Politica e umanità in Cicerone

Scrivendo all’amico Attico nel 44 a.C. Cicerone accennava all’idea di una raccolta di un certo gruppo di sue lettere: "No, non esiste una raccolta delle mie lettere, ma Tirone ne ha una settantina ed altre potrebbero essere fornite da te. Ma bisognerà, naturalmente, che io le riveda e corregga".
I travolgenti avvenimenti politici, la catastrofe finale della sua ultima lotta ingaggiata contro Antonio e infine la sua miseranda morte gli impedirono di realizzare quel suo desiderio. Ma il dotto e fedele segretario di Cicerone, il liberto Tirone, si assunse il compito di raccogliere le lettere di cui era in possesso, aggiungendone quante altre poté trovare tra le carte del suo padrone e quelle in possesso di altri ed altre che ebbe modo di recuperare dai diversi destinatari.
Dobbiamo quindi essere grati al liberto Tirone per la sua nobile fatica, che fu certamente sorretta e guidata dal suo affetto devoto e intelligente.
Infatti nella forma e nello stato attuale le lettere di Cicerone, oltre a lumeggiare sempre meglio la figura del grande oratore sia come uomo pubblico che come uomo privato, hanno una non scarsa importanza nella storia di Roma: senza di esse molte questioni rimarrebbero insolute, molti personaggi avvolti nell’ombra, molti particolari completamente ignorati.
In questa sede, però, vorremmo soffermarci su quelle che ci sembrano più illuminanti per comprendere l’umanità e la personalità di Cicerone.
Un’attenzione particolare meritano, ad esempio, le lettere dell’ultima parte dell’Epistolario e della vita di Cicerone (tra il 44 e il 43), non per particolari pregi artistici, ma per la luce gloriosa che irradiano sul vecchio consolare, tornato a Roma, quasi sospinto dal destino, ad affrontare ancora la battaglia politica, a tentare di riprendere il timone dello Stato, che già aveva retto vent’anni prima, e a cercare di restaurare quella legalità repubblicana, che fu l’ideale di tutta la sua vita, cosciente dei personali e gravissimi pericoli e delle responsabilità che non erano più sostenute e protette dalla dignità consolare. E in una lettera a Cornificio dell’aprile 43 dichiara di aver "aperto il cuore alla speranza di libertà e, nonostante la generale titubanza, di aver gettato le basi di una rinnovata repubblica". Così pure in una lettera a Cassio dell’anno 44, appena dopo la morte di Cesare, mentre nessuno si assumeva le responsabilità necessarie a fronteggiare le minacce di Antonio, contro cui aveva già pronunciato la Prima Filippica, lo stesso Cicerone espone le sue ansie e preoccupazioni per quanto accade in Roma. Ma proprio la fiducia riposta in Bruto e Cassio lo fa sperare in una pronta rivincita della parte senatoria e nel ristabilimento dell’ordine repubblicano: "Quell’uomo (Antonio) folle e rovinoso e molto più scellerato di quello stesso (cioè Cesare) che, ucciso, tu dicesti essere scelleratissimo, cerca di cominciare una strage". Cicerone è cosciente dei pericoli che corre, ma aggiunge: "Io non temo questo pericolo: solo che esso unisca la gloria della vostra azione con la mia lode"; e conclude: "La speranza è tutta in voi… se meditate qualcosa di degno della vostra gloria, vorrei che ciò fosse, essendo noi salvi; se poi non è così, tuttavia lo Stato recupererà per mezzo vostro il suo diritto. Io non manco né mancherò di aiutare i tuoi e se essi si rivolgeranno a me per qualcosa, la mia generosità e la mia lealtà verso di te sarà testimoniata".
Tutte le lettere di questo periodo documentano come Cicerone con tutta la sua passione, usando il peso della sua autorità, prodigando consigli, promesse, lodi, esortazioni, alimentando entusiasmi e speranze di gloria, si sforzi di conservare uniti e fedeli nella difesa dalle libertà repubblicane quei pochi, e talvolta infidi, amici che gli erano rimasti e la sua voce ritrova nelle orazioni cosiddette Filippiche gli accenti appassionati che aveva avuto contro i disegni scellerati di Catilina.
Nelle manifestazioni di amicizia e negli affetti familiari è possibile rinvenire gli accenti più sinceri e umani di questo grande scrittore che sull’amicizia aveva addirittura scritto un trattato. Nel 60 a.C. in una lettera inviata all’amico Attico, lontano nell’Epiro, fa sentire quanto sia vuota la sua vita a Roma, piena di impegni ma priva di sincere amicizie. Mentre gravi nubi si affacciano sull’orizzonte politico, Cicerone sente il bisogno di un confidente a cui comunicare le sue apprensioni, le sue angosce.
Ad Attico Cicerone "non sa nulla nascondere, nulla fingere", con un amico come lui soltanto può trovare il pieno conforto dell’anima. Ne sollecita allora la presenza a Roma perché si allevii la dolorosa solitudine e si riempia il vuoto spirituale: "È lontano anche mio fratello, che pure mi vuole tanto bene"; si lamenta anche del console Metello che "non è uomo, ma arena, aria e pura solitudine". E più avanti: "Mi trovo tanto abbandonato da tutti sì da avere serenità solo per il tempo che passo insieme con mia moglie, e la mia piccola figlia e il mio dolcissimo Cicerone"; ma anche in casa c’erano preoccupazioni e motivi d’ansia se aggiunge: "E tacerò tutte le spine e tutti gli scogli delle mie domestiche ansie". Nell’aprile del 58 a.C. Cicerone si appresta a partire per l’esilio impostogli dall’odio di Clodio e dall’abbandono dei triunviri, e da Brindisi invia una lettera ai suoi familiari, alla moglie, alla figlia e al figlio, che è fra le più umane dell’epistolario ciceroniano. Dopo aver giustificato la scarsezza di lettere che gli invia proprio perché scrivere o leggere lettere dei suoi cari lo turba profondamente, Cicerone annuncia che sta per partire da Brindisi per la Grecia; chiede alla moglie di raggiungerlo: "Perché dovrei pregarti di venire con me povera donna, sfinita come sei nell’anima e nel corpo? Non dovrei pregarti?… Sappi soltanto ciò: se ti avrò accanto, non mi sembrerà di essere finito del tutto"; è preoccupato per la sorte della figlia; quanto al figlio, vorrebbe averlo tra le sue braccia. Sulla loro sorte, esprime dubbi angosciosi fino a desiderare di essere già morto: "E magari fossimo stati meno avidi di vita, certamente nulla o non molto del male della vita avremmo visto"; e conclude infine con un affettuoso saluto alla moglie e ai figli, in un trepido intenerimento di ricordi, di rimpianti e di speranze: "Cura come puoi di star bene, e pensa che io soffro più per la tua afflizione che per la mia. O mia Terenzia, fedelissima ed ottima sposa, e tu mia dilettissima figlioletta e tu ultima speranza nostra, Cicerone mio, statemi bene".
Un’altra bellissima lettera è indirizzata dall’esilio al fratello Quinto, che non aveva potuto incontrarlo passando per la Grecia diretto a Roma. Cicerone dichiara che forse è stato meglio non incontrarlo; la tristezza, il pianto, il sentirsi solo, in quel triste momento (l’esilio, il distacco dal suo mondo di affetti e dalla sua attività politica) quale strazio gli avrebbe procurato! Poi Cicerone rivive la partenza di Quinto per l’Asia, dove rimane in qualità di governatore per tre anni: allora ci furono teneri addii, accorati scoppi di pianto; ma "ora, se ci fossimo incontrati, non avresti visto neppure una traccia di quell’uomo e tanto meno un’immagine, ma la figura evanescente di un morto che respira".
Infinite sono le pagine dell’epistolario ciceroniano che meritano di essere lette. Ci basterà accennare qui ancora ad una lettera scritta nel febbraio del 45 a.C. quando Tullia, la figlia tanto amata, già cagionevole di salute, era da poco morta, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore affranto del padre.
In sintesi Cicerone dice all’amico Servio Sulpicio, che gli aveva scritto per confortarlo, che le sue affettuosità gli recano qualche conforto; ma troppo grande è il dolore: escluso dalle competizioni politiche, non gli resta nemmeno il conforto di trovare in casa una persona presso cui rifugiarsi, in cui riversare il suo dolore. Infine dichiara di voler vedere l’amico: l’antica amicizia gli sarà sicuramente di conforto, anche perché bisogna trovare un modo di vivere in pace, ora che il potere è nelle mani di un solo Cesare. Emerge qui evidente la complessità spirituale e la dignità morale di quest’uomo che, pur distrutto da un dolore privato così grande, non sa dimenticare la sorte infelice dello Stato ormai in mano al dittatore.
Ma il valore delle lettere di Cicerone sta principalmente nel fatto che un uomo ricco di tante qualità interiori parli senza riguardi e ipocrisie, proprio come il cuore gli detta; in esse noi sentiamo palpitare tutto l’animo di un uomo e l’umanità più schietta emerge sullo sfondo della cronaca pubblica e privata, in anni decisivi per la storia di Roma.
 

Giornale di Brescia, 18.9.1994.