Uno degli aspetti meno noti di Cicerone, benché grande statista e celebre oratore, è certamente quello dei rapporti con il suo editore, che presentano molte analogie con situazioni di tempi più vicini a noi. Per esempio uno scrittore ben introdotto spesso ne presenta uno meno quotato al proprio editore: così fa anche Cicerone, raccomandando insistentemente per la pubblicazione di uno scritto su Catone quell’Aulo Irzio, che noi conosciamo per la stesura della continuazione del De Bello Gallico cesariano. La differenza maggiore nei rapporti editoriali antichi rispetto ai moderni sta nel diverso rilievo che assume nelle due parti l’aspetto economico. In assenza del concetto di proprietà letteraria non si poneva neanche il problema dei diritti d’autore. Di solito venivano pagati i testi per le rappresentazioni teatrali, anche di basso livello. I poeti invece venivano a volte finanziati in vario modo dai potenti protettori. Ma la produzione libraria, retorica, filosofica, politica era gratuita e traeva la sua ricompensa dalla fama, che se ne ricavava, oppure dalla soddisfazione di avere qualche cosa da dire.
Un testo, una volta pubblicato, diventava res communis; anzi si verificavano vere e proprie edizioni pirata, come quelle di cui si lamenta Quintiliano («a vantaggio dei copisti») a proposito di sue orazioni, che non erano destinate ad essere pubblicate, ma venivano «scaricate» dalla viva voce e messe in circolazione contro la volontà dell’autore. L’editore di Cicerone è il cavaliere Tito Pomponio, soprannominato Attico per la sua lunghissima permanenza ad Atene e l’assimilazione della cultura greca. Nei riguardi dell’Arpinate è un editore eccezionale e non solo un editore: è amico, consigliere politico, consulente e amministratore economico (Cicerone ne aveva bisogno), fornitore di statue greche ecc. Arrivava al punto di mandare i suoi dipendenti ad allestire gli scaffali delle biblioteche dell’altro e persino ad attaccare i cartellini di riconoscimento dei rotoli. A differenza di Cicerone Attico non volle mai impegnarsi nella vita politica attiva, forse perché ammaestrato dalle vicende familiari dei suoi anni giovanili, ma preferì stare sempre dietro le quinte, intervenendo invece finanziariamente a favore di singoli dell’una o dell’altra parte. La biografia che ne stese Cornelio Nepote è un elenco di aiuti concessi con discrezione al momento del bisogno, senza chiedere mai la restituzione o una contropartita. A Cicerone in partenza per l’esilio donò 250.000 sesterzi, una somma ingentissima. Si tratta in realtà di una visione generosamente ottimistica, perché Attico era un abile amministratore dei suoi beni e delle rendite, che ricavava dalle sue proprietà agricole, dai suoi commerci e forse anche dalla sua attività di editore e di libraio. Cicerone si compiace con lui per il successo di vendite della sua Ligariana.
Comunque il genere di vita da lui adottato gli consentì di sopravvivere alle lotte civili e alle liste di proscrizione. Era proprio il punto di riferimento sicuro, di cui aveva bisogno l’incerto Cicerone, che pure in teoria trovava biasimevole l’assenteismo politico. Le lettere di Cicerone ad Attico, pubblicate pure da questo, non contengono le sue risposte: atto di prudenza, non di modestia. Con un amico così Marco Tullio poteva concedersi libertà, che difficilmente un autore si può permettere. Sostanzialmente aveva concesso ad Attico una sorta di esclusiva, dopo aver sperimentato la superiorità tecnica delle sue edizioni rispetto alle altre (di cui lamenta la mendosità in una lettera al fratello Quinto). Attico, pur ricchissimo, non teneva un tenore di vita adeguato alle sue possibilità, però disponeva di una squadra di schiavi e liberti librarii, cioè di buona preparazione, che gli consentiva di approntare edizioni di alto livello praticamente senza errori. Inoltre teeva in archivio una copia di ogni sua edizione; qualche esemplare sopravvissuto (o creduto tale) raggiunse prezzi altissimi sul mercato antiquario. Anche Cicerone disponeva di librarii per la correzione delle copie da mandare all’editore, ma questi a volte ne sollecitava la consegna, per soddisfare il mercato.
Errori commetteva invece Cicerone, forse per la fretta con cui lavorava. In una lettera avverte l’editore che nell’orazione Pro Ligario aveva introdotto tra altri nomi anche quello di un certo Corfidio, che invece era già morto all’epoca dei fatti: quindi prega di far cancellare questo nome «da tutte le copie» e si spinge fino a indicare lui stesso i tre librarii, che riteneva adatti allo scopo (l’errore è rimasto nelle nostre edizioni). In un’altra lettera dichiara di aver attribuito al commediografo greco Eupoli una sentenza di Aristofane (peraltro abbastanza simile) e pretende che l’editore provveda ad apportare la correzione non solo sulle copie giacenti in magazzino, ma anche in quelle già vendute. Nonostante l’amicizia, nonostante il pregio delle edizioni pomponiane, Cicerone non è sempre soddisfatto. Ma tipica è la vicenda degli Academica, di cui noi possediamo due soli libri, appartenenti a due diverse edizioni. Nella prima Cicerone aveva suddiviso l’opera in due parti e introdotti come interlocutori Catulo, Lucullo e Ortensio. In un secondo tempo però gli parve opportuno dividere la trattazione in quattro libri e mettere in scena personaggi più qualificati culturalmente, sostituendo alla triade della prima Varrone, Catone e Bruto (l’introduzione come interlocutori era un atto di onore e quindi serviva anche a procurarsi le simpatie più utili al momento, riservandosi di collocare altrove i nomi cancellati); naturalmente Cicerone si rendeva ben conto che strutturare in modo diverso, anche con tagli compensativi, comportava la inutilizzazione di pagine già copiate, ma dice di essere certo che l’editore «sopporterà di buon grado questa perdita», considerando che la nuova stesura è migliore e più splendida. In effetti non pare che il ricco editore accettasse di buon grado questa iattura, se è vero che uno dei due libri a noi pervenuti appartiene alla prima edizione.
Giornale di Brescia 11.3.2004.