Nelle Historiae di Tacito si agita la moltitudine e si profila più vastamente e paurosamente il carattere della folla, gli individui hanno una dimensione più ridotta.
Negli Annales prevale, invece, la psicologia individuale, del singolo, e si profilano "grandi e tristi figure su uno sfondo inerte e monotono di spettatori". Già nel libro IV, 32 33 degli Annales, Tacito ha la consapevolezza di dover descrivere un’età infelice "senza gloria". Questa consapevolezza va accentuandosi e chiarendosi col procedere dell’opera, che trova nel XV e XVI libro il suo culmine di tragicità e cupezza, soprattutto nella serie di condanne a morte inflitte da Nerone per punire i membri della congiura di Pisone, fallita soprattutto per la debolezza e l’incertezza del suo capo. Accanto agli altri avvenimenti che sono narrati nel XV libro la guerra contro i Parti, l’incendio di Roma, la persecuzione dei cristiani emerge tutta la mostruosità dei principe, che sembrò regnare con saggezza finché, adolescente, ebbe accanto come guida e maestro il filosofo Seneca, il quale sopportò le prime follie del suo discepolo, ma se ne allontanò quando l’insofferenza di ogni tutela fece di Nerone un matricida. Per altro, l’uccisione di Agrippina fu in qualche modo l’alba sanguigna di questo regno, che ebbe poi il suo culmine di crudeltà, come si è detto, nella persecuzione dei membri della congiura di Pisone, la cui descrizione costituisce la parte più significativa del libro.
Proprio in questi capitoli emerge il pessimismo senza speranza dello storico, che non scorge più per il futuro la possibilità di un regno politico migliore di quello esistente e ormai si rende conto che il male peggiore dell’impero consiste nel fatto che il governo di uno solo ha posto fine alla libertà politica, facendo dell’imperatore un vero tiranno, avido di potere e sospettoso di ogni suddito che si distingua per nobiltà d’animo e altezza d’ingegno, favorendo così l’infiacchimento delle coscienze e il servilismo. Proprio nel servitium contrapposto alla libertas si riassume l’antitesi fra l’impero e la repubblica, ma tornare alla repubblica era ormai impensabile e irrealizzabile in quanto la vecchia aristocrazia, la vecchia classe dirigente, decimata e degenerata, non era più in grado di assumere la direzione dello Stato. Da qui il cupo pessimismo degli Annales, tanto più che con la congiura pisoniana Tacito vede travolti e spietatamente mandati a morte un’intera generazione di anime nobili e colte, da Seneca a Lucano, ad alcuni parenti dello stesso Seneca, a Petronio: Nerone non ha più freni, al punto da colpire tra i primi il suo vecchio maestro, da anni ritirato nel silenzio dei suoi studi, e il poeta Lucano, di cui durante l’adolescenza era sinceramente amico, ma che aveva allontanato, temendo che la sua arte potesse fare ombra al proprio sfrenato desiderio di primeggiare anche come poeta.
Di questi due libri fondamentali dell’opera di Tacito, il XV e il XVI, vorremmo brevemente fermare la nostra attenzione sui capitoli in cui appunto più si esprime da un lato la crudeltà di Nerone e dall’altro l’acrimonia, l’odio, il pessimismo dello storico.
Processi e persecuzioni degli imperatori contro l’aristocrazia hanno largo spazio nell’opera di Tacito, ma nessun processo ebbe una così vasta risonanza come quello del 65 d.C. per l’importanza della congiura e per la fama dei suoi membri.
Dobbiamo ricordare inoltre che per Tacito la storia è testimonianza di grandi azioni e di grandi esempi sia nel male che nel bene e la condotta stessa dei congiurati gli offriva insigni esempi di altezza e di viltà d’animo: proprio la figura del protagonista della congiura contrappone alla nobiltà e all’audacia dei propositi il meschino egoismo, le vanità, le debolezze e le incertezze dell’indole. Il pessimismo di Tacito, però, non limita la sua critica corrosiva al solo Pisone, ma lo estende a tutto l’ambiente, ricercando, più che i motivi ideali, il gioco segreto delle passioni, degli interessi, delle ambizioni e dei risentimenti.
Appena la congiura fu scoperta, come sempre accade per un’imprudenza o per il crollo del più debole che cede alle minacce o alle lusinghe, anche gli onesti, perduta la speranza di salvare se stessi e i compagni, si arresero e parlarono. Triste storia e terribile dramma delle coscienze! Così anche Lucano, il poeta del Bellum civile o Marsalia, avrebbe denunciato la madre: la cosa sembra enorme e tanto più strana per il fatto che, nonostante la denuncia, la madre fu lasciata in vita. Ciò lascia dubitare che la notizia fosse lanciata dal principe stesso, per ostentare la sua generosità verso la donna ed infamare la memoria del giovane poeta, suo rivale d’arte.
Tra le prime vittime della congiura fu Epicari, già in carcere per una delazione: Nerone ordinò di torturarla, sicuro che quella donna non avrebbe resistito, ma nonostante il furore dei suoi torturatori ella resistette un primo giorno, e il secondo, prima che riprendessero le torture, trovò il modo di morire. Tacito osserva che questa liberta, in una situazione così grave, difendeva gente estranea e quasi a lei sconosciuta, mentre cavalieri e senatori si affrettavano a tradire le persone più care per la speranza di una salvezza ormai improbabile. Il racconto dell’eroismo di Epicari, sobrio ed esente da retorica, vibra di quella tensione spirituale tipicamente romana che nasce dall’ammirazione della virtù, ma per contrasto mira a condannare l’aristocrazia romana degenere e immemore della constantia avita, vinta da un’umile liberta. Di fronte allo spettacolo di tanta viltà, l’animo di Tacito freme di sdegno e, con questa nota di dolorosa amarezza, si conclude il giudizio negativo sui congiurati che al momento della prova non seppero mettere in pratica i loro dogmi altezzosi. Così una generazione di cavalieri e senatori cadde sotto la ferocia, suggerita anche dalla paura, di Nerone, che per impedire ogni fuga "chiuse Roma come un carcere, avendo fatto occupare le mura da un manipolo" (XV, 58).
I paragrafi che seguono sono di una tragica monotonia, in cui si susseguono gli ordini di morte inviati da Nerone per tutta Roma. Noi ci soffermeremo su due sole vittime, particolarmente importanti e significative: Seneca e Petronio. Seneca, che si era ritirato a vita privata per non compromettersi con i delitti di Nerone, viene fatto ricercare e, al tribuno che riferisce le parole con cui egli nega ogni responsabilità nella congiura, Nerone senza mezzi termini chiede se Seneca si prepara al suicidio. Il tribuno allora dichiara che non ha colto alcun segno di terrore o di tristezza. A questo punto Nerone comanda di recare a Seneca l’ordine di morire. Il filosofo, cui viene impedito di fare testamento, dichiara agli amici che lo circondano che lascia loro la sola e la più bella cosa che possiede, l’esempio della sua vita. Quindi abbraccia la moglie che vuole fermissimamente morire con lui e con un sol colpo recidono le vene del braccio. Tacito, di fronte alla morte di Seneca, dichiara "A chi mai era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai, dopo aver ucciso madre e fratello, che aggiungere l’assassinio del suo educatore e maestro". Un maestro di saggezza, che nel momento della morte vede culminare e realizzare il suo insegnamento ideale e si leva con lo sguardo già distaccato dalle contingenze terrene al di sopra anche della commozione dei discepoli.
Fra i condannati più insigni vi è anche Petronio, il misterioso personaggio di cui abbiamo notizia solo da Tacito: gran signore, colto, di modi squisiti, di nobile famiglia, dopo un’apprezzabile carriera politica si era ritirato fra gli ozi e gli agi della vita privata. Ma a Petronio nocque l’invidia di Tigellino, l’anima nera di Nerone, che lo sentiva tanto superiore a sé. Ricevuto l’ordine di morte, si fece tagliare le vene e, come un’ultima beffa, nei codicilli che inviò a Nerone in forma di testamento, inserì il racconto delle dissolutezze del principe e della sua corte.
La pagina che contiene il profilo e la morte di Petronio è indubbiamente tra le migliori di Tacito per mirabile coerenza psicologica. Anche lo stile si fa fluido, alieno dagli scatti moralistici e dalla sintassi complessa che gli è propria, quasi che l’epicureismo sorridente di Petronio abbia esercitato un potere distensivo sul volto corrugato e contratto dello storico.
Giornale di Brescia, 5.2.1997.