Due storici non certo dei maggiori, Giulio Capitolino (cui viene attribuita la biografia contenuta nella cosiddetta Historia Augusta) ed Eutropio (autore del «bigino» di storia romana, che una volta costituiva una delle prime letture dei ginnasiali) raccontano quasi con le stesse parole il modo privatistico, quasi una sorta di conflitto di interessi alla rovescia, con il quale Marco Aurelio finanziò la ripresa di una delle tante guerre del suo regno contro i Marcomanni e altre popolazioni della zona del Danubio. Poiché l’erario era esausto e non voleva imporre altre tasse ai provinciali direttamente interessati né al senato, cioè alla fiscalità generale, egli pensò bene di mettere in vendita, quelli che oggi si chiamerebbero i gioielli della corona. I due storici elencano con puntiglio gli oggetti messi all’asta: vasi d’oro, coppe di cristallo e di altri materiali preziosi, quadri di pittori celebri, persino l’abito da cerimonia della coppia imperiale, serico e ricamato d’oro. Anzi il sovrano andò a ripescare il tesoro di gemme, che l’imperatore Adriano, legalmente suo nonno, aveva chiuso nella cassaforte privata: evidentemente né lui né il padre adottivo Antonino Pio, che preferivano la vita semplice, ne avevano fatto mai uso. Il materiale raccolto fu così abbondante che l’asta, celebrata nel foro di Traiano, durò due mesi e il suo esito fu sufficiente a realizzare i piani previsti per le operazioni militari programmate. Dopo la vittoria il principe si trovò in grado di ricomperare gli oggetti venduti all’incanto, ma non tutti gli acquirenti vollero restituire oggetti di valore e pezzi storici, né egli se ne dispiacque. Gli storici precisano che erano stati messi all’asta «gli strumenti del culto imperiale», cioè quello che una volta distingueva esteriormente la corte dal popolo e si riteneva utile a precisare le gerarchie. E non erano certo le «vanità del fasto» (come si legge nei Ricordi 7,13), che potessero interessare a Marco Aurelio, il quale aveva accettato il potere solo come un dovere gravoso e avvertiva bene la precarietà delle cose umane, comprese le sue vittorie (fino a paragonarle, nei Ricordi 10,10, alle tele di ragno che catturano le mosche).A detta del biografo, egli amava ripetere che le città fiorirebbero, se fossero governate dai filosofi o almeno da politici, che coltivassero la filosofia (e per filosofia intendeva il più austero stoicismo, che aveva cercato di realizzare da giovane). Con questa mentalità si capisce bene il suo disinteresse in caso di conflitto tra la corte e lo stato. Il biografo precisa che non prese mai in considerazione accuse, che comportassero vantaggi per la cassa dell’ imperatore (secondo un metodo che era stato invece tristemente in uso con despoti come Nerone e Domiziano) e lasciò sempre ai senatori la competenza nei processi, nei quali si trovava coinvolto. Benché detenesse anche il supremo potere giudiziario, mai egli emise sentenze utili al fisco, cioè alla cassa imperiale (che era altra cosa dell’erario pubblico). Questi elogi lasciano sospettare che non fossero rari i conflitti d’interesse tra l’imperatore e il suo clan da una parte e i cittadini romani dall’altra. Su uno di questi ci dà qualche notizia l’epistolario di Frontone, già maestro di retorica latina di Marco Aurelio. Si tratta esteriormente di una causa di successione, ma che assume rilievo politico per i personaggi che vi sono coinvolti, e colpisce l’opinione pubblica. A provarne la gravità sta il fatto che l’imperatore chiede il parere del consilium principis, un organo solo consultivo, ma formato da personaggi di rilievo e interpellato su questioni d’importanza. Il principe si sente stretto fra le pressioni della moglie, sostenuta da Frontone, e la sua personale inclinazione. Ecco i fatti, per quanto è possibile ricostruirli. Matidia, una signora vecchia e sola, zia dell’imperatore, aveva nominato l’imperatrice Faustina erede del suo patrimonio, gravato da onerosi legati: i gioielli alle figlie di Marco e una somma enorme per una fondazione di assistenza sociale. Inoltre, quando forse non era più interamente in grado di intendere e volere, aveva aggiunto un codicillo, col quale aveva praticamente dato fondo ai suoi averi a favore di estranei. Naturalmente alla sua morte costoro sostennero la validità morale e giuridica del codicillo in questione. La realizzazione di quest’ultima disposizione avrebbe però urtato contro una legge (risalente ai tempi repubblicani, ma allora le leggi godevano di lunga vita), per la quale all’erede doveva in ogni caso toccare almeno un quarto dell’asse patrimoniale. Per rendere operativa tale norma nel caso in questione, l’imperatore avrebbe dovuto ripianare del suo la differenza o danneggiare le figlie vendendo i gioielli o mettere in discussione il codicillo. Alle complicazioni legali si aggiungevano quelle politiche: nessuno avrebbe certo comperato i gioielli già in uso alle principesse; se poi lo avesse fatto la loro madre, l’opinione pubblica avrebbe sospettato un’operazione di comodo, cioè una cessione sottocosto. Se infine non ci fosse stato nessun intervento, Matidia sarebbe risultata intestata, come se non avesse fatto testamento, con grave scandalo e diminuzione di prestigio della corte, trattandosi di una nobildonna membro della famiglia reale, alla quale per di più era stato decretato il funerale di stato. In questo ginepraio si poteva immaginare a quale soluzione tendesse personalmente l’imperatore, tenendo conto del suo carattere e della sua formazione filosofico-morale. Ma la moglie era di tutt’altra tempra e con lei si schierò Frontone, sollecito di quello che riteneva il bene della casa imperiale. L’antico professore di retorica torna allora a vestire i panni dell’ avvocato: lo annota con un po’ di ironia lo stesso ex alunno: «Ecco dunque che il nostro maestro ormai sarà anche il nostro avvocato». Frontone propende per l’invalidità del codicillo, ma teme che, essendo stato presentato come fatto secondo le regole, l’imperiale ex discepolo lo accetti per buono, persuaso proprio dalla sua educazione filosofica. Egli scrive infatti al genero Vittorino (anche lui eminente personaggio politico e militare): «Ho avuto paura che la filosofia gli suggerisse qualche cosa a rovescio». Per l’avvocato dunque si fronteggiano due soluzioni possibili al conflitto d’interesse, una filosofica-morale, l’ altra giuridico-politica. Non è certo quale sia stata la decisione ultima di Marco Aurelio, ma il dilemma è chiaro.
Giornale di Brescia, 5.3.2002.