Catullo non fu solo il cantore di Lesbia e del suo tormentato amore; il suo libro, oltre a contenere le poesie d’amore e un piccolo gruppo di componimenti eruditi, ci propone la testimonianza più varia e più fedele di quella che potremmo chiamare un’autobiografia poetica, una specie di giornale intimo di eccezionale sincerità e di alto valore storico.
Qualcuno ha affermato infatti che c’è più vita di Roma nelle sue nugae (così Catullo stesso chiama modestamente le sue poesie, "cosucce, cose di poco conto") che nei molti libri di un Livio o di un Tacito. I suoi versi rispecchiano infiniti aspetti della vita quotidiana, rivelando un animo sensibile, capace di sentimenti generosi verso parenti e amici, ma anche senza pietà verso i nemici, di cui mette in pubblico i difetti, i vizi più turpi. Perciò, accanto all’amore, l’altro grande tema della poesia di Catullo è l’amicizia, cui si aggiunge l’ironia, l’invettiva o il sarcasmo per chi amico non è.
Quando era ancora a Verona fece le sue prime prove poetiche, rivelando subito le sue doti caratteristiche di osservatore attento e vivace della realtà quotidiana. A Verona appunto c’era un ponte decrepito che i cittadini avrebbero voluto che fosse ricostruito; egli si impadronisce dell’argomento e finge di interessarsi alla questione, ma, in realtà, coglie l’occasione per sfogare la sua ira contro un vecchio che non badava alla giovane moglie, degna di essere tenuta d’occhio più dell’uva matura: al povero marito farebbe fare volentieri un capitombolo giù dal ponte sconnesso, perché lasci nella melma il suo torpore (c.17). Altrove interroga abilmente una porta chiacchierona per godersi il racconto di certi scandali che avvengono nell’intimo di quella casa (c.67), con l’accenno anche a Brescia, dove era giunta la fama di quegli scandali.
Ma ben presto la città provinciale dovette sembrargli troppo angusta, Roma era ormai la meta suprema di tutte le ambizioni, punto verso cui gravitava tutta la vita politica e culturale del mondo. E a Roma anche Catullo si recò appena ventenne, pieno di sogni e di speranze. Qui fu subito attratto da una cerchia di uomini d’ingegno e di poeti che avevano comuni interessi e che per la novità della loro poesia furono chiamati da Cicerone, con un certo disprezzo, poetae novi. Tra essi c’erano uomini di studi più severi, come Cornelio Nepote, che secondo l’espressione di Catullo "primo degli italiani aveva osato svolgere la storia di tutti i tempi in tre libri, dotti, per Giove, e frutto di molta fatica": a lui il poeta dedicò la sua raccolta di versi.
Ma gli altri erano più giovani e furono compagni di Catullo nei piaceri non meno che negli studi. Con essi in particolare rivela il suo carattere, gaio e brillante, di parola viva e mordace, franco e aperto, impulsivo ma pieno di cuore e di tenerezza per i suoi amici. Nessuno ha cantato l’amicizia come lui, nessuno ha trovato accenti più semplici e sinceri dei suoi. Quante cose egli dice con viva gioia e sincera commozione del suo Veranio e del suo Fabullo, che tornano sempre insieme come una coppia di gemelli; e dei suo Licinio Calvo, poco più giovane di lui, che fu elegante poeta e oratore e morì giovane come Catullo; e del suo Elvio Cinna, del quale esalta i versi con grande calore, Cinna, che per essere nativo di Brescia meriterebbe da parte nostra maggior attenzione, se lo spazio ce lo consentisse. Questi amici scherzavano insieme e componevano versi a gara.
A Calvo scrive dopo una gara del genere, nella quale l’amico aveva dimostrato tanta grazia e spirito acuto, nel carme 50, in cui esprime la sua ansia di ritrovarsi presto ancora con l’amico e rinnovare la gara poetica. Nel carme 53 ci informa che Calvo era un omettino da nulla, tutto voce e arguzie e ci racconta un aneddoto che gli dà modo di esaltare spiritosamente l’amico. Sarebbe bello passare in rassegna questi carmi, in cui i vari amici del poeta ci sono raffigurati con eleganza e arguzia insuperabili. E insieme alle figure delle persone sarebbe piacevole anche richiamare episodi minuti di quella vita allegra e frivola cui essi partecipavano: ecco piccoli sdegni del poeta, ecco piccole bricconate dei suoi conoscenti, ecco scenette colte dal vero con freschezza di rappresentazione.
Un epigramma si rivolge minaccioso contro Asinio Marrucino, che nei conviti ha il brutto vezzo di rubare il fazzoletto a chi non vi bada (c. 12); altrove (c. 13) invita Fabullo a cena e gli assicura che sarà una cena splendida, purché se la porti con sé: la sua borsa infatti è piena di ragnatele (e non di denaro!); ma per parte sua il poeta offrirà un profumo soavissimo, regalatogli dalla sua donna. In un altro carme (10) ci racconta che la bella di un amico, Varo, credendo che Catullo, nel suo viaggio in Bitinia al seguito del pretore Memmio, avesse almeno guadagnato tanto da acquistare alcuni schiavi da usare come portatori di lettiga, cerca di farseli prestare mettendo in imbarazzo il poeta, che non vorrebbe far sapere che è tornato dalla Bitinia a mani vuote, diversamente dagli altri romani che andavano nelle province al seguito di consoli o pretori. E’ davvero un piccolo capolavoro di vivacità e arguzia.
Invece non possiamo non stupirci della libertà e spregiudicatezza di linguaggio che Catullo usa nelle invettive contro i suoi nemici, tra le quali sono da ricordare quelle contro alcuni personaggi politici del suo tempo e soprattutto contro Cesare e Pompeo. Ma anche la violenza delle invettive serve a rivelarci il suo carattere di poeta: si ritrovano qui le stesse sue vivacità, lo stesso impeto che egli mette nell’espressione dei suoi sentimenti d’amore o d’amicizia. Ricordiamo il carme 9: l’amico Veranio torna dalla Spagna e un tumulto di affetti si ridestano nell’animo del poeta: in undici versi, senza l’aggiunta di nessun ornamento al puro sentimento, è espressa con grande immediatezza la gioia sua e dell’amico, gli abbracci, i lunghi discorsi che faranno insieme.
La sincerità, la lealtà, la fides, come la chiamerebbero i Romani, sono alla base del suo carattere, che lo porta a vivere con animo aperto e attento verso gli amici, a prendere parte ai loro dolori e ai loro amori. Così prega il suo Cecilio (carme 35), il "tenero poeta", come lo chiama, a lasciare Corno e a correre a lui che vuole comunicargli certi suoi pensieri: e subito gli si presenta l’immagine di una bianca fanciulla che vorrà trattenerlo buttandogli al collo le candide braccia. Catullo prega dunque l’amico di non lasciarsi trattenere, ma disegna l’immagine della fanciulla con tratti così delicati e così teneramente ne descrive il dolore, che quasi sembra si affligga per lei e per lui. Nei tre distici (carme 96) che Catullo manda a Calvo, che ha perduto la fedele e amata Quintilia, vi è un così penetrante sentimento e una così intensa e malinconica partecipazione al dolore dell’amico, come se ne incontrano solo nei più grandi poeti moderni: "Con quanto rimpianto rinnoviamo il ricordo degli antichi amori e piangiamo gli affetti perduti". Ma la traduzione non può rendere tutta la vibrazione malinconica che c’è nel testo latino, di sapore, direi, virgiliano.
Mobilità e verità di sentimenti, spontaneità di affetti sono il grande privilegio di Catullo: si pensi al grido sincero che gli strappa, tornando dall’Asia Minore, la vista della sua bella Sirmione, ridente sulle onde del lago (c.31), e l’abbandono commosso con cui saluta la tomba del fratello troppo presto strappato al suo affetto (c.101), o le mirabili strofe del canto composto per le nozze di Manlio Torquato, nelle quali augura che presto un piccolo Torquato sorrida alla mamma con le sue tenere labbra anelanti ai baci di lei (c.61). Anche da questi pochi esempi si vede ancora come oggi sia possibile trovare nei versi di Catullo qualcosa di caldo, di giovanile, di impetuoso, che fa vibrare il cuore del lettore.
Egli fece per la poesia latina ciò che fece Cicerone per la prosa: la ereditò acerba e la trasformò in un’arte matura, che solo Virgilio era destinato a superare.
Giornale di Brescia, 20.11.1990.