Per milioni di persone – ragazzi, genitori, insegnanti – questi sono giorni di grandi speranze. E dovrebbe essere così per l’intera comunità nazionale, se fosse più attenta a ciò che è veramente essenziale al suo bene. Comincia un nuovo anno scolastico.
Come professore, proprio da oggi non più in cattedra, rivivo con particolare intensità il giorno del ritorno a scuola. Insieme al festoso ritrovarsi con i giovani degli ultimi anni c’era il desiderio di conoscere i volti di coloro che avrebbero iniziato con me un nuovo cammino e il timore di sciupare le possibilità positive che mi si offrivano incontrandoli per la prima volta. Grande era, e mai si è attenuata negli anni, la preoccupazione di scegliere le cose da dire e il come dirle in quel primo giorno, nella speranza di andare dritto al loro cuore, per destare in essi la coscienza del loro «io migliore», il gusto dell’avventura dell’intelligenza e della scoperta di se stessi. Mi venivano sempre in mente, la vigilia, le parole del filosofo americano Emerson: «Una nuova persona è per me un grande evento e mi impedisce di dormire». In effetti, entrare in rapporto con altri esseri umani è sempre cosa di tale importanza da obbligare il nostro spirito al più alto grado di tensione e non vi è responsabilità più alta di quella di chi pone se stesso al servizio dello sviluppo di persone avviate alla conquista della loro piena umanità.
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«A che serve andare a scuola? Non si potrebbe farne a meno?» chiedono talora con aria scanzonata, se non provocatoria, i figli ai genitori. E spesso le risposte dei genitori, date così sui due piedi, si limitano a ricordare un dato di fatto che nessuno può negare: la inevitabilità del servizio scolastico in una società complessa come quella in cui viviamo. Basta, infatti, immaginare per un attimo di sospendere, di colpo e per sempre, l’istruzione in ogni ordine e grado di scuola nel mondo, perché diventi evidente a ognuno ciò che ne seguirebbe: la disgregazione sociale e l’arretramento dell’umanità, in breve volgere di tempo, all’età delle caverne.
Oggi nessuno più si attende che dall’espansione dei soli fattori economici risulti il progresso di una società e, anzi, si pensa che il progresso economico di una società dipenda esso stesso in gran parte da molteplici fattori, uno dei quali, e non certo ultimo per importanza, è proprio la scuola. La scuola può e deve diventare un coefficiente sempre più decisivo dello sviluppo economico, scientifico e tecnologico tra loro così strettamente interdipendenti. Ma c’è di più: è interesse fondamentale anche dello sviluppo economico di un Paese che la scuola sia prima di tutto strumento di formazione umana, di educazione di tutto l’uomo, perché solo un uomo non dimezzato può recare, anche nel campo del lavoro, un contributo più alto grazie al suo patrimonio di coscienza, di apertura intellettuale, di fede nei valori autentici e in virtù del senso estetico, morale e religioso che la scuola avrà esercitato e affinato in lui.
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Ai colleghi insegnanti e agli studenti, diretti protagonisti del rapporto educativo nella scuola, vorrei dire almeno un paio di cose. Impegnatevi seriamente, cari colleghi, nella lotta per migliorare in maniera sostanziale la vostra indecorosa condizione economica; ma non fate pagare mai ai ragazzi, che vi sono stati affidati e che sono incolpevoli, la cecità, l’incuria, le inadempienze di governi e sindacati. La caratteristica della grandezza morale è la determinazione nel rendere il servizio migliore anche nelle circostanze più avverse. La scuola esige tale eroismo: se in essa non amiamo il cuore dei ragazzi, perdiamo il nostro.
Agli studenti mi permetto di dire: siate tra voi soci, nel senso latino del termine, uniti cioè in una medesima impresa, compagni, come diciamo noi con una parola che aggiunge al primo termine una sfumatura bellissima, significando appunto «quelli che mangiano lo stesso pane». Tocca essenzialmente a voi, ragazzi, creare nella classe un rapporto di aiuto fraterno, di comprensione, di allegria e, con i professori, un clima di reciproca stima e schiettezza. L’amicizia è come un albero: bisogna piantarli per tempo per goderne i frutti. Io l’ho sperimentato per tutta una vita: niente vale il tesoro di tanti ricordi comuni, bronci e riconciliazioni, comuni fatiche, timori e scappatelle; nulla potrà mai sostituire il bene di un’amicizia nata tra i banchi della scuola.
Giornale di Brescia, 17 settembre 1987.