Narra una suora che, viaggiando in treno, un giorno s’incontrò con Don Bosco. «Salirono sul treno un signore e un sacerdote e presero posto proprio di rimpetto a noi. Giunti alla fermata di Asti, tanti signori si avvicinarono allo sportello aperto e tutti salutarono lietamente il buon sacerdote, dicendogli: Cereia, don Bosco! e gli porgevano lietamente la mano. Grande fu la mia gioia nel vederlo; però, in vista del grande ascendente che egli aveva sui giovani, me l’ero immaginato alto nella persona, di aspetto imponente. Era, invece, un prete per nulla straordinario e rilevai pure che le sue orecchie erano alquanto grandi».
In effetti quel gigante della carità era alto solo un metro e 63 e le sue orecchie erano «grandi, grosse e allungate». Don Bosco stesso, nel vedersele in fotografia, ci scherzava sopra. Giuseppe Soldà in un’opera decisamente eccezionale (Don Bosco nella fotografia dell’800, 1861-1888, Varia Sei), utile a capire i tempi in cui visse il santo piemontese ma anche qualcosa della sua psicologia e della sua mentalità, ci ha mostrato il prezioso materiale fotografico su cui ha lavorato per quasi un decennio «alla ricerca dell’autenticità di un volto». Le sorprese di questo libro insolito, rigoroso (è stata utilizzata la consulenza e la collaborazione di alcuni tra i migliori esperti della fotografia) e affascinante sono proprio tante. «Don Bosco personalmente era contrario a farsi fotografare» e tuttavia di lui esistono tante e così disparate fotografie, che risalgono a un tempo in cui era un’impresa veramente difficile fotografare. La risposta, però, non è da cercarsi chissà dove: «Don Bosco è disposto a qualsiasi cosa, purché non sia il male». In vista dei suoi fini primari e urgenti come la promozione umana e sociale dei ragazzi, l’apostolato e la ricerca di fondi commisurata a quei fini egli è dunque disposto anche a farsi fotografare, sebbene riluttante. Il primo ritratto di Don Bosco, ad uso interno dell’Oratorio, risale al 1861, quando i suoi collaboratori più stretti temono che il loro grande amico e maestro stia per andarsene a causa della tubercolosi. Fotografo fu l’ex-allievo dell’Oratorio, Francesco Serra. «Sappi una cosa – dice però Don Bosco a Serra che armeggia sotto il telo scuro – se tu sei in grazia di Dio, bene. Se no, lascia lì, che perderemmo tempo». E racconta che il miglior litografo di Torino, certo Dubois, aveva fatto il possibile e l’impossibile, ma non c’era stato verso che Don Bosco impressionasse le sue lastre argentate.
Com’è, dunque, il Don Bosco che ci viene incontro da questo volume? Il disagio del prete di Valdocco rimane, senza dubbio. Raramente riesce a trovare nelle fotografie quel sorriso comunicativo che tanto colpiva i giovani. Probabilmente ciò è da attribuirsi alla posa prolungata e alla sincerità della persona, schiva a strumentalizzare, anche se a fini di bene, un atteggiamento interiore come il sorriso. Le spalle appaiono un po’ curve, l’aspetto dimesso e modesto emerge persino nelle fotografie per circostanze solenni; le mani sono sottili, affusolate e Don Bosco tende a tenerle conserte. Ma quello che soprattutto colpisce sono gli occhi di Don Bosco, infossati, incorniciati da folte sopracciglia, ma vivaci, penetranti, specialmente in alcuni ritratti nei quali esprimono un’ironia non in sintonia con la posa. Le fotografie più belle, a mio avviso, sono però quelle in cui, negli ultimi anni, gli occhi mostrano i segni della sofferenza, di una stanchezza estrema per le innumerevoli fatiche e preoccupazioni e la mesta dolcezza del distacco imminente.
Giornale di Brescia, 23 febbraio 1988.