Un genitore saggio, che era un imprenditore di successo e alle prese quotidianamente coi problemi di bilancio della propria azienda, ma che era anche consapevole dei limiti scolastici del proprio figlio, dichiarava un giorno sconsolato: "Pensi che, pur frequentando il liceo classico, mio figlio non conosce neppure il significato del termine deficit!". A parere di questo genitore dunque, il latino appreso a scuola dovrebbe avere, se non altro, la funzione di permettere l’ accesso ad alcuni termini di impiego corrente. Come il caso di deficit, così è per altri vocaboli o espressioni di uso più o meno attuale, come oggi è la par condicio: a giudizio di molti, almeno questo tipo di conoscenza terminologica dovrebbe essere garantita dagli studi di latino.
Io non credo affatto che la scuola di latino abbia principalmente questa funzione e che quindi questo sia lo scopo del lavoro scolastico su questa disciplina: è evidente infatti che ci sono molte e più facili scorciatoie per arrivare a questo livello di conoscenze, senza mobilitare energie e attenzione, senza declinazioni o coniugazioni da apprendere più o meno a memoria.
I recenti lavori della commissione Brocca, che si è occupata dei nuovi programmi della scuola secondaria superiore, indicano sì tra le finalità dello studio di questa lingua l’ acquisizione della competenza nel cosiddetto linguaggio intellettuale, ma insistono su altri aspetti. In primo luogo trova spazio in essi la ricerca della "oggettivazione e formalizzazione delle strutture linguistiche", poi viene indicato come scopo "l’ accesso attraverso i testi, a un patrimonio di civiltà e di pensiero che è fondamentale nella nostra cultura" e l’ acquisizione del "senso storico, nel recupero del rapporto di continuità e di alterità con il passato" e viene sottolineata la "consapevolezza critica del rapporto tra italiano (e lingue romanze) e il latino. Di conseguenza, tra le finalità di questo studio, viene indicata la "capacità di riflessione linguistico-teorica" e "l’ esercizio dell’ abilità esegetica e traduttiva, che favorisce anche la produzione in italiano soprattutto per quanto riguarda l’ organizzazione e la strutturazione del discorso".
Io sono del parere che in queste affermazioni di principio si possano riconoscere delle risposte valide circa l’ utilità del latino oggi. Alcune di esse meritano un commento e un approfondimento. Innanzitutto il rapporto con l’ italiano: studiare il latino significa riconoscere l’ origine della nostra lingua, che non è altra rispetto a quella di Cicerone, ma ne è la continuazione, lo sviluppo, la trasformazione. Anche il latino, come tutte le lingue, ha le caratteristiche di un organismo vivente, in evoluzione nel tempo e quindi nell’ uso dei parlanti: il lungo processo di trasformazione operato nel corso della sua storia, che fa sì che già il latino di Virgilio sia diverso da quello del più arcaico Ennio, porta ai mutamenti in epoca tardoimperiale prima, poi a quelli dell’ età medievale e quindi alle lingue romanze. E’ stato giustamente affermato che il latino rappresenta la tappa iniziale di un lungo percorso che si conclude (per ora) nell’ italiano di oggi.
Ma l’ evoluzione che intercorre tra la tappa iniziale e la meta attuale conduce, è evidente, a forme linguistiche e sintattiche molto differenziate: una versione dal latino all’ italiano sarà allora l’ occasione per porre a confronto due sistemi linguistici che hanno raggiunto una forma di organizzazione diversa; sarà il modo non solo di riconoscere le strutture del latino, ma anche di renderle in un italiano che sia attuale, corrente, e non un ibrido italo-latino astratto, che esiste solo nei lavori scolastici. Servirà non solo a riflettere sul testo, ma anche a usare correttamente la lingua italiana e quindi a rafforzare l’ educazione linguistica in senso lato, esattamente come scriveva la commissione Brocca che indicava la ricaduta positiva dalla conoscenza del latino sulla produzione in italiano, sotto forma di organizzazione e sistemazione del discorso.
Non meno importante, ai fini del problema qui dibattuto, è l’ utilizzo della lingua latina come strumento privilegiato per penetrare in una civiltà come quella romana. Da quel mondo siamo evidentemente discendenti: esso è la nostra lontana origine, la radice dell’ attuale civiltà. Se dunque ci riconosciamo nel patrimonio di cultura elaborato dal mondo romano e a noi giunto, questo avviene perché è attraverso il mezzo linguistico che esso è stato indagato e conosciuto: la lingua ci permette di accedere alle opere della poesia epica, della lirica e della produzione drammatica, alla prosa dell’ oratoria, della filosofia, del romanzo, del diritto e della storiografia, a tutti i generi letterari dei pagani e dei cristiani insomma, che hanno caratterizzato in modi diversi i secoli della storia romana e di quella altomedievale.
Certamente anche il solo studio della storia, o della storia dell’ arte, o del diritto, senza accesso ai testi degli autori, può costituire una forma di approccio alla civiltà romana: ma è evidentemente un’ informazione indiretta, mediata da quanto altri hanno letto (e tradotto) per noi; una delega insomma a qualche specialista, che non potrebbe comunque personalmente prescindere dall’ utilizzo dello strumento linguistico per trasmettere ad altri ciò che lui solo conoscerebbe direttamente.
Ho lasciato deliberatamente alla fine la considerazione tradizionale (e qualche volta unica) con cui sbrigativamente si individua l’ utilità dello studio del latino: si dice cioè che esso serve a far ragionare, ad aprire la mente, a suscitare il pensiero. E’ un’ opinione sostanzialmente vera, condivisibile, ma che potrebbe essere applicata anche ad altre discipline, e di tutt’ altra natura: anche al gioco degli scacchi. E l’ abitudine alla precisione? all’ attenzione rigorosa al testo, dove una desinenza in -is è tutt’ altra cosa rispetto a una uscita in -i?
Anche queste utilità sono certamente vere, ed è sotto gli occhi di tutti quale bisogno la nostra società abbia di precisione e di attenzione, contro il pressappochismo e l’approssimazione diffusi. Ma queste sono tutto sommato considerazioni aggiuntive, quasi un corollario rispetto alle finalità precedentemente descritte.
Giornale di Brescia, 23.4.1996.