Pensando a Seneca, viene spontaneo ribadire la grande validità dell’insegnamento di tutta la sua opera, così moderna nel pensiero e nello stile e così diversa dall’immagine un po’ aulica ed eroica che molti hanno del mondo classico.
Se quanto sto dicendo appare evidente in tutti i cosiddetti dialoghi di Seneca, risulta particolarmente chiaro dalle Lettere a Lucilio, un’opera stimolante per ogni uomo moderno che cerchi nelle pagine di un libro e nella pausa di una buona lettura un viatico per le difficoltà, le angosce e i dubbi del vivere quotidiano. Queste lettere erano casuali chiacchierate confidenziali indirizzate all’amico Lucilio, ricco governatore della Sicilia, convinto epicureo.
Io credo che non ci sia in tutta la letteratura latina un libro più piacevole di queste lettere, che tentano con eleganza di adattare lo stoicismo alle necessità di un uomo ricco ed impegnato nella vita pubblica. Si può dire che inizia con queste epistole quella forma di libero saggio che sarà lo strumento preferito di Plutarco e di Luciano, di Montagne, di Voltaire, di Bacone. Leggere queste lettere significa mettersi in corrispondenza con un Romano illuminato, umano, tollerante, che aveva raggiunto le più alte vette e al tempo stesso conosciute le bassezze della vita, dell’arte di governo e della filosofia. E’ uno Zenone che parla con le dolcezze di Epicuro e il fascino di Platone. Seneca si scusa con Lucilio per la trascuratezza del suo stile, che però è piacevolissimo: “Io desidero che le mie lettere siano per te proprio quello che sarebbe la mia conversazione se tu ed io stessimo seduti o passeggiassimo l’uno accanto all’altro”. “Io scrivo questo aggiunge non per molti, ma per te; ciascuno di noi è uditorio sufficiente per l’altro”. Descrive i suoi attacchi d’asma con vivacità, ma senza commiserarsi e li chiama scherzosamente: "Un impratichirsi di come si fa a morire". E’ vecchio, ma solo fisicamente: "La mia mente è forte e sveglia; la vecchiaia è il periodo della perfezione per l’intelletto".
La prima lezione che Seneca ci dà è che non possiamo essere saggi in tutto. Noi siamo frammenti dell’infinito e momenti dell’eterno. Dio è per lui la provvidenza che vigila su ogni cosa, è negazione della casualità e del disordine; è la causa prima di una infrangibile catena di cause ed effetti; è il Fato che guida chi vuole e trascina chi non vuole; è anche, in altri passi, immanente nell’uomo e nella natura tutta. Parla con fiducia di una vita al di là della morte, ma altrove chiama l’immortalità un bel sogno; dice che la morte è un "non esistere", ma poi, sulla scia di Platone, definisce il corpo come un carcere dell’anima. Queste incertezze sono segni evidenti di una mente non dogmatica, ma in perenne ricerca della verità. Le stesse esitazioni turbano e nello stesso tempo danno grazia alla sua filosofia morale. Se lo stoicismo è il pilastro del suo pensiero, Seneca era però troppo indulgente per essere solo e totalmente stoico. Ma il suo non è né dilettantismo, né eclettismo; le sue scelte sono meditate: come Epicuro disprezzava la cultura enciclopedica, Seneca non ama le scienze esatte né la retorica, perché non nutrono l’anima. Egli vede intorno a sé l’immoralità che fiacca il corpo e avvilisce l’a¬nima senza soddisfare né l’uno né l’altra; l’avidità e la lussuria hanno compromesso la tranquillità e la salute e il potere ha fatto dell’uomo un bruto più abile.
Come ci si potrà liberare da questa inquietudine che tormenta l’uomo del suo secolo come i nostri contemporanei? Seneca comprende che il male più pericoloso per l’anima è, oggi come allora, il vuoto interiore, la dissipazione. E’ necessaria la conquista di una autonomia spirituale attraverso il potenziamento della volontà, un severo esame interiore e il possesso della filosofia che insegna a vivere e a morire. Il motivo della sosta, del raccoglimento, del colloquio con se stessi diventa il motivo centrale e culminate del pensiero di Seneca ed è un motivo estremamente valido anche oggi, perché rappresenta l’unica strada per superare e vincere l’alienazione del nostro tempo, che è poi di ogni tempo: la dicotomia fra chi si lascia vivere e gli esseri pensosi di sé e della propria vita.
La filosofia non è per Seneca scienza per iniziati, ma è scienza della saggezza, anzi si identifica con essa e la saggezza è appunto l’arte di vivere. Non il piacere, ma la felicità, fondata sull’onestà, sulla giustizia, sulla gentilezza d’animo, è lo scopo della vita. Coloro che fanno del piacere il fine della loro vita sono come il cane che afferra ogni pezzo di carne che gli viene gettato, lo inghiotte e poi, invece di starsene contento, rimane a bocca aperta, ansioso ancora, in attesa di un altro pezzo.
Ma come si conquista la saggezza? Praticandola quotidianamente, risponde Seneca, essendo severi con se stessi e indulgenti con gli altri, frequentando la compagnia di altri saggi, leggendo pochi buoni libri parecchie volte, piuttosto di leggerne molti affrettatamente, evitando la folla, perché "gli uomini sono più cattivi insieme che separati". Quanta verità e attualità in questa affermazione! Non consiglia tuttavia un atteggiamento individualistico, ma il significato dell’insegna¬mento di Seneca è che anche tra la folla bisogna sapersi ritirare in se stessi, e che dalla moltitudine bisogna essere dissimili, non lontani. Visto il fallimento della sua opera mediatri¬ce accanto a Nerone, non passa all’opposizione; per lui non è essenziale la partecipazione politica. Anche nella quiete e nell’isolamento sente di aver raggiunto la pienezza di vita. Ormai intende servire la società con la guida della parola; egli sente che attraverso le Lettere a Lucilio potrà raggiungere tutta l’umanità anche futura. Non è dunque un ripiegamento, ma un’ascesa.
Un altro grande insegnamento che scaturisce da quest’opera di Seneca riguarda l’atteggiamento di fronte alla vita e alla morte. La vita deve essere intensamente vissuta e tesa al raggiungimento di beni autentici e duraturi. La morte non deve essere attesa con viltà o con paura, ma accolta come un evento naturale. Anzi la vita non è sempre così bella che valga la pena di continuare viverla: "Che cosa è più meschino che tormentarsi alle soglie della pace?… per me ho vissuto abbastanza a lungo, ho avuto quanto basta e aspetto la morte". La vita lo prese in parola. Nerone mandò un tribuno a chiedergli di discolparsi dall’accusa di aver congiurato contro di lui; Seneca rispose che da tempo non si interessava più di politica. Quando il tribuno tornò a riferirgli l’ordine di morire, egli ascoltò il messaggio senza mostrare sgomento o paura, ma rivelò un animo sereno e forte, dimostrando a quanti lo accusavano di incoerenza e di ipocrisia che egli aveva dato appuntamento per quel supremo momento della morte perché giudicassero la sua vita. Si fece tagliare le vene e attese serenamente la fine, confermando che quanto aveva insegnato e scritto sul disprezzo della morte non erano parole vane.
Seneca, come tutti gli stoici, sottovalutò forse il valore dei sentimenti ed esaltò il potere della ragione. Il suo pessimismo, la sua condanna dell’immoralità e della sensualità volgare, il suo disprezzo per i tragici giochi del circo, il suo consiglio a rispondere con la gentilezza all’ira, la sua costante meditazione sulla morte, il suo atteggiamento umano verso gli schiavi, la sua concezione di una fratellanza universale dell’uomo, la sua filantropia (porgere la mano al naufrago; dividere il pane con l’affamato; è maggiore infelicità fare il male che subirlo) fecero sì che Tertulliano lo chiamasse "nostro" e indussero sant’Agostino ad esclamare: "Che cosa di più potrebbe dire un cristiano di quello che disse questo pagano?". Egli non era cristiano, ma invocò la fine della corruzione e della violenza e aspirò a veder ridotte le distinzioni fra liberi, liberti, e schiavi a "meri titoli nati dall’ambizione e dall’ingiustizia".
Nerva e Traiano si formarono in una certa misura sui suoi scritti e furono ispirati dal suo esempio ad un metodo di governo coscienzioso ed umano. Petrarca lo pose subito dopo Virgilio, Montaigne lo citò con lo stesso amore con cui Seneca aveva citato Epicuro; Emerson lo lesse più volte e divenne il Seneca americano. Qualcuno osservò che in lui ci sono poche idee originali: ma forse vale la pena ricordare che in filosofia ogni verità è antica e solo l’errore è originale. Nonostante le contraddizioni tra la sua vita e i suoi scritti, Seneca fu il più grande filosofo romano e uno degli uomini più saggi che mai siano esistiti.
Giornale di Brescia, 08.10.1991.