La risonanza antica delle imprese di Alessandro Magno si riflette nelle frequenti citazioni del personaggio negli scrittori latini. Persino Livio, derogando al suo programma di limitarsi alla storia della propria patria, dedica tre lunghi capitoli del libro nono a un confronto teorico fra le risorse militari e morali dei Romani e quelle del grande Macedone. La sua conclusione sostiene, patriotticamente la superiorità dei primi sul secondo in qualsiasi eventuale momento di scontro. L’attenzione alla personalità di quel condottiero non si traduce necessariamente in apprezzamenti positivi, quale che sia il punto di vista assunto dallo scrittore. Naturalmente non ne mancano di questo genere. Per esempio Plinio nella Naturalis Historia racconta un aneddoto edificante: il guerriero, abituato alla polvere dei campi di battaglia, avrebbe destinato a custodire i poemi di Omero una preziosissima cassetta portaprofumi del bottino di Dario. Ma colpiscono di più i giudizi negativi. Cicerone definisce Alessandro un uomo saepe turpissimus (peggio di suo padre Filippo, che aveva qualche tratto di umanità). A questo proposito è interessante avvicinare il giudizio di Livio a quello di Seneca: sono entrambi fortemente critici, ma il primo orientato in senso storico-politico e tecnico, il secondo in senso anche morale e psicologico. L’uccisione del fedelissimo amico Clito durante un banchetto, per Seneca è prova dell’intemperanza del re, che si vantava di vincere tutti i commensali nella gara a chi bevesse più vino. Altrove però il filosofo riconosce che quel delitto ha anche una motivazione politica nella riluttanza dell’amico verso l’adulazione e la genuflessione. Così anche nell’assassinio di Callistene, «che non sopportava i furori del re». Per Livio si tratta piuttosto di una tappa della progressiva orientalizzazione del Macedone. Se questi, terminata la conquista dell’Est, fosse passato in Italia (era il tempo delle guerre sannitiche) si sarebbe presentato ormai ridotto al livello di Dario col suo seguito di cortigiani e di corrotti. Vano sarebbe stato anche il suo vantaggio pratico di sovrano assoluto, che non deve tener conto della opposizione di organi costituzionali. Anche lo storico enumera i difetti morali del re, compresa la crudeltà, ma non li mette in grande evidenza, come fa Seneca per esempio ricordando Lisimaco, gettato vivo in pasto ai leoni. Per il filosofo anche l’indulgenza al vino, come la facilità all’ira, è una colpa morale, che genera in Alessandro tardivi pentimenti e la solitudine umana, vittima dei suoi stessi atti. Livio non manca di sottolineare che vino e ira screditano un capo militare. Alessandro non era mai stato temprato dalle avversità e dalle sconfitte, come i Romani. Era morto giovane, prima di conoscere la mutevolezza della fortuna e quindi conservando la fama di invincibile, favorito anche dall’incontro con re ed eserciti imbelli (secondo la valutazione romana degli orientali). Alla dura scuola di vita dei Romani avrebbe potuto solo contrapporre l’inutile discepolato presso Aristotele, aggiunge Seneca. Alessandro va in Oriente col programma di lasciare agli altri popoli solo quello che avesse voluto avanzare per loro. Unifica sotto il suo scettro regni diversi per ordinamento e cultura, togliendo a ciascuna nazione i suoi caratteri distintivi, ad Atene la parola, a Sparta la libertà. Ma Seneca va oltre. Le grandi conquiste del Macedone sono in realtà un enorme latrocinio, una immane devastazione. Non un nobile programma e un progetto politico lo muovono, ma una furia incontrollabile, che lo spinge anche verso l’ignoto. Crede di muovere gli eventi ed è invece da essi trascinato, va senza sosta perché non può star fermo. È un infelice, anzi un pazzo, perché comincia la sua opera devastatrice proprio dalla Grecia, nella quale era cresciuto. Dunque rovina degli amici come dei nemici. Si vanta di essere come Ercole, che trascorreva da un confine all’altro della terra. Ma quello era un eroe benefattore, non un devastatore. Ercole aveva saputo riconoscere alle sue azioni i confini della natura, Alessandro vorrebbe infrangere le porte dell’universo. Davanti all’Oceano Indiano non sente, come l’Alexandros pascoliano «che era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare», anzi si indigna dei limiti che la natura pone anche a lui. Seneca ha mirabilmente sintetizzato in una pagina della lettera 94 a Lucilio i giudizi sparsi nelle altre opere. Il passo disegna un quadro delle miserie di un uomo, che si crede e si celebra grande, e del quale in fondo non mette conto occuparsi. Di qui l’invito agli storici, che si legge nelle Questioni Naturali: «È molto meglio celebrare le opere degli dei, che i latrocinii di Filippo e di Alessandro e di tutti coloro che, diventati famosi per aver causato la rovina di popoli, sono stati per i mortali pesti peggiori delle inondazioni, che coprono intere pianure, e degli incendi, che bruciano esseri viventi».
Giornale di Brescia, 6.2.2005.