, Milano, 1994, pp. 176). É un libro in cui la vita di Padre Men’ si intreccia intimamente con il dramma del suo popolo e della sua Chiesa, che hanno dato alla fede cristiana più martiri in settant’anni di comunismo che nei 1917 anni che li precedettero. Mente aperta ai più vasti interessi, in settori così diversi come l’arte la scienza e la letteratura, Padre Men’ ha speso tutto il suo talento, senza la minima riserva, al solo servizio di Dio e degli uomini. Dedica un’attenzione silenziosa, ma costante e feconda di risultati, a una “particolare tribù indigena”, come la chiamava Sergej Averincev, la intelligencija sovietica, i cui pregiudizi sui problemi religiosi toccavano un alto livello di barbarie; e nello stesso tempo si spende quotidianamente per la povera gente in piccole, sperdute chiese di campagna. É amico di non pochi dissidenti – di due soprattutto, Aleksandr Solzenycin e l’intrepido compagno di studi e di sacerdozio, Gleb Jakunin, così duramente perseguitato – e nello stesso tempo egli ha deciso, sin da giovane e in modo irrevocabile, che la sua missione personale dev’essere diversa dalla loro, tutta incentrata com’è nell’annuncio della Parola e nell’opera di risveglio nelle coscienze. In una sua lettera Padre Men’ scrisse: “Rispetto l’onestà e il coraggio, ma ritengo che per quanto mi riguarda quel che ho da fare mi basta. Inoltre sono convinto che la libertà debba nascere dalle profondità spirituali dell’uomo”.
Controllato assiduamente dal Kgb, sottoposto di frequente a estenuanti interrogatori, con la sua inalterabile allegria riuscì sempre a sdrammatizzare le situazioni pericolose in cui veniva a trovarsi. Oggi noi sappiamo che forse nessuno ha lavorato come lui alla diffusione della fede in Russia negli anni di Krusciov e di Breznev, nonostante gli ostacoli burocratici, le minacce di morte, il rischio sempre incombente dell’arresto. Egli non venne mai meno alla disciplina ecclesiastica, pur superando di continuo i limiti puramente cultuali in cui lo Stato sovietico rinchiudeva la Chiesa ortodossa. Il suo vero miracolo fu di ispirare e promuovere giorno dopo giorno, alla spicciolata, cercando di non farsi notare, senza gesti clamorosi, la formazione di tante piccole comunità spirituali e di scrivere libri fondamentali sulla storia del Cristianesimo e delle religioni, pur pensando che non sarebbero stati mai pubblicati. Quelle opere furono invece stampate con uno pseudonimo in Belgio, in lingua russa. Ciò spiega perché Padre Men’ negli anni tumultuosi di Gorbaciov andò sempre più assumendo, lui vice-parroco di campagna, un’autorità spirituale seconda solo a quella di Sacharov. E forse è stata questa la causa del suo assassinio probabilmente per mano di organizzazioni nazicomuniste, violentemente antisemite, o di frange oltranziste del Kgb.
Quale fu l’intuizione cristiana della vita di Aleksandr Men’ pastore e martire?. A mio avviso fu quella che Dostoevskij pone sulle labbra del monaco Zosima ne I fratelli Karamazov: “Fammi comprendere, Signore, che il paradiso è nascosto dentro ognuno di noi. Che ora, ecco, è qui nascosto anche dentro di me e che, se voglio, può cominciare realmente per me e durare per tutta la vita… Facci ricordare che chi ama gli uomini ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è pieno della tua misericordia infinita”.
Un’ultima annotazione. Padre Aleksandr era famoso (ed anche molto avversato) per la sua apertura alle altre confessioni cristiane, e particolarmente al cattolicesimo. Per lui fu un punto di arrivo cui giunse intorno al 1960, in seguito ad una lunga ricerca sulle opere di Solov’ev e per l’enorme impressione prodotta su di lui da Papa Giovanni XXIII. Padre Men’ amava ripetere un’espressione di Mons. Platon, metropolita di Kiev, morto nel 1891: “I nostri steccati non arrivano fino al cielo”.
Giornale di Brescia, 13.4.1994. Articolo scritto in occasione di un incontro di ricordo della figura di A. Men’.