La prima fase della religione indiana, quella del vedismo, abbraccia più di un millennio, dal XVI all’XI secolo a.C. La seconda fase è detta brahmanesimo a indicare non solo il persistere della credenza nel Brahman, energia universale e spirito che si oppone alla materia, immagine e manifestazione dell’Assoluto, ossia dell’Uno, ma anche, dopo il predominio dei guerrieri, quello dei brahmani, degli appartenenti alla casta sacerdotale, i soli custodi della parola sacra, gli unici a officiare i riti magico-sacrificali mediante i quali dispongono, per così dire, del Brahman. La supremazia dei brahmani nella vita religiosa e nella società dell’India si estese dal X al VI secolo a.C. E, come vedremo, fu messa in crisi – all’interno – dall’induismo e – all’esterno – da nuovi movimenti religiosi, quali il jainismo e il buddhismo. Un proverbio del tempo afferma addirittura: “Il cosmo intero è sottomesso agli dèi, gli dèi sono sottomessi agli scongiuri imploranti e gli scongiuri dipendono dai brahmani. Perciò i brahmani sono i nostri dèi”. I testi letterari del brahmanesimo sono costituiti, oltre che dai Veda, da tre tipi di scritti: i libri di commento ufficiale dei Veda e di spiegazione di antiche leggende, i Brahmana, elaborati tra il 900 e il 700 a.C.; i Testi della Foresta, rivolti a eremiti, con forte accentuazione mistico-ascetica; e le Upanishad, o libri della “dottrina segreta”, accessibile solo a chi sa “stare seduto accanto” al maestro (espressione questa che traduce letteralmente la parola Upanishad). Le Upanishad sono, dunque, le raccolte degli insegnamenti spirituali dei maestri: 108 trattati mistico-filosofici – secondo la tradizione – che costituiscono la fonte primaria della spiritualità indiana. Le Upanishad più antiche risalgono a un periodo che va dall’800 al 500 a.C. Le altre appartengono a epoche più recenti. Nella prima metà dell’800 Schopenhauer trasse dalla loro lettura molteplici suggestioni e termini, contribuendo a rendere celebri quei testi in Europa.
Per la terza fase della storia religiosa dell’India, di cui si possono cogliere le elaborazioni originarie intorno al 500 a.C., si ricorre al termine induismo. Quando Jina (il “Vittorioso”, fondatore del jainismo) e Buddha (il “Risvegliato”, fondatore del buddhismo) avviano la loro predicazione tra il VI e il V secolo a.C., la religione brahmanica è già morta, o perlomeno agonizzante. La trasformazione della religione brahmanica nell’induismo si collega alla comparsa non di un fondatore, ma di un nuovo modello di vita religiosa: una categoria di uomini che spezzano qualunque legame sociale, si sganciano da ogni possesso e diventano pellegrini dell’Assoluto per le strade dell’India. Il pantheon mitologico è ancora molto affollato, anche se al vertice degli dèi c’è un Dio, Brahma, e una sorta di Trinità, la Trimurti, in cui Visnir vigila sulla bontà dell’universo, mentre Siva è la forza che lo trasforma (e che può anche annientarlo). L’evoluzione dal politeismo al monoteismo è evidente, benché nell’oscillazione fra una concezione personale e una impersonale del Brahman, l’accento cada su quest’ultima. I caratteri dell’induismo, che permangono nel variare delle tradizioni e nel succedersi delle epoche, sono: la credenza nella reincarnazione e in una Norma Eterna (Dharma) che esprime l’ordine stesso del cosmo; la visione ciclica dell’universo, secondo cui il mondo si dissolve per dare inizio a un altro universo, a una nuova età dell’oro; un complesso sistema di tabù alimentari e il vegetarianismo come ideale; il primato assoluto della concentrazione meditativa e la tendenza all’inazione; la non violenza e le sue modalità di attuazione quali il digiuno e il sacrificio di sé. Forte è pure la tendenza a identificare induismo e indianità, facendo dell’India l’habitat esclusivo della Norma Eterna, la sua Terra Santa. I brahmani, che non hanno più potere politico e finanziario, sono riusciti tuttavia a imporre come mentalità l’equivalenza tra induismo e ideologia di casta. La qual cosa ripugna profondamente alle correnti riformatrici contemporanee, le quali vogliono porre la parola fine a una così radicata tradizione e a pratiche ancestrali che una coscienza religiosa autentica non deve tollerare (come, ad esempio, il sacrificio rituale della vedova bruciata viva, o il matrimonio preordinato dai genitori per i loro figli ancora in tenera età).
Il contatto della società indiana con le istituzioni politico-giuridiche dell’Europa e soprattutto con il cristianesimo ha comportato una serie di reinterpretazioni della religione tradizionale e la spinta a cambiare atteggiamento di fronte alle sfide dell’esistenza. Le correnti religiose riformatrici, molto sensibili all’incontro con altre culture e fedi, sono confluite nel vasto, multiforme movimento del neo-induismo. Il mistico bengalese Gadadhar Rarrtakrishna (1836-1886) e il suo discepolo Narendra Vivekananda (1863-1902), sono suoi esponenti di primo piano. Su di loro richiamarono l’attenzione il filosofo statunitense William James e il pensatore franceseHenri Bergson; Romain Rolland ne scrisse la biografia.
Il neo-induismo tenta contemporaneamente di assimilare i valori occidentali e di rendere la saggezza indiana accessibile all’Occidente. In questo clima religioso si formò anche il maggior leader spirituale e politico dell’India contemporanea, Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948). Gandhi – anche se impegnato a liberare l’induismo dal politeismo, così come dall’intolleranza e dai pregiudizi – affermava di non essere un riformatore religioso; tale comunque venne considerato dai suoi discepoli, che riconoscevano una validità universale ai principi e ai metodi della sua azione politica. “Gandhi – osserva Jean Varenne – applica alla lotta politica dei metodi ripresi dall’orizzonte religioso degli induisti e dei jainisti: il digiuno di penitenza, il sacrificio di sé detto satyagraha, o “potere di verità”, e soprattutto la non-violenza. Ma egli si opponeva con tutta l’anima al sistema delle caste” (L’induismo contemporaneo, in “Storia delle religioni” a cura di C. Ch. Puech, vol. 13, Laterza, Bari). L’eredità spirituale di Gandhi segna uno dei vertici più alti per l’umanità. Attraverso la sua testimonianza anche i cristiani sono stati sollecitati a riscoprire lo slancio mirabile e la bellezza del Discorso della Montagna.
Giornale di Brescia, 12.11.1994