Giornale di Brescia, 16 gennaio 2003
Si parla oggi, forse troppo pessimisticamente, di “inverno ecumenico”, ed effettivamente l’unità visibile del mondo cristiano appare sempre lontana. Dopo i notevoli e irreversibili passi in avanti promossi dal Concilio, oggi le Chiese sembrano quasi chiedere una pausa di riflessione. La “diversità riconciliata” che è stata raggiunta – pensa qualcuno – non è già una base sufficiente per tante azioni in comune a pro di un’umanità bisognosa di Cristo, della sua misericordia, della sua pace?
Chi però non rinuncia alla speranza forte dell’unità visibile pensa a una prossima coraggiosa ripresa del cammino ecumenico da parte delle Chiese e confessioni cristiane. Esse potrebbero adire a quelle “cose nuove” che, nel pieno rispetto del Vangelo di sempre, le avvicinerebbero ulteriormente all’unico Cristo e, di conseguenza, anche reciprocamente fra di loro.
In questa situazione di apparente stasi, il ricordo di taluni “momenti magici” vissuti dal movimento ecumenico potrebbe non essere sterile nostalgia, ma un “prendere la rincorsa” verso il futuro. Uno di questi momenti ci viene offerto da una pagina altamente suggestiva, conservata nel nostro archivio della “Pace”, nella quale il Vescovo padre Carlo Manziana rievoca quella “chiesa della deportazione” che era stata la sua a Dachau.
Fatto vescovo dal Papa bresciano Paolo VI e pertanto presente al Concilio, egli scrive: “L’incontro ecclesiale nel lager, fortuito per le menti umane ma non nel disegno della Provvidenza, ha abbozzato e anticipato il solenne incontro vaticano; un dialogo si è aperto, un’amicizia ha richiesto uno sviluppo di ulteriore intesa non solo nelle nazionalità, ma delle differenze di confessione, non per vago irenismo, ma in vista della totale verità nella pienezza della carità. La cappella di Dachau dove preti cattolici di tutta Europa insieme a ortodossi ed evangelici innalzavano unanimi la loro preghiera al Crocifisso, è stato l’umile simbolo di questa realtà eccezionale della preghiera di vescovi e osservatori che, unanimi, cercano, in San Pietro, quale sia la volontà del Signore…”.
“Eccezionale è lo spettacolo della basilica vaticana inondata da una moltitudine di pastori che, sia nella pittoresca varietà degli abiti orientali che nell’uniformità delle vesti latine, mantengono volti e fisionomie che denotano la loro origine… Mai la Chiesa potè esprimere così suggestivamente la sua cattolicità. Eppure ad alcuni superstiti la memoria ravviva la visione di una massa internazionale e interconfessionale di ecclesiastici in zebra o in abiti di fortuna che in Dachau soffrirono e pregarono insieme, sperarono e quasi profetarono nell’umiliazione quanto oggi avviene nello splendore della basilica vaticana”.
La deportazione come profezia ecumenica! Mette i brividi il pensiero dell’estrema umiliazione di tanti ammirevoli testimoni della libertà di Cristo! Sì, proprio dei fragili “vasi di terra (2 Cor 4,5) dovevano sentirsi quei poveri deportati nelle sadiche mani dei loro aguzzini. Essi, tuttavia, sapevano di custodire, per il futuro del mondo, un tesoro incommensurabile, il Cristo che li univa. Una riflessione e una domanda.
A Dachau c’erano da una parte cristiani cattolici, protestanti e ortodossi, che soffrivano e speravano insieme. Dall’altra, dei feroci despoti anch’essi, anagraficamente, cattolici, protestanti e ortodossi.
Ci chiediamo: da che parte era il Cristo? Dove stava, in realtà, davanti a Dio, la vera divisione dei cristiani?