Plutarco racconta che Cesare Augusto, avendo sorpreso una volta un suo nipote con un libro di Cicerone nelle mani ed avendo cercato il giovane di nasconderlo, gli si avvicinò e gli tolse il libro, ma per leggerlo egli stesso. Ne scorse infatti parecchie pagine, rimanendo in piedi accanto al nipote, poi glielo restituì dicendo: "Uomo insigne fu questo, o figliuolo, grande di pensiero e di cuore; amò molto la patria".
Il racconto di Plutarco dimostra che Augusto, il quale, quando si costituì il secondo triumvirato, lasciò che Cicerone fosse posto in cima alle liste dei proscritti fatti uccidere da Antonio, aveva capito tutta la grandezza di colui che era stato l’artefice della sua fortuna e che egli aveva ripagato con tanta ingratitudine.
Che Augusto sentisse anche l’obbligo morale di una riparazione pubblica alla memoria di colui che, facendogli assegnare dal Senato un esercito sebbene fosse giovanissimo, gli aveva aperto la via dell’Impero, appare anche dal fatto che tredici anni dopo la morte di Cicerone, avvenuta nel 43 a.C., e dopo aver trionfato su Antonio, volle come collega nel consolato proprio il figlio del grande oratore.
Cicerone amò certamente la patria come afferma Augusto nel racconto di Plutarco, e si impegnò per salvaguardarne la dignità e l’ordine sociale, ma il destino sembrò affidargli un compito superiore alle sue forze di uomo di lettere: il compito di fondare e difendere quell’insieme di valori morali e civili, individuali e pubblici, che vanno sotto il nome di humanitas, fondata sulla sovranità dell’intelligenza e della parola, sulla cultura come strumento di elevazione umana, sullo spirito di cortesia, di comprensione e di tolleranza e infine sul dovere dell’impegno politico per il cittadino.
Egli, appartenente alla borghesia, homo novus, come si diceva di chi non aveva antenati illustri, tentò di affermare le sue idee in una società che era dilaniata dall’urto di due forze avverse: l’aristocrazia gelosa dei suoi privilegi e i capi di masse e di eserciti pronti a conquistare il potere con ogni mezzo.
Cicerone, invece, sognava lo Stato romano superiore agli interessi dei partiti e dei singoli cittadini, coltivava un ideale di repubblica capace di reggere in armonia, con le leggi e con giustizia, il mondo. Si sforzò di imporre questo suo ideale, ma non vi riuscì.
Altri con maggior fortuna, ma anche con maggior determinatezza, riprese il suo programma e poté attuarlo e questa attuazione fu l’impero di Augusto. Egli vide chiaro, ma non possedeva l’energia dell’azione. La sua era la posizione dell’intellettuale che intuisce l’evolversi delle cose, ma non ha a sua disposizione altre forze che quelle della parola illuminante e del pensiero.
Intelligente e colto, Cicerone si trovò a vivere e ad operare tra generali superbi e talvolta ignoranti, estimatore della superiorità dello spirito in un ambiente che stimava solo i valori materiali. Nel grande conflitto civile che contrappose Cesare e Pompeo, Cicerone si trovò in una situazione che lo lacerava: detestava in cuor suo Pompeo, ammirava Cesare come scrittore colto e come uomo generoso, ma per coerenza con i suoi ideali dovette seguire Pompeo quando impersonò la repubblica e il Senato, e dovette combattere Cesare quando parve il nemico dello Stato e il sovvertitore della repubblica.
Questo fu il dramma di Cicerone. Tuttavia, se sul piano politico non ebbe successo, egli continuò a credere nelle sue idee, a sostenerle con tenacia nelle orazioni e nelle opere filosofiche, che sono la vera e più grande eredità che ha lasciato ai posteri.
Le oltre cinquanta orazioni che ci sono pervenute illustrano ogni caratteristica della sua straordinaria eloquenza. Esse eccellono nell’appassionata presentazione di una questione o di un carattere, nell’intrattenere l’uditorio con un motto di spirito o un aneddoto; Cicerone sa appellarsi alla vanità, ai pregiudizi, al sentimento, all’amor patrio; espone senza pietà i torti reali o inventati, le colpe pubbliche o private dell’avversario; si aggiunga il fuoco di fila di domande retoriche poste per rendere difficili o pericolose le risposte e l’accumularsi delle accuse: tutto questo in vasti periodi, le cui clausole sono come colpi di sferza e il cui incalzare è schiacciante. Ogni artificio che la libertà di parola gli consentiva viene ampiamente e abilmente sfruttato ora per commuovere ora per persuadere; non esita ad usare epiteti insultanti: dice, ad esempio, a Pisone che le fanciulle si uccidono per sfuggire alla sua lascivia.
Nell’orazione in difesa di Celio si vendica del suo nemico Clodio, svergognandone la sorella Clodia, accusandola di veneficio e mettendo alla gogna lei e la sua famiglia con parole di fuoco. Anche se spesso emerge una buona dose di retorica, acume e scienza giuridica, saggezza filosofica, conoscenza della storia sorreggono i discorsi di Cicerone, secondo la sua teoria che l’oratore non può conoscere solo l’arte del parlare senza che essa sia sostenuta da una vasta e profonda cultura.
Forse nemmeno Demostene fu così vivace, spiritoso, pieno del sapore e del rumore della lotta umana.
Tra le sue prime orazioni si collocano le sette Verrine, un potente atto d’accusa contro Verre, un corrotto senatore che nel governo della Sicilia si distinse per la sua avidità di denaro. Di grande interesse e bellezza è l’orazione in difesa del poeta Archia, che era accusato di aver usurpato la cittadinanza romana. La causa non era difficile e Cicerone accenna rapidamente ai problemi giuridici per poi passare alla difesa, o meglio, all’elogio dell’arte e della poesia.
Il momento più alto della carriera politica di Cicerone fu il consolato: in quell’anno smascherò la congiura di Catilina, pronunciando quattro appassionate orazioni: in esse Cicerone appare ora commosso ora violento, sempre comunque mosso da grande amore dello Stato e delle leggi su cui si regge. Il canto del cigno di Cicerone furono le quattordici Filippiche contro Antonio (così chiamate in ricordo delle orazioni di Demostene contro Filippo il Macedone): in esse difende il proprio operato, fa un quadro tremendo della vita di Antonio, loda Ottaviano che si era schierato a difesa del Senato, chiede che Antonio sia dichiarato nemico della patria, auspica la vittoria delle armi del Senato contro il feroce Antonio e loda infine quanti sono caduti nella battaglia di Modena, esaltando in essi la virtù di chi lotta e muore per la libertà contro la tirannide.
In tutte queste orazioni emerge un’eloquenza inarrivabile per l’abile ricerca dell’effetto, il sapiente magistero della parola, l’accorta modulazione di suoni e di accenti. Il suo latino è fluido e affascinante, elegante e appassionato, con lui davvero la prosa latina raggiunge il suo punto più alto.
Giornale di Brescia, 16.2.1994.