Properzio poeta d’amore

Quando negli ultimi decenni del I secolo a.C. per opera dei poetae novi a Roma si cominciò a studiare e imitare la poesia alessandrina, tra i generi letterari subito importati, venne particolarmente studiato un tipo di poesia che attraverso la narrazione di miti e leggende erudite ricercava le cause, le origini di un nome, di un rito, sul modello degli Aitia callimachei; la tendenza etiologica, che significa appunto “ricerca delle cause”, ebbe nel periodo augusteo grande sviluppo. Nell’Eneide, che in un certo senso si può considerare come un grande aition di Roma, si possono isolare dei veri e propri excursus etiologici, come l’origine del culto di Ercole nel Lazio attraverso l’episodio dell’uccisione di Caco o il ludus troianus in uso ancora ai tempi di Augusto; anche nelle Metamorfosi e nei Fasti di Ovidio sono frequenti i luoghi di natura eminentemente etiologica.
E’ naturale che Properzio, ammiratore di Callimaco, coltivasse questo genere, a cui sono ispirate le cosiddette Elegie Romane, cinque componimenti, a cui va specialmente l’attenzione degli studiosi di Properzio e che costituiscono altrettanti quadri del più vasto disegno di cantare le più importanti vicende dell’antichità storica e religiosa di Roma. In questa sede vorremmo dimostrare, attraverso l’esame di una di esse, quella che narra la storia di Tarpea (IV,4), come anche nelle Elegie Romane emerga la vena poetica più vera e più autentica di Properzio.
Perché se è vero che egli nelle sue recusationes a Mecenate afferma di non sentirsi la forza di comporre un lungo poema, poiché egli è solo nato per cantare l’amore; se sono molti i luoghi in cui egli, ardentemente innamorato, protesta che l’esercizio delle armi non è per lui, adatto solamente a militare nella milizia di Venere (I,6; II,7) e che una vittoria d’amore è per lui preferibile a una vittoria sui Parti, allora è facile capire come Properzio raggiunga i suoi risultati migliori di poeta quando riesce a liberarsi del peso dell’erudizione, che lo porta a sfiorare l’oscurità, e si abbandona alla celebrazione dell’amore, che è la sua vera vocazione. Allora Properzio si rivela vero poeta, classico nella forza della passione e romantico nella malinconica drammaticità dolorosa del sentimento, come in quell’inizio (I, 17) in cui echeggia il suo dolore, che egli confida alla natura in un paesaggio marino, dove l’unico suono è costituito dal lamento degli alcioni e dal gemere del mare: "Meritatamente ora sfogo le mie pene con i solitari alcioni, poiché potei fuggire la mia donna…"; espressione così romanticamente e modernamente felice che il Foscolo nulla poté aggiungere e ne trasse una delle più romantiche aperture dei suoi sonetti: "Meritatamente però che potei / abbandonarti, or grido alle furenti / onde…".
Del resto anche l’Ariosto prese le mosse da quel distico di Properzio in un suo componimento, ma il tono è tutt’altro, discorsivamente cinquecentesco, non drammatico: "Meritatamente ora punir mi veggio / del grave error che a dipartirmi feci / dalla mia donna e degno son del peggio". Esempi questi degli infiniti echi della poesia latina nella poesia italiana, per cui la conoscenza dell’una non può prescindere dalla conoscenza dell’altra.
In particolare l’elegia di Tarpea dimostra la preminente vocazione di Properzio ad essere cantore della passione d’amore; quando Cinzia è morta, egli proietta fuori di sé, nella narrazione oggettiva, nella figura di Tarpea, come in quella di Aretusa (IV,3) o in quella di Cornelia (IV, 11), il dolore del suo sogno infranto dal destino. Infatti l’elegia, che dovrebbe servire a spiegare l’origine del nome della rupe Tarpea, al motivo etiologico e al problema etimologico dedica solo i primi due versi e gli ultimi due; tutto il resto, ben novanta versi, narra ciò che veramente sta a cuore al poeta, e cioè una storia d’amore, anzi un vero dramma d’amore, in alcuni punti dal finissimo colorito romantico.
Mentre Roma è assediata dai Sabini, guidati dal loro re Tazio, Tarpea, una vergine Vestale, si reca ad attingere acqua da una fontana in una selva ai margini della città e da qui vede Tazio che galoppa col suo cavallo e ne resta presa d’amore. Mentre, nella narrazione di Livio, Tazio avrebbe corrotto con l’oro Tarpea, in Properzio è la Vestale stessa che, spinta dalla passione d’amore, di notte si reca al campo del re sabino e propone il tradimento. Quando, però, i Sabini penetrano, grazie al tradimento di Tarpea, nelle mura della città, ella non ottiene da Tazio le nozze promesse, ma viene schiacciata sotto gli scudi dei nemici vincitori.
La vicenda di questa donna, vittima della sua passione e per essa traditrice della patria, inizia con la descrizione di uno sfondo agreste e bucolico, animato da un fresco alito di brezze campestri: "Vi era un felice boschetto, in un antro coperto di edere; alberi fitti stormivano presso acque sorgenti, reggia ombrosa del dio Silvano, che nella stagione estiva vi conduceva a bere le greggi con la soave zampogna". Qui Tazio aveva posto il campo e qui venne spesso, dopo quella prima volta, Tarpea a sospirare e a gemere per la passione che la struggeva per il guerriero nemico: "Fuochi del campo, o tende di Tazio e voi armi sabine così belle agli occhi miei…"; versi dei quali si ricordò il Tasso nel famoso verso in cui Erminia vagheggia il campo cristiano, dove si trova il suo amato Tancredi: "O belle agli occhi miei tende latine".
In tutta l’elegia ritroviamo la forza poetica e l’ispirazione di molte delle elegie dedicate a Cinzia, la donna amata e cantata dal nostro poeta. Tarpea si abbandona a un soliloquio delirante per la passione che la tormenta e quando, per la stanchezza, il sonno la vince, essa spera di vedere almeno in sogno l’amato; ma anche il sonno è inquieto, perché "Vesta ne fomenta la colpa e ne accresce gli ardori". Poeta dell’amore è dunque Properzio: "Solo la mia donna m’ha fatto esser poeta" (II,1), poeta di un amore esclusivo e potente, che diventa per lui fonte di gioia e di dolore, croce e delizia, proprio come lo sentirà più tardi il Tasso, per il quale l’amore potrà anche recare gioie e piaceri, ma viene sempre a turbare la serenità dello spirito (si veda Aminta, atto I, vv.335 343) e non è mai disgiunto dall’amarezza, è insomma un dolce tormento.
Ma il Tasso sembra ricondurci a Properzio in un altro passo dell’Aminta e precisamente nel coro che conclude l’atto primo, dove vagheggia e rimpiange una lontana e mitica età felice, nella quale l’amore trionfava in totale libertà senza alcun freno o vincolo di ordine morale; anche Properzio in una sua elegia (III,14), forzando la verità storica o meglio proiettando in un mondo artificialmente mitico il suo desiderio di voluttà senza alcuna ansia, rimpiange i liberi costumi della gioventù spartana; ancora una volta Properzio, per inseguire il suo sogno d’amore e la sua vocazione di poeta, sconfessa non solo i precetti artistici del suo maestro Callimaco, ma anche i rigorosi provvedimenti di Augusto per la difesa della moralità pubblica.
 

Giornale di Brescia, 02.10.1998.