Gli scritti latini di San Francesco sono poco noti, messi in ombra, come è naturale che sia, dalla grande popolarità del Santo come tale, ravvivata anche fino ai nostri giorni dai frati degli Ordini, che da lui discendono. Un po’ meno ignorata è la sua produzione in volgare: il bellissimo Cantico delle Creature si legge (o si leggeva) anche nelle scuole, non foss’altro per quel suo assisiate illustre, che si colloca agli albori della letteratura italiana. L’assenza degli scritti latini dalla cultura comune contribuisce ad avallare il mito di un Poverello dalla semplicità piuttosto primitiva e rozza. Invece Francesco era uomo di buona cultura. Il padre, un mercante arricchito, gli aveva fatto dare un’educazione da gentiluomo a scopo di promozione sociale. Come il giovane abbia rifiutato questa prospettiva è a tutti noto attraverso il simbolico matrimonio con Madonna Povertà. Di questa formazione doveva però essere rimasta qualche traccia nell’umile mendicante, se è vero che amava chiamare i suoi frati, con giovialità e autoironia, i cavalieri della Tavola Rotonda, con evidente allusione al ciclo arturiano preferito dalle classi agiate. Negli scritti latini appare una diversa cultura: essi risentono di una viva tradizione teologica e biblica, quindi non sono sempre di facilissima lettura. A questa condizione non si sottrae il breve testo sul Padre Nostro, che ha carattere sintetico e onnicomprensivo, perché intende questa preghiera veramente come “sommario di tutto il Vangelo” e “compendio della dottrina divina”, come volevano Tertulliano e Cipriano. Di esso ha data recentemente Paideia una pregevole edizione con commento e traduzione di Giuseppe Scarpat, ben noto studioso non solo di entrambe le lingue e le letterature classiche, ma anche di autori cristiani e medioevali e della Bibbia (è appena reduce dal compimento dell’impresa di tre volumi sul Libro della Sapienza).Questo nuovo commento è soprattutto linguistico, anzi lessicale. Ma la precisazione del valore dei termini usati da Francesco serve a capire fino in fondo la sua interpretazione della preghiera, al di là delle facili trasposizioni linguistiche. Quando l’inizio si rivolge al Padre che sta nei cieli, tra gli attributi che gli vengono riconosciuti, si legge anche quello di «redentore», con cui di solito si qualifica il Figlio. Ma non tanto perché l’attributo compariva già nell’ Antico Testamento, quanto perché Francesco, come altrove, pensa alla Trinità. Caratterizzando le tentazioni, uno dei quattro aggettivi è importunus, che può anche corrispondere al nostro «importuno», ma nella lettera paolina ai Tessalonicesi sta in coppia con “cattivi”, dunque “perverso, malvagio, spregevole”. Verso questa accezione convergono i classici pagani Seneca, Orazio, Cicerone e persino Plauto. Il testo di San Francesco è un’expositio, ossia una parafrasi che possa servire da preghiera, ma con intenti esplicativi e applicativi. S. Francesco traduce santificetur, letteralmente mal significativo come il nostro «sia santificato», con clarificetur, di cui il commento illustra l’equivalenza storica a «sia glorificato»; ma anche questo non basta, perché il soggetto della parafrasi non è «il tuo nome», ma “la conoscenza di te”. Per cui clarificetur vorrà dire «diventi chiara per noi» (la traduzione proposta suona appunto “si illumini in noi la tua conoscenza”); e a questo segue l’ analisi degli effetti sull’uomo di tale cognizione. Anche «venga il tuo regno» darebbe senso dimidiato, se inteso in una sola direzione, dall’alto verso il basso: ma Francesco insiste sulla direzione opposta, per così dire ascensionale, il raggiungimento da parte dell’orante del regno di Dio. Dall’expositio di S.Francesco pare che ne dipenda strettamente un’altra, anonima, scoperta di recente e ora stampata con la prima. Il confronto tra le due torna tutto a favore della precedente. L’anonimo ha una visione rigida e formalistica; anche strutturalmente si lega all’obbligo di articolare ogni lemma in quattro punti. Francesco non ha queste preoccupazioni esteriori: il commento ai vari lemmi è di lunghezza disuguale, secondo che gli dettano il cuore e le preoccupazioni spirituali. La parafrasi a «sia fatta la tua volontà» si dilunga per tredici righi, elencando tutte le forme e i modi, con cui si può amare realmente Dio: questi modi specificano concretamente la localizzazione generica «in terra». Il lemma «non ci indurre in tentazione» ignora le questioni, ancora oggi vive e già dibattute prima d’allora, e preferisce condensare in un rigo solo in quattro aggettivi il multiforme aspetto della tentazione. Di fronte alla “remissione dei debiti” insiste a precisare come deve essere questa remissione: piena, senza reciprocità di offese, senza residui di risentimento, anzi con ricambio d’ amore: “a Francesco preme molto che questo perdono sia senza riserve”. Il pane della richiesta ha “stretto significato eucaristico”: è invece l’expositio anonima che si incarica di “riparare all’omissione”, reintroducendo la necessità quotidiana. Bastino questi esempi a dire come l’ analisi delle parole e della loro ascendenza aumenti la suggestione di un testo breve e ricco. Si conferma per questa via il giudizio che l’expositio francescana è, non solo di “grande valore letterario e teologico”, ma anche “testimonianza preziosa della spiritualità del Santo… e del suo rapporto concreto con Dio Padre”.
Giornale di Brescia, 15.12.2000.