Roma antica non disponeva di una Costituzione scritta, ma faceva riferimento al mos maiorum, letteralmente "il costume degli avi", da non intendersi però in chiave privatistica, ma come complesso di comportamenti anche pubblici, quindi morali e politici . Questa normativa ideale aveva finito per riuscire una costituzione non scritta. Nel fatto che si fosse formata storicamente Cicerone vedeva una superiorità dello stato romano rispetto alle città greche, che si rifacevano a un legislatore unico, più o meno mitico. In questo quadro diventa naturale il rilievo concesso ai vecchi, come custodi della tradizione e memoria storica. Tale condizione simbolica non era priva di pericoli per i singoli: se il simbolo assurgeva a valore di per sé, perdevano interesse i vecchi come persone. L’episodio più tipico di questa possibilità si registra nel contesto dell’invasione gallica del 390 a.C. Di fronte al rischio imminente dell’occupazione della stessa Roma, si decide di portare in salvo sulla rocca il senato e l’esercito, in cui si vedeva il cuore stesso dello stato, e di abbandonare alla loro sorte le masse, tra le quali i vecchi di ogni condizione sociale, anche elevata, «destinati in ogni caso a morire», come riferisce Livio. Più spesso però il ruolo dei vecchi è anche individualmente positivo. Si potrebbe formare un’intera galleria di anziani salvatori della patria, accorti legislatori, mediatori nei conflitti, esemplari nei comportamenti. La storiografia antica si occupa ampiamente di questi uomini, a cominciare dai tempi remoti. Famoso è Appio Claudio, il quale, benché cieco e cadente, si fa portare in senato per ammonire a non concludere una pace umiliante con Pirro. O Cincinnato, che viene nominato dittatore per la seconda volta quando ha più di ottant’anni, allo scopo di dirimere una delicata controversia di politica interna. Più celebre è certamente Fabio Massimo il Temporeggiatore. Chiamato al comando nel momento più critico della seconda guerra punica, con Annibale alle porte, rinuncia alla strategia dell’attacco frontale contro il Cartaginese, riuscita esiziale per lunghi anni agli eserciti romani, e sceglie di stancare e indebolire l’avversario con la tattica opposta. Questa salva certamente Roma, ma non risolve il conflitto. A questo imporrà la svolta vincente Scipione, portando la guerra direttamente in Africa. Fabio Massimo non condivide questa nuova strategia; la sua opposizione può essere dettata da miopia senile e dai propri successi. Ma la sua inimicizia verso il successore, come poco dopo quella di Catone e in genere dei conservatori, in realtà vede anche lontano. Per attribuire i poteri a Scipione, troppo giovane per ottenerli secondo la prassi, che fissava l’età minima per il consolato a 43 anni (non lontano dalla soglia della vecchiaia, secondo le prospettive anagrafiche dell’epoca) si era dovuto operare un forte strappo alla costituzione non scritta. Si avvierà così quel processo di superamento degli istituti tradizionali, che porterà prima al predominio di poteri e uomini forti e poi alla fine del regime repubblicano. Forse nostalgici di quel regime sono gli uomini dell’opposizione senatoria a Nerone: il loro capo è Trasea Peto, che è un anziano fermo nei principii, anche se moderato nelle forme. Tacito descrive la sua morte sul modello di quella di Socrate, il grande vecchio saggio. Questo non significa che anche senza opposizione al principato siano mancati vecchi degni delle migliori tradizioni, come quel Virginio Rufo, che, generale vittorioso, rifiutò due volte il trono imperiale, che le sue truppe gli offrivano secondo il costume del tempo. Plinio il Giovane, che lo esalta a ragione, lamenta però che la sua memoria fu presto trascurata. Ma lo stesso Plinio ha occasione di riproporre figure di vecchi integri nella mente e nel corpo, fedeli servitori dello stato e non digiuni di cultura. Ma i vecchi del suo epistolario sono in genere di media o alta condizione sociale. Poco sappiamo invece della gente comune, nella quale gli anziani rappresentavano la fascia più debole in mancanza di una adeguata legislazione sociale. Drammatica doveva essere la condizione degli schiavi con certi padroni. Catone consigliava di ridurre le razioni alimentari ai malati e di vendere i vecchi come strumenti fuori uso. Qualche secolo dopo invece Plinio li considerava quasi come suoi congiunti ed era sensibile ai loro problemi. Ma anche dei liberi la condizione senile non era invidiabile, se si pensa alla vita dei quartieri popolari o dei tuguri di campagna. Del famoso Orbilio, maestro troppo severo di Orazio, sappiamo che vecchissimo abitava in una soffitta (sotto le tegole, dice Svetonio). Un altro grammatico, M. Popilio Andronico, non ebbe fortuna come insegnante, perché non sapeva tenere la disciplina; da vecchio per sopravvivere fu costretto a vendere una sua opera su Ennio, che poi fu pubblicata da un altro. I due sono di carattere opposto, ma accomunati dalla stessa sorte. Neanche la celebrità salvava dalla miseria: P. Valerio Catone, critico e poeta di fama, a tarda età si ridusse a vivere di stenti in un tugurio. Economicamente diversa, ma non esaltante neanche la vecchiaia dei grandi oratori, ai quali Quintiliano consigliava che si ritirassero dalla professione, quando non reggevano più alle fatiche dei processi, per non dare spettacolo della loro decadenza fisica. Non è un grammatico né un poeta quell’Umbricio (il nome è fittizio, ma la situazione reale), descritto da Giovenale nella terza satira. È invece un cittadino comune, che ha caricato le sue poche cose su un solo carretto e se ne va da Roma. La sua città è ormai invivibile per lui: è piena di stranieri, di artisti e di giochi, di arricchiti e di imbroglioni; la vita è troppo cara, insostenibili i prezzi degli affitti anche al terzo piano di edifici fatiscenti; il traffico per le vie è frenetico e rumoroso, rischiosa la circolazione notturna per pedoni senza scorta e senza lumi. Insomma un quadro tutto negativo. Ma queste sono cronache di quasi duemila anni fa.
Giornale di Brescia, 30.12.2005.