É ancora fresco di stampa, da poco in libreria, il volumetto: I paradossi della croce di Enzo Bianchi, pubblicato dalla Morcelliana di Brescia. L’autore, una delle pochissime figure veramente bibliche del nostro panorama religioso, è il «monaco laico» che ha fondato a Bose, nel Biellese, una comunità ecumenica, punto d’incontro tra persone di diversissima provenienza accomunate dal non aver mai smesso di cercare e di cercarsi. Ho avuto la gioia di portare due volte il priore di Bose nella nostra città e di ascoltarlo, insieme a centinaia di bresciani, spiegare il libro dei Salmi come preghiera dell’umanità, e la pagina del Nuovo Testamento che i Padri della Chiesa chiamavano «il Vangelo del Vangelo»: la parabola del figliol prodigo. Mediante quella parabola Gesù intese rivelarci il cuore e il volto stesso di Dio, rendendone possibile la definizione: «Dio è agàpe», Dio è amore (lettera I di Giovanni 4, 8 e 16).
Lo scavo in profondità, un’esegesi che fa toccare con mano la ricchezza inesauribile dell’insegnamento di Gesù, la sincerità radicale nel rifiutare di quell’insegnamento le interpretazioni riduttive o di comodo che ne sono state date, conferiscono alla parola di Enzo Bianchi forza ed efficacia; ma perché la parola continui a rendere il servizio per cui è pronunciata, perché possa giungere anche a chi è assente, essa deve farsi libro. I paradossi della croce, in effetti, sono un libro scritto e parlato a un tempo, nato in forma di intervista da trasmissioni radiofoniche, in cui Enzo Bianchi risponde alle domande che gli venivano rivolte dalla conduttrice della rubrica Uomini e profeti. Va subito detto che la conduttrice, Gabriella Caramore, ha saputo andare al nocciolo del messaggio cristiano con domande precise e non reticenti; a lei si devono inoltre le belle pagine introduttive in cui, insieme a ciò che si dice, si è sorpresi dalla bellezza, a tratti poetica, del suo tipo di scrittura.
La croce, campo di conflitto fra morte e vita, condanna e salvezza, ha sempre nutrito la mente e il cuore dei cristiani che hanno voluto spezzare consuetudini di pensiero e pigrizie consolidate, ma essa è al centro del mistero divino della salvezza ed è di lì che è passata la scommessa della fede di Agostino, Lutero, Pascal, Kierkegaard. In un passo del Socrate cristiano di Danimarca si dice che «Il cristiano è un magnifico levriero, ma a forza di accorciarne le gambe, ne hanno fatto un bassotto». Come ciò sia potuto e possa accadere è questione assai complessa, ma è anche, per chiunque osi mettersi in chiaro con se stesso, un dato di esperienza. Certamente il cristianesimo non è un’intuizione geniale, un pensiero formulato da un caposcuola. Esso è la rivelazione di qualcosa di inaudito ed è la fede in un dono che supera ogni attesa; ma non per questo è un diktat impervio al pensiero, né sottomette a torsioni contro natura l’uomo, chiamato a elevarsi alla vita stessa di Dio. Si capisce allora che, rinnovando l’esistenza umana, la fede abbia contribuito in maniera incancellabile a cambiare sotto molti aspetti la cultura, la morale, la filosofia e – come ha mostrato Urs von Balthasar – persino l’estetica. Le conseguenze dell’irruzione, peraltro sempre parziale, del Vangelo nella storia sono un arricchimento straordinario dell’umanità e non vanno disprezzate. Rimane, però, vero che il problema del credente e di chi voglia penetrare il senso cristiano della vita è sempre quello di non estenuare il dinamismo proprio dell’annuncio cristiano, identificandolo ut sic con l’una o l’altra forma storica di ricezioni, da parte dell’umanità, perché nessuna di esse e nessuna elaborazione teologica possono pretendere di esaurirlo.
Perché questo non avvenga occorre rivisitare le fonti di quel messaggio, risalire alla forma di esistenza cristiana delle origini, rituffarsi nel Nuovo Testamento, lasciarsi interrogare dalla parola di Cristo.
Qual è il tipo di approccio al paradosso cristiano tentato da Enzo Bianchi? Giustamente nelle pagine introduttive si indica come chiave di lettura una riflessione del priore di Bose sul tema dell’incredulità. «L’incredulità, l’ateismo, l’agnosticismo mi insegnano che l’affermazione di Dio non è impellente. E se dunque io non sono costretto alla fede, allora io sono libero. E la mia fede è un atto di libertà, non qualcosa di imposto. Ma se esistono i non credenti, allora c’è anche un non credente in me, ed io sono obbligato a confessare che fede e incredulità mi abitano e mi attraversano, che la frontiera passa dentro di me». Ebbene, se un monaco esprime il proprio dubitare in questo modo, perché non scorgere una parallela tentazione di fede nei pensieri e nella vita di chi pure si dice ateo? È essenziale comprendere che la fede cristiana non è una fede che acceca. È piuttosto una fede che interroga e che ci chiede di approfondire ogni questione della vita per poterla mettere in Dio, in doverosa fedeltà a noi stessi e alla verità a cui siamo chiamati.
Degli enigmi e, se si vuole, dei conti che sembrano non tornare, Enzo Bianchi ne propone quattro: il male nel mondo e il dolore di Dio; l’odio e l’amore, o anche la giustizia e il perdono; la santità che sembra follia; il rapporto tra la carne e lo spirito, la terra e il cielo. Questo libro di appena 110 pagine – che però costituisce una vera e propria introduzione alla fede cristiana per l’uomo d’oggi – conduce il lettore a esplorazioni affascinanti ed è ricco di spunti assai felici, che io non ho neppure la possibilità di elencare. Mi limiterò, pertanto, solo a qualche rapido assaggio. Così, ad esempio, a introdurre la domanda lancinante e inesorabile – Lammà? Lammà? («Perché? Perché?») – che sale alle labbra in presenza di un dolore inconsolabile, e che attraversa di continuo i Salmi e i libri dei Profeti, leggo: «Tutti, a Bose passiamo molte ore durante il giorno semplicemente ad ascoltare. Non è che riusciamo sempre a dire una parola. Neppure lo pretendiamo. Ma sentiamo che il dolore deve essere ascoltato». Questa poche righe racchiudono una perla e in esse vi è l’indicazione del solo modo di stare con chi soffre. E, di contro a tanta tenerezza evangelica, come dimenticare che pur-troppo proprio sulla realtà spesso atroce della sofferenza non pochi pastori e asceti hanno tradito lo spirito e la lettera del Vangelo e si sono resi responsabili di un vero e proprio sadismo teologico, arrivando a dire che è Dio stesso a porre l’uomo nella sofferenza? Costoro non parlano come Gesù, ma come i falsi amici di Dio che si accaniscono crudelmente nell’accusare Giobbe, che secondo loro ha avuto solo quel che si è meritato.
Sul tema del perdono e dell’amore Gesù taglia corto con la casistica e formula un imperativo categorico, che esclude cioè qualsiasi eccezione. Solo una metanoia, un cambiamento del proprio cuore per amor di Dio, pone l’uomo in condizione di vedere nell’altro il proprio simile, anche se gli è nemico; e ciò costituisce per il Vangelo la sola vera prova a misura dell’amore di Dio. Ma il perdono può forse cancellare la giustizia? Certo perdonismo insulso e scriteriato vorrebbe farcelo credere: si pensi, ad esempio, al «caso Priebke» e a innumerevoli altri. La risposta di Bianchi mi trova perfettamente consenziente: è fin troppo facile perdonare i nemici e gli assassini degli altri, mentre noi non abbiamo nulla da perdonare per il solo fatto che non siamo stati noi le vittime ed è solo la vittima che può perdonare. Ognuno può perdonare solo per se stesso, non per un altro.
E che dire del cosiddetto «disprezzo del mondo»? Nel 130-140 dopo Cristo l‘A Diogneto aveva chiarito una volta per sempre che la fuga dal mondo non ha alcun senso. Il cristiano fugge non gli uomini, ma solo il male che sporca la creazione. «Ciò che l’anima è nel corpo – scriveva gioiosamente l’ignoto autore di quello scritto – i cristiani lo sono nel mondo». Essere pellegrini, come i cristiani sono chiamati ad essere in questo mondo, non significa affatto essere infedeli alla terra e sentirsi autorizzati a disertare. Il mondo non è solo il luogo dei falsi valori, ma l’opera di Dio che va amata come suo dono. Ed è anche l’occasione per testimoniare i valori veri.
Giornale di Brescia, 24.3.1999.