Negli anni della contestazione, quando sui muri delle scuole il cognome dei professori iniziante con la lettera C si scriveva con la K, come quello del futuro Picconatore, allora ministro dell’Interno (si licet parva…), era di grande attualità leggere un passo delle Confessioni, in cui S.Agostino descrive uno stato di disordine a Cartagine, dove aveva insegnato da giovane. Egli dunque racconta che in quella città imperversava la sfrenata licenza degli studenti di irrompere con arroganza nelle aule altrui e sconvolgere l’ordine, che ogni docente aveva organizzato per il profitto dei suoi allievi. E osserva che in quelle occasioni si compivano stupidamente atti offensivi, che avrebbero dovuto essere puniti a termine di legge, se non fossero stati coperti dalla consuetudine. Il commento a posteriori è amaro: proprio l’impunità aggrava la situazione, perché fa perdere il senso del confine tra il lecito e l’ illecito: l’insensibilità morale, che ne deriva, costituisce soggettivamente una punizione più grave della stessa colpa. Ma questa tardiva considerazione non aveva risolto allora il problema. Di fronte allo stato di costrizione, nel quale era venuto a trovarsi, Agostino aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Roma, dove si diceva che si potesse lavorare con maggiore tranquillità: in realtà anche nella capitale non gli mancheranno inconvenienti gravi, come forme di sciopero degli studenti. L’autore delle Confessioni non tenta un’analisi delle ragioni della licenza e del permissivismo nelle scuole, perché la sua ricerca è rivolta a individuare nei fatti della propria vita il filo rosso della Provvidenza, che lo porterà alla conversione; da Roma passerà a Milano e qui incontrerà Ambrogio, attratto prima dalla sua eloquenza e poi dalla sua forte spiritualità. A che cosa fosse dovuto lo stato di disordine e di confusione anche nelle scuole di grossi centri è difficile dire a distanza di tanti secoli, se non ci si voglia appellare al generale stato di crisi della società nel Tardo Impero. Ma la diagnosi non varrebbe per le epoche precedenti. Una delle ragioni potrebbe essere allora l’inadeguatezza dei maestri. Una tavola di un celebre dizionario di antichità riproduce un gruppo di scolari attorno alla cattedra, sulla quale è seduto un insegnante con la testa d’asino. Non c’è bisogno di commento. L’incompetenza dei maestri non doveva essere un fenomeno tanto raro in assenza di una struttura organica di istruzione, anche se il sistema «all’americana» di scuole costose in proporzione della loro fama garantiva agli abbienti la possibilità di scegliere i migliori. Ma Svetonio dà notizia di un grammatico, che dovette abbandonare l’insegnamento, perché «non sapeva curare la disciplina». La parola «disciplina», allora come adesso, poteva significare tanto «osservanza delle regole» quanto «un campo del sapere». Le due cose si intrecciano e si condizionano anche in negativo: può darsi che il grammatico di Svetonio non sapesse tenere la disciplina per effetto della propria ignoranza. Quintiliano, il più celebre maestro imperiale, riteneva che il sistema migliore per condurre una scuola senza ricorrere a punizioni fosse proprio un maestro che incalza da vicino gli studi dei suoi allievi, si dimostra lui stesso impegnato, insomma crede in quello che fa e insegna. La scelta didattica si pone dunque tra repressione e stimolazione. La prima pare che fosse particolarmente severa nei tempi più antichi, fosse o no in relazione con la scarsa autorevolezza dei maestri. In una commedia di Plauto compare un personaggio, che rimpiange. il buon tempo antico, quando si arrivava a vent’anni senza scostarsi un dito dal maestro, anzi si cominciava a partecipare alla vita pubblica prima ancora di rendersi autonomi. Allora l’educazione era marcatamente militaresca: prima dell’alba si andava al Campo di Marte a compiere ogni sorta di esercizi sportivi (corsa, lotta, pugilato, pallone, salto, lancio del disco…) e solo dopo, col vestito corto da lavoro, ci si sedeva sullo sgabellino a compitare. E guai a sbagliare una sillaba, erano nerbate da lasciare il segno. Adesso invece…., se lo tocchi con un dito, anche a sei anni il pupo rompe la tavoletta scrittoria sulla testa del povero maestro. A parte le esagerazioni comiche, le punizioni dovevano essere severe. Una pittura di Ercolano ne rappresenta la forma più grave, che era la fustigazione. Il colpevole viene raffigurato seminudo, mentre è sottoposto alla sua pena. Quello che fa più impressione è che all’operazione partecipano attivamente o rimangono indifferenti i compagni: due tengono fermo il disgraziato, mentre gli altri continuano tranquillamente a leggere i loro rotoli. È possibile che, come si legge in un mimo di Eronda, fossero i genitori stessi a chiedere questi interventi nel caso di ragazzi molto discoli. Ma il costume era destinato ad addolcirsi: Orazio ricorda sì le «battiture facili» del suo maestro Orbilio, ma queste erano ormai inflitte con la bacchetta, che faceva un po’ meno male. Marziale la definisce però sarcasticamente come «lo scettro dei maestri», cioè il segno del loro potere, antesignano un pò rozzo del moderno registro (anch’ esso destinato a scomparire). Quintiliano trova che è inutile e incivile picchiare gli scolari, ma egli è in grado, come si è visto, di suggerire un’alternativa, oltre che un sistema di incentivi. Naturalmente le battiture e le urla dei maestri, che pur documentano una stato di disordine, fanno più notizia dei buoni insegnanti e trovano spazio nei poeti realistici e satirici, come Giovenale e Marziale. Questi in diversi epigrammi si lamenta che già prima del canto del gallo si sentano i rimbrotti del maestro e il suono delle battiture. Anzi arriva a dire che in città non si può riposare al mattino a causa degli insegnanti, che sottraggono i bambini al più gradito gioco delle noci. Si tratta probabilmente di scolette dei quartieri poveri. Ma un maestro che urla, vuol dire che è irascibile e questo contraddice quello che insegna, osserva Seneca. La documentazione poetica e iconografica riguarda evidentemente le scuole dei bambini. Invece la denuncia di Agostino, che insegnava retorica, ossia nella secondaria superiore, si riferisce a giovani più maturi. Sulle ragioni dell’indisciplina a questo livello mancano quadri pittoreschi, ma qualche ragione si cerca. Anche allora si lamentava il distacco della scuola dalla vita: le declamazioni e le controversie recitate nelle aule non si limitavano a casi generali (come è inevitabile che si faccia nella scuola collettiva, che è per definizione teorica), ma sconfinavano nel grottesco e nell’inverosimile. E tuttavia dovevano essere considerate ancora strumenti insostituibili di preparazione non solo alla professione forense, ma anche alla politica, se personaggi del calibro di Marco Antonio e di Ottaviano, impegnatissimi nell’esercizio del potere, sentivano il bisogno di ricorrere a questo tipo di esercitazione. Un’analisi più profonda è tentata dal padre di Seneca, che era stato insegnante di retorica. Anche lui in fondo denuncia la separazione della scuola dalla vita, ma non per colpa della prima, bensì per deterioramento del costume della seconda. La nostra epoca, egli osserva, s’è abbandonata alla dissipazione, che è la rovina degli ingegni: i giovani non si fanno uomini, ma restano molli e senza nervi, com’erano alla nascita. Un’insana passione di canti e balli rende effeminata questa gioventù. Peggio: «Si gareggia per cose da poco, che vanno di moda e pure sono premiate con onori e guadagni». In questo quadro non c’è posto per la cultura seria, che è l’anima e la ragione della scuola.
Giornale di Brescia, 13.4.1999.