Il poeta neoterico Vario

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Vario è noto soprattutto come editore dell’Eneide . Di lui come poeta in proprio possiamo leggere solo i dodici versi, distribuiti in quattro frammenti, che Macrobio, Sat. 6, 1, 39-40 e 2, 19-20, ci ha conservato dal De morte. Ma presso gli antichi egli andava famoso soprattutto per la tragedia Tieste, da cui forse deriva il frammento citato da Quintiliano 3, 8, 45 iam fero infandissima, iam facere cogor: troppo poco per consentire un qualsiasi giudizio sull’autore dell’opera. Eppure la critica moderna tende a considerarlo il poeta augusteo per eccellenza, non nel senso che abbia toccato il vertice del classicismo, ma che sia stato più disponibile a farsi interprete del principato. W. Wimmel per esempio lo differenzia da Virgilio e Orazio proprio per questo: mentre i due sommi avrebbero universalizzato le idealità augustee, Vario sarebbe stato più disposto al contingente e all’immediato. E. Lefèvre lo considera addirittura un poeta a vocazione panegiristica.
Le basi per queste affermazioni sono sostanzialmente due. La prima è costituita da pochi versi dell’epist. 1, 16, 27-29, che Orazio presenta come citazione da un elogio, che sarebbe sproporzionato per un cittadino privato, mentre si capisce subito che è riferito ad Augusto:
tene magis salvum populus velit an populum tu
servet in ambiguo,qui consulit et tibi et urbi
Iuppiter.
L’autore di questi versi non è precisato da Orazio, ma neanche dal suo scoliaste Porfirione, che ad loc, si limita ad annotare: (versus)… qui sunt notissimo ex panegyrico Augusti. Il nome compare soltanto nell’altro scoliaste, il cosiddetto pseudo Acrone, ma in una parte appena della sua tradizione manoscritta: haec enim Varus de Augusto scripserat. Varus per Varius non è determinante, perché l’errore è comune; ma l’assenza della notizia in altri codici dello stesso commentatore e la discordanza di Acrone da Porfirione inducono seri dubbi sull’attendibilità di questa, come del resto di altre informazioni degli scoliasti antichi. Si aggiunga che non si vede perché Orazio, che nomina tanto spesso Vario, di cui era amico, l’abbia taciuto proprio in questa occasione, che doveva far piacere al poeta, se questi era augusteo nel senso che s’è detto. Se si guarda poi attentamente il contesto dell’epistola, si ha l’impressione che Orazio abbia introdotto un’ipotesi fittizia: si quis bella tibi terra pugnata marique / dicat… Augusti laudes adgnoscere possis (25 e 29), inventando una citazione sul tono dei canti popolari e trionfali. È quasi impossibile trarre di qui la deduzione che Vario fosse un panegirista.
L’altra base sembra più solida. In una didascalia, che si trova nel codice Par. Lat. 7530 ed è ripetuta testualmente nel Cas. Lat. 1086, si usa leggere la notizia che Vario avrebbe fatto rappresentare la sua tragedia Tieste in occasione delle feste per la vittoria di Azio:
Incipit Thyestes Varii.
Lucius Varius cognomento Rufus Thyestem tragoediam magna cura absoluto post Actiacam victoriam Augusto ludis eius in scaena edidit, pro qua fabula sestertium deciens accepit.
La straordinarietà del compenso ricevuto dall’autore per quest’opera si spiegherebbe solo con la sua valenza politica, di celebrazione ufficiale («Festspiel», dice il Lefèvre, cit. p. 20).
La notizia non trova conferma. Nelle cronache antiche sulle celebrazioni per la vittoria di Azio non si ha neanche notizia di rappresentazioni teatrali. Queste potrebbero aver trovato posto nelle manifestazioni di contorno oppure nei ludi, variamente denominati, aziaci e augustali, che si celebrarono poi con cadenza quadriennale. In verità neanche la didascalia è così precisa come sembra: dei ludi non dice se furono dati da Augusto o in suo onore (ludis eius); la vittoria di Azio stabilisce solo un rapporto temporale (post, non propter Actiacam victoriam).
Anzi questo sintagma richiama alla memoria quello che si legge nella Vita Virgiliana di Donato 27, 91 a proposito della lettura delle Georgiche al principe, che si era fermato ad Atella per curarsi un mal di gola. La formula del codice medioevale sembra perfettamente sovrapponibile a quella del biografo antico: confronta absoluto post Actiacam victoriam Augusto con reverso post Actiacam victoriam Augusto. È difficile sottrarsi alla sensazione che l’autore della didascalia abbia tenuto presente il passo della Vita Donati per ricostruire una situazione analoga: per Augusto; libero da un grande impegno (magna cura absoluto), Vario fece rappresentare la sua tragedia, come Virgilio recitò le sue Georgiche. Così intesa la notizia diventa da pubblica privata: che poi sia vera è impossibile verificare, ma è lecito dubitare.
Come la notizia della recitazione sembra costruita sulla falsariga di un precedente famoso, così gli altri particolari sembrano stereotipati e perciò inaffidabili. I tria nomina di Vario compaiono solo in questa attestazione. L’entità della ricompensa corrisponde a una cifra standard: per fare solo un esempio, rappresenta il totale delle elargizioni imperiali concesse sia a Virgilio che proprio a Vario secondo lo ps. Acrone a Orazio, epist. 2, 1, 246. L’impressione che la notizia del codice sia fittizia viene rafforzata dal contesto in cui si trova. All’incipit e alla didascalia, tipiche della introduzione a un testo, non solo non segue affatto la tragedia, ma neanche qualche indizio che sia andata perduta; segue invece un elenco di segni diacritici da usare nell’approntamento dei testi, le XXI notae. Il cod. 7530 (di cui per questa e altre parti il Cas. 1086 risulta copia fedele) è un manuale preparato per gli insegnanti di Montecassino con materiale vario. La cosiddetta didascalia è una nota, come le ventuno che seguono, cioè un modello teorico, inventato o almeno stilizzato . Da essa non si ricavano notizie sulla data e le circostanze della rappresentazione, che invece sarebbe importante definire per poter formulare qualche ipotesi, in mancanza di altre notizie, sui contenuti e gli indirizzi dell’opera.

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Certo se il Tieste è stato messo in scena per le celebrazioni ufficiali di Azio, doveva avere caratteristiche «augustee» adatte all’occasione. Ma questa deduzione sembra improbabile. Intanto non si sa neanche se la tragedia sia mai stata rappresentata. Nella tradizione antica (Quint. 10, 1, 98; Dial. de orat. 12, 6) è costantemente accoppiata alla Medea di Ovidio, che è tragedia di lettura (in coerenza col temperamento del suo autore). Nel Dialogus cit. Curiazio Materno contrappone chiaramente gli autori impolitici agli autori politici rispetto alla fama: plures hodie reperies, qui Ciceronis gloriam quam qui Vergilii detrectent: nec ullus Asinii aut Messallae liber tam inlustris est quam Medea Ovidii aut Varii Thyestes. È vero che prima (3, 3) lo stesso Curiazio aveva promesso di rincarare con un suo Tieste le dosi polemiche della tragedia Cato, che già gli avevano procurato le critiche del potere.
Ma si tratta sempre di recitazioni, non di rappresentazioni. E, se un Tieste si pone sulla linea di un Catone, anzi l’aggrava, questo dovrebbe significare che la nuova tragedia non si limita a rivendicare la libertà dell’opposizione (il suicidio dell’Uticense), ma scende nel cuore delle vicende politiche a mostrarne il male organico: potere e opposizione sono omogenei tra loro. Così Atreo e Tieste sono degni l’uno dell’altro: se il primo imbandisce al secondo l’orribile cena, Tieste aveva in precedenza cercato di sottrarre al fratello moglie e trono.
Né si può immaginare che Vario abbia modificato il mito in modo tale da renderlo compatibile con l’occasione, che celebra nel vincitore il buono e nel vinto il malvagio. Le innovazioni contenutistiche erano contrarie all’uso. È vero che qualche decennio dopo Seneca nella tragedia omonima farà di Tieste un uomo che ha imparato la lezione del dolore, e appare smarrito e confuso, vittima davanti a un carnefice: ma un protagonista di questo genere sarebbe stato ancora meno idoneo a rappresentare Ottaviano nel momento del suo massimo splendore.
Il mito tiesteo non sembra adatto a celebrare Azio neanche sotto il profilo riduttivo di una battaglia che mettesse fine comunque alle guerre civili. Lo scontro tra i fratelli Atreo e Tieste è solo un momento di una lunga catena di odii e di delitti, che doveva continuare a insanguinare la casa di Pelope anche dopo di loro. Dopo la vendetta, che Tieste, appoggiato da Egisto, si prende su Atreo, che gli aveva imbandito le carni dei figli, il trono passerà al figlio di Atreo, Agamennone, a sua volta ucciso da Egisto (e queste leggende erano ben note, quindi poco modificabili). Se Ottaviano non può essere né Atreo né Tieste, Agrippa, il generale artefice delle sue vittorie, non può essere Egisto, che, oltre l’origine incestuosa, godeva pessima fama anche per gli avvenimenti successivi. Infine non si può ritenere adatto a solennizzare l’avvenimento un mito greco – esotico: Azio significava anche la vittoria dell’Occidente contro la tentazione orientaleggiante di Antonio e Cleopatra.
Invece l’esotismo è caro al gusto neoterico, così come l’argomento scabroso: basti citare l’Attis di Catullo, la Zmyrna del bresciano Cinna, la Ciris pseudovirgiliana. La vicenda della casa di Pelope non mancava di momenti atroci: adulteri, fratricidi, incesti, omofagie. Questa scelta di contenuti sta fra la morbosità e il moralismo: il finale del carme 64 di Catullo imputa l’allontanamento degli dei dalla terra al sormontare delle iniquità dei mortali, fratricidi, odii familiari, incesti, empietà e delitti di ogni genere.
Il racconto di tali tragici fatti consente un’insistita analisi psicologica, che è un’altra caratteristica dei neoteroi e si esplica spesso in forma drammatica (vedi il lamento di Arianna nello stesso carme 64 di Catullo). Ora le fosche vicende dei Pelopidi offrivano ampio terreno per esercitazioni di questo genere. Anche nell’omonimo dramma di Seneca, Tieste, richiamato dal fratello con la falsa prospettiva della riconciliazione, alterna timori e speranze. Si può immaginare che anche l’Atreo di Vario, prima di decidersi all’orrenda vendetta sul fratello-rivale, abbia pur avuto qualche esitazione, abbia pur dovuto convincere se stesso della opportunità della vendetta. Forse proprio alla scena, nella quale veniva rappresentata una simile lotta interiore, si riferisce la citazione di Quintiliano iam fero infandissima, iam facere cogor (nel contesto il retore spiega che anche un malvagio davanti a malvagi tenta sempre di giustificare i suoi atti come necessari: così Catilina in Sallustio, così Atreo in Vario). Divisa tra il marito e l’antico amante doveva essere Erope, la donna che stava all’origine della contesa tra i fratelli. L’impotenza accresceva la sua angoscia. Quintiliano, in un passo corrotto e discusso (11, 3, 73), accenna a una Aerope tristis, senza indicazioni di contesto. Ma, se nell’opera aveva qualche rilievo un personaggio femminile, questo è un altro tocco neoterico.

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Il moralismo compare anche in almeno due delle quattro citazioni macrobiane del De morte, Sat. 6, 1, 39 = 1 Morel: vendidit hic Latium populis agrosque Quiritum
eripuit, fixit leges pretio atque refixit
e Sat. 6, 1, 40 = 2 Morel:
incubet et Tyriis atque ex solido bibat auro.

Il primo colpisce l’avidità di ricchezze, che fa calpestrare le leggi e tradire il bene pubblico; il secondo deplora la passione del lusso; forse il primo peccato è in funzione del secondo. Per uno dei versi corrispondenti di Virgilio (Aen. 6, 622) l’antico commentatore Servio pensava ad Antonio, noto per la sua passione per il vasellame d’oro e per la sua vicenda politica; ma certo altri personaggi si prestavano a quelle delle guerre civili.
I due frammenti sono anche tecnicamente raffinati: si notino nel primo l’elegante enjambement e il doppio chiasmo (vendidit Latium – agros eripuit; fixit leges atque refixit). Per il secondo Macrobio cita a riscontro Virgilio, Georg. 2,506

ut gemma bibat et Sarrano dormiat ostro,

ma forse pensava anche al seguente 507

condit opes alius defossoque incubat auro.
Il contesto è interessante perché il finale del secondo libro delle Georgiche contrappone i mali della corruzione alla serena moralità della campagna. II confronto col grandissimo amico non danneggia Vario: contro la duplicazione (cara a Virgilio) dei vv. 506-7 (bere in tazze preziose e dormire sulla porpora = ricchezza; nascondere i tesori e doverli sorvegliare = avaritia) sta la pregnante densità di Vario: non dormiat, ma incubet, quindi insieme ricchezza e avaritia.
La densità è un obbiettivo perseguito dai neoteroi, che vogliono riuscire insieme brevi e raffinati: basti ricordare l’elogio di Catullo 95 alla Zmyrna dell’amico Cinna. Di qui la loro contrarietà alle composizioni prolisse, agli annales Volusi (Cat. cit. 7). Orazio, che raccoglie questa eredità neoterica (donde la sua polemica contro Lucilio, sat. 1, 4, 9-10), attribuisce la stessa inclinazione a Vario, quando gli contrappone il seccatore della satira 1, 9, 22, che invece si vanta di saper scrivere molti versi in poco tempo. La poesia raffinata non può riuscire popolare: a Orazio basta che piaccia a pochi, tra cui Vario (sat. 1, 10, 81). Che questi fosse doctus (l’attributo ben adatto a Catullo) informa Porfirione proprio commentando 1, 9, 22: de doctissimis fuit.
In forza di questa poetica il poeta novus lavora con cura la similitudine anche senza rapporto funzionale col contesto. Il quarto frammento riportato da Macrobio, Sat. 6, 2, 20 = 4M., è appunto il paragone della cagna che caccia la cerva per valli ombrose, ardui monti e fiumi correnti, seguendone le tracce e annusando gli odori nell’aria tersa e fine. La descrizione insistita e minuziosa è ambientata nella mitica Creta famosa per la caccia. Il tema gode una fortuna lunghissima nella letteratura posteriore, ma non è detto sia stato inventato da Vario: la ripresa di motivi noti con intenti emulativi attraverso l’eleganza delle variazioni e la cura dei particolari è cara all’agonismo dei neoteroi, che spesso trasformano l’ispirazione mentre conservano i caratteri esteriori. Virgilio, che riprende molto da vicino il motivo in una delle ecloghe (così adatte, specie se amebee, al collage di componimenti brevi e finiti in se stessi) ne fa tutta un’altra cosa, coerente col suo spirito: la cagna da caccia diventa la giovenca, che cerca per boschi e per fiumi il vitello smarrito, anch’essa immemore, nec serae neminit decedere nocti (8, 88). Macrobio ha ben visto l’autonomia del paragone, perché ne ha tralasciato il secondo termine, sia per Virgilio (talis amor teneat…) sia per Vario, invidiandoci però così qualche indizio sulla trama del De morte.
È lecito tuttavia pensare che si trattasse di un epillio, cioè di quel componimento d’ambito ristretto, che rappresenta il genere più tipico della produzione neoterica. Non doveva infatti trattarsi di un’opera vasta, perché nei Saturnali non è citato il libro da cui son tratti i quattro frammenti: e quindi si presume che fosse uno solo. Il punto di vista, che guida la scelta di Macrobio (le imitazioni virgiliane), non consente di individuare il carattere narrativo, che sarebbe proprio dell’epillio (un piccolo epos) nelle forme (però arricchite di descrizioni, paragoni, dialoghi, apostrofi, riflessioni), che vediamo nei pochi esemplari superstiti, come il c.64 di Catullo o la Ciris dell’Appendix. La congettura che trattasse della morte di Cesare non è suffragata da alcuna testimonianza, anche se si può ben credere che la caduta di tanto uomo avesse sollecitato le riflessioni sulla grande giustiziera. Ma i tempi offrivano certo molti motivi di questo genere. Un aggancio con l’attualità è stato notato nei primi due frammenti. Ma probabilmente il tema non è la contingenza, bensì il problema che la contingenza solleva e rende acuto. Non molti anni prima, con sensibilità esasperata dal temperamento, se l’era posto anche Lucrezio, che aveva individuato nel timore della morte l’origine dei mali e delle passioni che travagliano umanità. Questo schema ideologico si presta, bene anche al poemetto variano forse con meno profondità di pensiero e più gusto descrittivo. Il De morte sarebbe insomma un poemetto narrativo di impianto filosofico. II tema consente, anzi esige, l’analisi psicologica: dai timori dell’anima alle passioni alle azioni.

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L’epicureismo non è necessariamente la filosofia ufficiale del circolo neoterico; però dimostra molte consonanze con la teoria e la prassi di quella scuola. Oltre l’analisi delle passioni e il conseguente moralismo, li accomuna l’esaltazione dell’otium e dell’amicitia, ormai forme alternative alla vita politica. L’etica è quella della voluptas, in cui rientra anche la poesia, specialmente nell’interpretazione campana.
Vario è epicureo: così lo definisce Quintiliano 6, 3, 78. Più precisamente il commento di Servio a Buc. 6, 13 lo fa allievo di Sirone insieme con Virgilio (nell’interpretazione allegorica dell’ecloga Sileno sarebbe Sirone, Cromi e Mnasillo Virgilio e Vario). La Vita di Probo informa esplicitamente che Virgilio vixit pluribus annis… liberali in olio secutus Epicuri sectam, insigni concordia et familiaritate usus Quintili, Tuccae et Vari. La notizia è confermata da due papiri di Ercolano, il secondo dei quali (Perì filargurías) reca chiari nel finale i nomi di Vario e Quintilio e consente di integrare con Plozio (Tucca) e Virgilio le altre lettere mancanti. Questo sodalizio neoterico-epicureo non dev’essere stato transitorio: la carovana di Orazio, che segue Mecenate nel viaggio verso Brindisi, viene raggiunta da Vario, Tucca e Virgilio a Sinuessa, che è il punto più vicino ai luoghi virgiliani rispetto all’itinerario seguito dal gruppo proveniente da Roma (sat. 1, 5, 40). Virgilio, com’è noto, dimorò prevalentemente in Campania: Vario dev’essergli stato vicino in quegli anni fecondi, se fu nominato dal poeta coerede con Tucca per un sesto (Vita Don. 37, 140) e legatario dei suoi scritti (ibid. 40, 154), e se era in grado di informare sul modo di lavorare dell’amico (Quint. 10, 3, 8). Lì Virgilio e gli amici continuavano la sodalitas epicurea già esercitata presso Sirone e Filodemo.
Residenza in Campania non significa origine meridionale. Dei quattro nominati nella Vita probiana e nel papiro di Filodemo, Virgilio è mantovano e Quintilio (Varo) cremonese. Di Tucca si sa ben poco, ma un curioso scolio a Persio 2, 42 lo fa padano . A questo punto diventa logico pensare che anche Vario fosse settentrionale (la gens Varia è tardi documentata e forse di origine transalpina); forse anche lui vittima delle espropriazioni (senza naturalmente tutto il leggendario che si concentra attorno al gran nome di Virgilio) o almeno uno spirito inquieto che cerca la pace (di questa situazione ben coerente con i tempi, e probabilmente diffusa, la vicenda dei coloni sradicati vale come emblema). Un indizio dell’origine settentrionale l’avremmo se, come alcuni propongono , si dovesse identificare con lui il Varus di Catullo 10, 1: qui al v.30 compare Cinna, che col Nostro formerà coppia anche in Buc. 9, 35, dove Virgilio, sotto le spoglie del giovane Licida, protesta di non essere ancora arrivato al livello dei maestri, Vario e Cinna: nam neque adhuc Vario videor nec dicere Cinna / digna.
Qui Vario è decisamente accostato a uno degli esponenti della generazione catulliana e settentrionale dei neoteroi. Probabilmente Vario è un po’ più giovane di Cinna: lo fa pensare l’estensione della vicenda esistenziale (sopravvive anche a Virgilio) e l’aspetto topico del verso citato. Anche Teocrito, maestro e modello delle Bucoliche, nelle Talisie 7, 39-41 aveva detto: «…non sono ancora in grado di trionfare sull’eminente Sicelida di Samo (cioè Asclepiade) e su Fileta», e Fileta era un po’ più anziano dell’altro poeta .
Secoli più tardi anche Dante, Purg. 24, 54-57, farà dire a Bonagiunta:
O frate, issa vegg’io, diss’elli, il nodo,
che ‘1 Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal Dolce Stil Novo ch’i’odo,
e, se Iacopo da Lentini sta per la scuola siciliana, Guittone è esponente di quella toscana, che si usava considerare di transizione fra siciliani e stilnovisti.
Anche Vario sembra un poeta di transizione fra la prima e la seconda generazione neoterica: alla coppia Cinna-Vario si sostituirà la coppia Virgilio – Vario, destinata a durare nella tradizione letteraria. Se Virgilio all’altezza delle Bucoliche lo cita come suo modello, vuol dire che Vario era più avanzato di lui nella carriera poetica; ma se ancora nell’Eneide (6,621 – frg.l M., cfr. Macr., 6, 1, 39) viene citato il De morte, vuol dire che questo era considerato il capolavoro dell’amico. Il Tieste può essere addirittura precedente l’epillio: la materia più violenta farebbe proprio pensare al componimento di un giovane, con tutti gli eccessi della scuola.
Se Tieste e De morte precedono le Bucoliche, non sappiamo che cosa Vario abbia scritto nei vent’anni che lo separano dalla morte, forse opere, di cui si è perduta la memoria. O forse si era dedicato interamente alla filosofia, come anche il sodale Virgilio avrebbe voluto fare una volta terminato il capolavoro (Vita Don. 35, 126). O semplicemente Vario tacque, perché, come neoteros vicino alla prima maniera, si sentiva superato. Tacendo, divenne un modello: Macrobio, nella rassegna più volte ricordata, lo cataloga tra i veteres e gli antiquiores, come Catullo e Lucrezio. La sua sorte è simile a quella di Partenio e di Valerio Catone, che da poeti divennero maestri di poeti. Come tale Vario fu riverito dagli augustei, ma non fu augusteo.

Commentari dell’Ateneo di Brescia, 1988.