La ricca produzione di volumi di Letteratura cristiana da parte dell’editrice Morcelliana avvicina il lettore a testi e autori altrimenti sconosciuti. È così possibile entrare in contatto con una delle opere più significative di Basilio il Grande: il «Discorso ai giovani», in forma di omelia indirizzato ai nipoti. Basilio è nella storia della Chiesa uno dei grandi padri cappadoci, così chiamati perché provenienti da quella lontana regione che si trova al centro dell’attuale Turchia. Prima dei tempi di Basilio (IV secolo) la Cappadocia era rimasta un po’ isolata rispetto alle località costiere dell’Egeo e del Mediterraneo nelle quali era fiorita la civiltà greca. Si trovava però sulla strada che da Costantinopoli portava ad Antiochia di Siria: perciò i più facoltosi abitanti potevano permettersi di raggiungere quelle capitali culturali e politiche vicine. La zona era stata cristianizzata dalla seconda metà del terzo secolo; missionario ne era stato un discepolo di Origene, Gregorio detto il Taumaturgo. Dopo di lui fiorirono in Cappadocia almeno tre grandi personalità della storia della Chiesa: Basilio, vescovo di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio, fratello di Basilio, vescovo di Nissa, sempre in Cappadocia. Tutti e tre presero parte, a partire dal 360 circa, alle dispute trinitarie allora molto vive, sostenendo sempre il pronunciamento del concilio di Nicea del 325 che, condannando l’eresia ariana, ribadiva che il Figlio è «della stessa sostanza del Padre». La famiglia di Basilio era di antica fede cristiana ed egli ce ne parla nel ricco epistolario, grazie al quale riusciamo a ricostruire la storia della Cappadocia cristiana e a ritrovare le tracce della sua formazione, passata attraverso Atene, città ancora pagana e filosofeggiante. Nell’antica patria di Platone aveva studiato anche Giuliano, il futuro imperatore che avrebbe rinnegato il Cristianesimo della sua famiglia, passando perciò alla storia come l’Apostata. Ma Atene deluse sia Basilio sia l’amico Gregorio di Nazianzo che studiava insieme a lui: la cultura pagana eccelleva dal punto di vista della retorica ma non dava le risposte esistenziali cercate, e i due ritornarono in patria. Basilio si accostò prima a forme di vita ascetiche, poi si fece sacerdote e infine venne eletto vescovo di Cesarea di Cappadocia. Cultura classica e formazione cristiana si compenetrano nella formazione di Basilio, ma non si fondono: restano come due strati sovrapposti e non armonizzati. Ne è prova anche la famosa omelia «Ai giovani» citata all’inizio, che promette molto al lettore, forse per via del sottotitolo con cui si presenta: in che modo essi possano trarre utilità dai libri dei pagani. Ma le promesse risultano presto vanificate, perché letterariamente e contenutisticamente il discorso risulta piuttosto modesto. Claudio Moreschini, che recentemente ha pubblicato nella collana della Morcelliana, di cui si diceva, una bella «Introduzione a Basilio il Grande», la definisce (p. 96) come «un’opera per certi versi inconcludente. La sua logica spesso è debole». La lettura del testo conferma questa impressione. La modestia dell’analisi deriva da un approccio superficiale e utilitaristico nei confronti dei testi classici. Basilio interpreta la cultura pagana in una prospettiva di sfruttamento a fini protrettici: come fanno le api, al cui esempio egli ricorre per mostrare che bisogna rivolgersi a tutti i fiori ma trarne solo quanto serve alla lavorazione. In questa prospettiva si rivelano utili i filosofi che hanno insegnato la virtù, e quindi in primo luogo gli Stoici. Ma anche gli elegiaci come Teognide e Solone possono fornire esempi utili: e in questa funzione può andare bene anche Omero. Invece i poeti in genere, anche quelli tragici, vanno evitati, così come gli uomini perversi che essi rappresentano: di fronte a loro bisogna tapparsi le orecchie come Ulisse davanti alle Sirene. Gli oratori vanno rifiutati perché troppo seducenti, col miele nei loro discorsi che nasconde il veleno. E così via per i vari generi letterari. Questa posizione culturale di Basilio non è isolata: si inquadra nella vasta polemica di molte voci del Cristianesimo dei primi secoli contro l’idolatria propagata dalla cultura pagana. È un rifiuto che è segno dei tempi, che sono spesso di radicale contrapposizione: si pensi a un Minucio Felice, considerato un moderato nei confronti del mondo pagano, che definiva Socrate come il pagliaccio di Atene. Ma la linea di contrapposizione radicale al classicismo era destinata a estinguersi progressivamente, una volta venute meno le condizioni storiche della rivalità. I secoli successivi sarebbero stati caratterizzati dalla grande operazione di armonizzazione e assimilazione di molta parte della cultura classica all’interno del vincente Cristianesimo. Un solo, notissimo esempio per tutti: la funzione di guida, maestro e profeta che Dante assegna a Virgilio nelle prime due cantiche della Commedia. È il riconoscimento più esplicito dei meriti di quel mondo antico che preparò il terreno culturale e spirituale per la diffusione del Cristianesimo.
Giornale di Brescia, 20.12.2005.