Da sempre gli storici si sono sforzati di capire attraverso quale valico Annibale abbia attraversato le Alpi e sia giunto in Italia. La sua traversata si colloca nella seconda guerra punica, dichiarata nel marzo 218 a.C. dopo la presa di Sagunto. Nella primavera dello stesso anno Annibale attraversava i Pirenei e procedeva attraverso la Gallia meridionale, inutilmente contrastato dai Romani nella bassa valle del Rodano. Nel corso della tarda estate l’esercito cartaginese giungeva alle Alpi, che impiegò 15 giorni a salire e discendere e, presumibilmente tra il 20 e il 25 settembre dello stesso anno 218, arrivava nella pianura padana. Lo storico Livio riconosce che gli autori a lui precedenti la pensavano in maniera diversa, a proposito del percorso dei Cartaginesi; egli non si pronuncia in modo esplicito, ma indirettamente ci fa pensare al colle del Monginevro come via di passaggio. Oggi il valico di Annibale viene identificato con risultati molto diversi. Si ritiene che si tratti, ora del Piccolo (ma anche del Gran) San Bernardo, ora del colle de la Traversette, ora del Moncenisio ovvero del Monginevro. La tesi a mio parere più convincente è quella che propende per il Col de la Seigne, nella zona di Courmayeur. Ma credo che nessuno riuscirà mai a dare una risposta definitiva. L’indeterminatezza delle fonti e le inevitabili trasformazioni del paesaggio hanno reso ormai impossibile la soluzione dell’interrogativo. Proviamo però a recarci su quel terreno alpino, cercando di immaginare che cosa abbiano incontrato i soldati africani di Annibale che, con i cavalli e i famosi elefanti, erano impegnati in una traversata grandiosa e terribile. La prima verifica è sul Piccolo san Bernardo, alla ricerca di vestigia di epoca romana. In effetti ci sono, e abbastanza numerose. Qui passava la grande strada praticabile dai carri in tutto il suo percorso, che partiva da Mediolanum, cioè Milano, e attraversava il territorio dei Salassi, che abitavano l’odierna Valle d’Aosta. La strada proseguiva oltre le Alpi fino all’antica Vienna, oggi Vienne nel Delfinato: era una città importante, in collegamento con la Gallia Narbonese, cioè la Provenza. Sul valico esiste ancora la colonna Joux, un monolito di quasi cinque metri, in cima al quale si trova la statua di San Bernardo, in sostituzione di antica statua di Giove. Il nome Joux viene collegato popolarmente alla divinità romana di Juppiter, nella forma del genitivo Jovis (a volte anche nominativo). Nel Medioevo il passo era appunto chiamato Columna Iovis, poi cambiò nome in onore di San Bernardo, arcidiacono di Aosta, che vi fondò un ospizio per i viandanti. Riferimenti a Giove si trovano anche in numerosi nomi di vette della zona, come Jovet, Jouvet, Joux e Jovis. Le tracce romane sono evidenti, ma il paesaggio è aperto e non ci sono quelle montagne incombenti che il racconto di Livio descrive. Leggiamo infatti nel libro XXI che, quando le truppe di Annibale giunsero al cospetto delle pareti alpine, lo sgomento era evidente tra le schiere, alla vista prima lontana e poi vicina dell’altezza delle montagne e delle nevi che quasi si confondevano col cielo. Quindi la traversata deve essere avvenuta per un passo più vicino del Piccolo San Bernardo alle rocce e ai ghiacciai delle Alpi. Le altre ipotesi avanzate circa il valico possono rispondere a questo requisito del paesaggio, in particolare se pensiamo al Col de la Seigne, che congiunge la Francia e l’Italia, passando subito sotto le grandi pareti del Monte Bianco. Chi lo valica, come forse fece Annibale, scende in Italia attraverso la val Veny, proprio a ridosso dei maestosi ghiacciai del Bianco che scendono, e soprattutto scendevano in passato, a lambire i pascoli. Sulla sinistra del viandante si avvicina il ghiacciaio del Miage, poi quello di Brouillard, poi la Brenva, con le gigantesche pareti che lo sovrastano e che portano gli alpinisti più arditi in vetta al monte Bianco. I ghiacciai oggi sono purtroppo molto ritirati, come è noto: tuttavia fanno ancora una grande impressione su chiunque li osservi dal Col de la Seigne o dalla Visaille, una capanna-rifugio in posizione molto panoramica. Un senso di grandiosità e di sgomento pervade l’osservatore. Immaginiamo dunque lo spavento che questi ghiacciai e queste pareti rocciose devono aver esercitato sull’animo di quei soldati, abituati a un paesaggio del tutto diverso e in palese difficoltà su di un terreno misterioso. Devono aver provato il senso dell’incontro con l’ignoto, del varco del passaggio con l’altro mondo, dell’inizio di una nuova avventura forse senza ritorno.
Giornale di Brescia, 13.8.2005.