In un saggio recente, apparso prima su Scuola e Didattica 1981, 15, 3-6, poi su Atene e Roma 1982, 72-77, Dario Antiseri studia e spiega Se e perché studiare ancora il mondo greco e romano. Non posso qui ripetere tutte le argomentazioni dello scritto, cui rimando volentieri, ma il succo del discorso sta in questi due punti. Primo: niente avviene al di fuori di una tradizione culturale; le stesse rivoluzioni sono tali rispetto a una determinata linea di svolgimento, che ne costituisce il presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati tutti buoni conoscitori del passato. Secondo: la nostra tradizione culturale è quella greco-latina : non c’è possibilità di auto-identificazione e di innovazione se la si ignora; quindi lo studio di quell’ antico è una condizione di fatto della nostra civiltà.
Se ci fermassimo al primo punto, dovremmo considerare di buon auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si sta verificando, di interesse per il passato, da quello immediato e locale al più lontano nel tempo e nello spazio. Visto più da vicino, questo interesse non collima col secondo punto: non solo questo passato non è greco-romano, ma non è selettivo: accomuna l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la cultura materiale e i valori. La mancanza di selettività di per sé non contraddice al momento greco-romano correttamente inteso; anzi gli toglie la staticità del «classico», cioè del modello unico, esemplare perfetto e irripetibile (quindi fuori della storia) e lo ricolloca nella dinamica dell’evoluzione umana, lega la unica Roma alle molte civiltà locali. La mancanza di selettività diventa grave, quando considera il greco-romano un momento come un altro, senza speciali incidenze sulla storia; peggio, quando si configura in qualche modo come una riedizione della tesi della priorità veteroitalica sulla civiltà classica; peggio ancora, se predilige il passato quale che sia come tale, come un tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si rischia di tornare così alla cultura dei «sassi», che già Leopardi rimproverava ai romani del suo tempo (lettera al de Sinner del 27-6-1823, cioè all’antiquaria di settecentesca memoria (cioè senza storia e senza lingua).
Se nell’interesse verso l’antico non ha per noi un posto preminente il momento greco-romano, questo è segno di perdita di storicità, di oscuramento di valori, di restringimento di orizzonti. Quel momento non è importante solo perché ha aperto vie, costruito ponti, tracciato città, su cui ancora insistiamo, ma perché ha dato un impulso decisivo a un complesso di idee, mentalità, istituzioni, che costituiscono ancora i nostri parametri abituali e la nostra cultura di europei e di occidentali. Quanti ktemata es aeì vengono dalla Grecia? Gli altri momenti forti, da cui si può volta a volta, non senza ragione, far partire la nostra riflessione storica, il Cristianesimo, la Rivoluzione industriale, Napoleone, l’Unità d’Italia o magari il Sessantotto, si sono misurati con questa tradizione, l’hanno arricchita o combattuta, mai ignorata.
Se riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi civile greco-romana, dobbiamo subito porci il problema se si debbano studiare insieme Roma e Atene e se non sia riduttivo assumere come punto di partenza solo Roma, cioè studiare la civiltà latina senza la greca. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione dell’originalità romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per ogni storia della letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse contingenze storiche e teoriche. Il suo ambiente culturale era la Germania, dove il nazionalismo rispecchiava se stesso nella superiorità intellettuale della Grecia rispetto ai barbari (tutti gli altri). Il sostegno teorico era offerto dal mito del classicismo, cioè del modello astorico e perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime fasi della sua storia, la tesi trovò forti resistenze in Italia per la convergenza di due motivazioni diverse: da una parte il nostro nazionalismo, culminato nella guerra 1915-18, dall’altro la nuova estetica, che insegnava a leggere l’opera d’arte in se stessa.
Oggi quei condizionamenti storici e quei presupposti teorici sembrano molto lontani. Del resto, a parte le punte polemiche, già la ricerca aveva portato a una revisione di fatto di questi atteggiamenti. La contrapposizione poi di una romanolatria a una ellenolatria non è più pensabile neanche come ideologia politica. Mondo greco e mondo latino costituiscono una unità, ma non tanto in senso sincronico, quanto in senso diacronico. Voglio dire che Grecia e Roma si dispongono in successione, costituiscono una unità dinamica. La grecizzazione di Roma è fatto antico e non solo a livello dotto; non è un fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine (col cristianesimo). Roma non nasconde la sua dipendenza dalla Grecia, anzi l’accentua, per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo diritto successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano il problema in modo non diverso dagli antichi. Di qui discende anche la legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione storica; se la civiltà latina ha intenzionalmente assorbito la civiltà greca nell’atto stesso di arricchirla, trasformarla, diffonderla, studiare Roma non sconfessa Atene. Rimane ai greci il merito di molte creazioni, ai romani di averle trasmesse al futuro. Lo stesso Cristianesimo, che in una prima fase è greco, si traduce presto in lingua e cultura romana, con la quale rimarrà strettamente legato per molti secoli.
A quella cultura il Cristianesimo aggiunge le sue peculiarità, il senso del trascendente, la nuova religiosità, un più alto concetto dell’uomo e della comunità, ma la storiografia, la scuola, la retorica rimangono in fondo quelle ereditate da Roma . L’asse culturale laico si conserva quasi intatto, con le sue deficienze (penso al ritardo nella rottura della supremazia letteraria, oggi minacciata da una reazione, uguale e contraria di segno più tecnologico che scientifico) e i suoi limiti, ancora non superati (penso al mancato inserimento del lavoro manuale, nonostante le dichiarazioni di intenti). Si può senza difficoltà riconoscere che l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare: si pensi per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina, conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative; la sua stessa evoluzione si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità quasi sempre latine .
Ma il fatto più significativo rimane, a mio parere, il latino medioevale, che non è più il latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere da matrici nazionali; si usa il latino medioevale, quando non esiste più una nazione latina, ma ci sono genti diverse, che si riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che la Grecia ha generato l’Occidente (una civiltà), Roma l’Europa (una storia). Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci appartiene come uomini senza esaurirci.
Questi concetti sono generalmente ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il mondo greco-romano.
Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente (Fascismo, Nazismo: cfr.specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è sempre reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo fra Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio, volte come sono a indagare la presenza degli studi classici nella cultura moderna, quindi la partecipazione degli antichisti e la loro relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni .
Rifiuto dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del greco-romano un modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come nell’Umanesimo e molto più tardi in Germania).
Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso. Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro (1977; ed. it. Jaca Book, Milano 1979). Il tardo antico richiama molta attenzione. I convegni comensi del 1979, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città, l’economia (vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario: Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica come fatto di cultura).
Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il concetto di «classico» (nel senso di greco-romano) esce dalla sola categoria del bello e del perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di problemi esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro cristianesimo = debolezza, anacronisticamente riproposto nel 1973 dalla edizione italiana di un libro composto da W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico e mondo cristiano, La Nuova Italia, Firenze). Si esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo campano). Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro, Callimaco, Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano ecc.). Si ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori e movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi è del 1966 ( Le Monnier, Firenze), le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina del 1968 (La Nuova Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana (e non solo in quella tedesca, che ne ha la tradizione) nasce l’interesse verso i rapporti fra Roma e la cultura ebraica (G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente ebraico e cristiano, Paideia, Brescia nuova ed. 1983; F. Arnaldi, La crisi morale dell’età argentea, « Vichiana » 1972.3-671; estesa e polidisciplinare è la bibliografia sui rapporti tra Roma e il cristianesimo e sul problema delle persecuzioni. Sono meno frequenti le monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P. Grimal, Le siècle des Scipions. Rome et l’hellénisme au temps des guerres puniques, Aubier, Paris 1975 (ora in edizione italiana presso Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria italiana: va da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna 1974 a R. Syme, Tacito (che è un grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia 1967-71: di P Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia 1970, ancora a R. Syme, La rivoluzione romana, Einaudi Torino 1962, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze 1967, a W. Jaeger. Paideia, La Nuova ltalia, Firenze (molte rist) a H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium Roma (molte rist.). Ho citato un po’ a caso fra i titoli più famosi. La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità dei suoi titoli, testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di esemplarità.
Di recente si è verificato, invece, un breve successo dell’ atteggiamento antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di letteratura scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere accettabile l’antico a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col moderno. Il procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del moderno, tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende inutile lo studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta lontane del moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella continuità. Già il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo stesso lavoro (Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica, « Studi ital. di filologia classica » 1922, 1-147, ora in Scritti minori I, Aesthetica, Bottega d’Erasmo, Torino 1955, spec. p. 235) : eppure è noto quanto egli fosse guidato da un certo crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica dell’intuizione presso i classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i classici alla luce di altre ideologie attualizzanti. Legittimo è invece studiare nell’antico temi e problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con coscienza storica, ossia proprio per scoprirne la formazione lontana: pace- . libertà, progresso, lavoro, scienza .
L’atteggiamento corretto sarà dunque di porsi davanti all’antico senza cessare di essere moderni e (poiché quell’antico è greco-romano, cioè la nostra origine culturale) senza negare il debito e senza cancellare l’intervallo : dunque alterità più legame storico.
Questo comporta anche l’uso di strumenti ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei tradizionali. Di alcuni impieghi di tecniche recenti danno qui sotto saggio i contributi di V. Cremona e di G. Proverbio: sono appena esempi, cui altro sarebbe da aggiungere. Così, molto vivace è oggi la narratologia; e del 1980 è il Convegno internazionale «Letterature classiche e narratologia» a cura dell’Istituto di Filologia Latina dell’Università di Perugia, i cui Atti sono stati pubblicati nel 1981. Gli strumenti tradizionali a loro volta hanno compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in senso stretto danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L. Castagna. Mezzi vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più fini: A. Grillo ha messo la narratologia a servizio della critica testuale per risolvere alcuni problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo. Imitazione e narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica classica, Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze 1982.
E’ facile constatare la differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri») alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia, topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una storiografia totale).
Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri o addirittura ritorni. La linguistica moderna, sorta fuori e in opposizione alle lingue classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti della grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria hanno riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi. Della retorica, affermatasi in Grecia e a Roma come tecnica politica e poi diventata cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento: gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna 1969 si presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek, Structures et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura Academiei e Les Belles Lettres, Bucuresti Paris 1977 è insieme un’analisi strutturalistica e retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là dei concetti, dalla loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi letterarie su testi moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego di strumenti antichi .
Nuova secondaria, 6.1984, p.18-20.