Il sapiente e gli occupati La riflessione di Seneca sul tema della vecchiaia trova naturale collocazione all’interno dell’indagine sul significato del tempo; questa poi non è a sé stante, ma si colloca, sia pure in posizione originale, nell’ambito della speculazione stoica in materia.
Nell’applicazione senecana, però, il sistema non è coerente, perché non esente da contraddizioni e ripensamenti: ma è la materia stessa a richiederlo, perché non è immaginabile lo stesso tipo di analisi in questo campo a quindici anni di distanza (tanti intercorrono tra il De brevitate vitae e le ultime opere). Dunque non deve stupire il constatare un’evoluzione in Seneca sulla materia, tanto che è forse possibile tracciare una linea evolutiva del pensiero di Seneca in ordine al tema della vecchiaia, attraverso le differenti opere.
La riflessione sul tempo percorre l’intera produzione anche se in misura disomogenea: persino pagine che sembrano, per l’oggetto trattato, portare in tutt’altra direzione, riservano al lettore la possibilità d’incontrare uno spunto su questa materia.
Ma a questo tema in particolare è riservata una trattazione specifica nel già menzionato De brevitate vitae, che la critica letteraria attribuisce, quasi unanimemente ormai, al 49 d.C., vale a dire al periodo immediatamente successivo al ritorno dalla relegatio in Corsica. Per Seneca è troppo presto anagraficamente (ha quarantacinque anni, o poco più di cinquanta secondo l’ipotesi di nascita anticipata al 4 a.C.) per fare un bilancio della sua vita, troppo presto poeticamente e filosoficamente: la produzione è solo agli inizi, le opere maggiori devono ancora venire.
Emerge dal De brevitate vitae la concezione senecana, d’impostazione stoica, del tempo: una concezione che A. Grilli ha definito "etica, quale coefficiente o determinante del fattore felicità dell’uomo". Il lamento tradizionale (era stato anche di Zenone, il fondatore della scuola, oltre che di Ippocrate, maximus medicorum) vitam brevem esse, longam artem (1,2) doveva percorrere quotidianamente le vie e le piazze di Roma; un vero luogo comune, al quale Seneca replica che è colpa nostra se sprechiamo quel tempo che la natura ci ha concesso: non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus (1,3). Non è vero che abbiamo ricevuto in dono una vita breve, è vero invece che siamo stati noi a renderla tale: non accipimus brevem vitam, sed fecimus (1,4), perché ne siamo prodighi, pronti allo spreco e alla dissipazione.
Il monito di Seneca era rivolto appunto agli uomini apparentemente impegnati nei rivoli di mille attività quotidiane, dissipati perché dispersi nella futilità e nella banalità. Sono gli occupati, posseduti dall’avaritia, intorpiditi dal vino o dall’inerzia, dall’ambizione politica, dall’attrazione del denaro. Sono coloro che riducono la vita a tempus, cioè che danno senso compiuto (cita) solo a una piccola parte dell’arco temporale (tempus) loro assegnato: per costoro Seneca può affermare che omne spatium non vita sed tempus est (2,2). Questi uomini (o non piuttosto gli uomini? Cioè tutti coloro che non possono essere annoverati tra i sapienti) vivono senza comprendere che così facendo il numero degli anni a noi assegnato diminuisce: l’anzianità anagrafica inesorabilmente cresce, senza che ad essa tenga dietro una corrispondente percezione di vita significativamente vissuta.
Occorre dunque insegnare all’uomo che cosa sia il tempo, rammentargli non tanto la tripartizione tra passato , presente e futuro, quanto invece che di questi solo il primo appartiene a ciascuno di noi. Il presente che stiamo vivendo è breve, il futuro è incerto, mentre il passato è ben saldo. Mentre gli occupati vivono nel presente e per il presente, il saggio comprende di possedere solo il passato: non è vero che anch’egli non si sforzi di dare un senso e una motivazione al presente, è vero invece che il presente per sua natura è così breve che non possiamo afferrarlo: quod agimus breve est (10,2); tam breve est, ut arripi non possit (10,6). L’antitesi dunque è tra presente e passato, tra coloro che si sentono occupati e chi invece totus suus est; ai primi (dei quali suus nemo est, 2,4) interessa il presente, ai secondi il passato. Ai primi è riservata dunque una vita intessuta di angosce e d’insoddisfazioni (l’elenco percorre passim l’intero De brevitate vitae), mentre i secondi osservano dall’alto, come il sapiens tradizionale, che è stoico ma anche epicureo, se si pensa al suave mari magno di Lucrezio8, le miserie degli uomini, i loro affanni, dai quali sono ora liberati. Conclude il Grilli: … i primi non hanno passato e finiscono col non avere presente, i secondi dal passato riflettono una gioia serena sul presente9. Dicevamo che il saggio pregiudizialmente non rifiuta l’interesse sul presente: minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris (epist. 1,2), ma non può che constatarne la labilità. Anche lo stoico Seneca potrebbe sottoscrivere il carpe diem oraziano: infatti scrive protinus vive (19,4), vivi senza perdere tempo. Marco Aurelio (4,26,5) aggiunge: kerdantéon tò paròn, il presente è da risparmiare, anzi da guadagnare.
Invece gli occupati, che vivono nel solo presente, ma che lo perdono perché vanamente affaccendati nelle molteplici attività che non sono vita, soffrono di una ricaduta negativa del senso della vecchiaia: essa cioè non ha né gusto né valore per chi è vissuto inseguendo il solo attimo presente. Di qui viene l’immagine negativa che connota la tarda età degli occupati: un senso di oppressione li pervade; l’anzianità anagrafica li coglie ancora impreparati e disarmati di fronte alle inevitabili difficoltà; il loro stato d’animo ancora infantile, puerilis scrive Seneca, rivela il trascorrere inutile, senza frutto, del tempo. Costoro non s’erano neppure accorti che la vecchiaia stava arrivando: perciò nulla era stato da loro previsto.
L’ironia a questo punto raggiunge Sestio Turannio, forse quel Gaio Sestio Turranio (qualche difficoltà all’identificazione viene da praenomen e nomen) prefetto dell’annona sotto Tiberio e Claudio. Uomo di precisa, scrupolosa meticolosità nel lavoro, exactae diligentiae senex scrive Seneca (20,4), non sa però rassegnarsi ad andare in pensione all’età di novant’anni. Così accade che quando l’imperatore gli chiede di rinunciare alle sue funzioni, si fa comporre e collocare in un letto funebre, circondato dal pianto dell’intera famiglia. E il lutto non ha termine se non quando Turannio viene restituito agli incarichi precedenti; commenta Seneca: giudicano gravem la vecchiaia per il solo fatto di essere messi da parte; piace dunque in tale misura morire in mezzo alle occupazioni?
Questo egli scrive e commenta nel De brevitate vitae; questo egli non scriverà né penserà più negli anni successivi: l’atteggiamento di Seneca di fronte a questa problematica conosce una forma di evoluzione, pur mantenendo fermi alcuni dei principi fissati già nel De brevitate vitae.
Uno di questi capisaldi concettuali, che appaiono già in questa prima opera, e che rimarranno nelle successive, è la valutazione positiva della serenità d’animo conquistata da saggio, quella serena et secura mens (10,5) che corrisponde filosoficamente all’euthymía di Panezio. Gli uomini provvisti di questa adesione eutimistica alle forma dell’esistenza “saranno in armonia col presente senza recriminazioni, ricorderanno il passato con grato pensiero, si rivolgeranno al futuro con speranza lieta e luminosa senza timore e senza diffidenza”. E’ questa la vecchiaia serena su cui Seneca mira, questa la realizzazione della sapientia. A. Grilli ha mostrato il dissenso di Seneca da Aristippo sul tema della valutazione del presente: se il filosofo cirenaico insiste nell’attenzione al presente da parte degli uomini, come tensione alla felicità, Seneca e molte voci della Stoà lasciano ai soli occupati la brama dall’oggi. Per Panezio, Seneca e Plutarco solo gli stolti, gli anóetoi, possono rifugiarsi nel presente: l’ideale eutimistico di Seneca è dunque opposto a quello edonistico cirenaico; e ciò non è in contrasto col già citato protinus vive, sostanzialmente equivalente al carpe diem oraziano; gli uomini occupati, che vivono nel presente, non lo possiedono. Possederlo, dominarlo, averlo sotto controllo non corrisponde a vivere per esso: si conferma una valenza non edonistica del protinus vive.
Alcuni passi del De brevitate vitae e dei più tardo De tranquillitate animi esplicitano come si manifesta questa concezione eutimistica: innanzitutto nel poter esaminare ogni momento della propria vita senza vergognarsene né pentirsene. “Il sapiens può dominare col pensiero anche le età che non gli appartengono; egli non è in grado di accogliere e di far sua l’eredità del passato, entrando in tal modo in un vivo rappporto con i sapientes. Può arricchirsi del loro pensiero, assumerlo, rigettarlo, discuterlo. E’ una sorta di comunicazione spirituale coi grandi del passato, il cui pensiero ha varcato i limiti della vita umana individuale.
L’ euthymía si manifesta poi come una forma di equilibrio interiore fatto soprattutto di imperturbabilità, di saldezza di convincimenti, di un piacere di tipo catastematico, ma soprattutto ancora della possibilità di riguardare alla propria vita senza rimorsi: questo è il valore apprezzabile nella vecchiaia di chi ha trovato il senso dell’esistenza, di chi non si è perso negli affanni scriteriati, di chi non è vissuto nell’oggi senza riuscire a possederlo.
Queste sono le premesse teoriche poste essenzialmente ne De brevitate vitae: resteranno sino alla fine della vita in Seneca, accanto a oscillazioni di pensiero e valutazioni non univoche sul motivo della vecchiaia, tanto che il valore positivo della scoperta dell’euthymia sembrerà scomparire nella produzione successiva, salvo riemergere poi in alcuni passi significativi delle Epistulae.
Un’immagine tradizionale La concezione tradizionalmente negativa della vecchiaia percorre quasi tutta la produzione di Seneca, fatte salve le considerazioni eutimistiche di cui al paragrafo precedente e gli approdi finali delle lettere a Lucilio. Risulta così agevole rintracciare in svariati passi della sua produzione considerazioni sulla tarda età accomunate da un senso di pesantezza, di scontento, di fastidio per la vita. A parte le eccezioni rappresentate dal De brevitate vitae e dalle Epistulae, non esiste aspetto dell’opera senecana che si sottragga a questo denominatore comune, che più spesso però appare come un luogo comune: sono formule stereotipe che vengono ripetute, frequentemente in modo o circostanze banali.
Il termine senectus compare, variamente declinato, sessantanove volte nella produzione di Seneca; accanto a questo il più aulico senecta trova impiego solo due volte: nell’Hercules filtrens la senecta è tarda, nelle Troades è longa nel trascinare la vita.
Sono soprattutto le occorrenze di senectus e di senex (anch’esso variamente declinato, per un totale di settantuno forme singolari, più di un centinaio aggiungendo quelle plurali) a darci il quadro della situazione e quindi della riflessione di Seneca sulla materia.
La produzione teatrale esprime, più di quella strettamente filosofica, i luoghi comuni sulla vecchiaia. La figura della nutrice delle Troades è caratterizzata, ma solo perché tradizionale, dalla senectus. Se nell’Octavia la vecchiaia è tarda, nell’Hercules furens è cana, nell’Oedipus diviene gravis, accompagnata dalla malattia, dal lutto e dal dolore.
Invece nelle Troades è piena di vita, vivax, ma solo perché non si rassegna al presente e piange la rovina di Troia; infatti nel De tranquillitate animi (cap. 2) la senectus torna tradizionalmente a essere restia alle novità, ad nouandum pigra.
Triste è nel medesimo dialogo l’immagine conclusiva del cap. 3, ove compare il vecchio che fa un amaro bilancio della sua vita inutilmente spesa: non ha altro argomento per dimostrare di essere vissuto che l’età.
Anche i libri Naturalium quaestionum, scritti nel 62 o subito dopo, non innovano rispetto all’immagine negativa della vecchiaia. Seneca stesso si sente vecchio e a 6,10 scrive che la vecchiaia è un male da cui guardarsi; in questa situazione tutto, insieme all’età, è avviato al languore, cum senectute languescit (6,18).
Gli anni migliori La data indicata per i sette libri delle Naturalium quaestionum ci ha portato quasi al termine della produzione di Seneca: restano solo le Epistulae (dopo il 62, quindi 63 64). La riflessione ora si fa più articolata, non certo per un’evoluzione di pensiero legata all’avanzamento anagrafico. Penso piuttosto alla natura stessa dell’epistolario, che consente un tipo di analisi più articolato e approfondito, rispetto agli stereotipi che possono comparire in alcuni dialoghi e in molte tragedie.
La valutazione della vecchiaia che ne emerge non è univoca, risentendo del dualismo già presente del De brevitate vitae; ma soprattutto riflette la natura composita delle Epistulae, la divaricazione tra le lettere d’impostazione teoretica e quelle di natura episodico concreta.
La biforcazione dell’epistolario si riflette insomma nella duplice valutazione della vecchiaia, ma ciò che ora conta veramente è la ricomparsa dell’immagine positiva, che era stata sostanzialmente obliata dopo le enunciazioni teoriche del De brevitate vitae.
E’ certamente vero allora che ricompaiono la triste vecchiaia, la tristis senectus di Virgilio, Aen. 6,274 275, che fa compagnia ai pianti, ai rimorsi di coscienza, ai pallidi morbi; e con questa allegra brigata bisogna passare la vita (107,3). E’ vero anche che in due lettere (67 e 83) scrive che la vecchiaia lo costringe a letto e, nella 26, afferma di sentirsi non stanco, ma addirittura decrepito: inter decrepitos me numera et extrema tangentis. Queste considerazioni tradizionali, a volte ovvie, sono però affiancate da quelle di segno diverso, di un Seneca che associa sì costantemente queste sue riflessioni sulla vecchiaia al pensiero della morte, ma che ha raggiunto di fronte all’una e all’altra un atteggiamento di serenità. E’ la scoperta che il sommo bene, cioè la virtus stoicamente intesa, è presente e possibile in tutte le età (74,26).
Se nell’epist. 26 si lamenta di sentirsi decrepito, subito aggiunge la distinzione tra il declino del fisico e la saldezza dell’animo: "Tuttavia non ti nascondo di essere grato a me stesso: sento che la lunga età mi ha arrecato danno al corpo, ma non nell’animo. Soltanto invecchiarono i vizi ed i loro addetti: l’animo è valido e si compiace di avere scarse relazioni col corpo; esso ha deposto gran parte del suo peso. E’ pieno di gioia e discute con me della vecchiezza affermando che quest’età costituisce per lui il fiore della vita. Prestiamogli fede: goda pure del suo bene.”
In questa linea, la rivalutazione della vecchiaia raggiunge anche l’ambito fisico: nell’epist. 15,5, raccomandando alcuni esercizi atletici facili e brevi, utili al corpo e non dannosi allo spirito, scrive che neanche l’età avanzata li impedirà.
Ma è soprattutto nelle avversità della vita che si rivela quella saldezza d’animo che solo la vecchiaia possiede. Così avvenne che nell’epist. 104,1 ss. Seneca, ormai vecchio, sarebbe in grado di resistere agli inconvenienti derivanti da una febbriciattola, ma rinuncia alla capacità di sopportazione che l’età gli ha conferito, per una forma di riguardo nei confronti della giovane moglie Paolina, di lui più giovane di una ventina d’anni. Sapendo che la vita di lei dipende da lui, Seneca decide di cambiare aria e di attenersi alle prescrizioni mediche. Ecco perché può esclamare nell’Epist. 70,2, di vivere gli optimos annos senectutis: è la fine della fuga del tempo, la conquista di un approdo sicuro. Scrive a Lucilio:
"Abbiamo compiuto, o Lucilio, la traversata per mare della nostra vita, e come in mare, come scrive il nostro Virgilio,
le terre e le città si allontanano
così, in questo corso rapidissimo del tempo, prima abbiamo perso di vista l’infanzia, poi l’adolescenza, poi l’età che è intermedia tra la giovinezza e la vecchiaia, posta al confine di entrambe, infine gli ottimi anni della vecchiaia stessa… La vita conduce alcuni molto velocemente alla meta, cui bisognerebbe arrivare indugiando, altri li consuma e logora a poco a poco… Però ciò che è bene non è il vivere, ma il vivere bene.”
Vivere bene dunque: vivere dando un senso attivo all’esistenza, ma non vanamente protesi alla ricerca di ciò che non ci appartiene; vivere avendo come meta quella vecchiaia che non è uno scoglio, ma il porto a cui tendere.
In questo senso, in questa prospettiva, che dà un senso e un valore all’età, possiamo rivedere anche la famosa Epist. 12, che proprio di questo problema si occupa, muovendo da constatazioni tristi sulla fuga temporale e sulla conseguente labilità della vita umana. Seneca parte dalle consuete considerazioni negative sulla fatiscenza della villa in cui si trova, delle piante che l’adornano, infine della sua personale età avanzata. Ma la constatazione si tramuta presto (12,4 ss.) in una forma di gratitudine: la villa gli ha consentito una riflessione sulla sua vita, ora giunta in uno stadio avanzato e perciò, proprio in quanto tale, da apprezzare. Essa è infatti la parte più dolce dell’esistenza, il sapore più forte del frutto, il momento della vittoria sulle passioni.
Accanto ad essa, nella valutazione serena e positiva della vecchiaia, può essere collocata l’Epist. 93, nella quale il filosofo scrive chiaramente che ciò che gli interessa è la qualità della vita, non il numero degli anni. Il numero degli anni infatti dipende dalle circostanze esteriori, il che in una prospettiva stoica le esclude dall’attenzione del soggetto.
Il quale invece avrà riguardo delle forme dell’esistenza, che raggiungerà nella vecchiaia la qualità della saggezza. Scrive Seneca nel paragrafo 8 di questa lettera:
"Vuoi sapere quale sia la vita che dura più a lungo? La vita che dura fino all’acquisto della saggezza. Chi l’ha raggiunta non ha toccato la meta più lontana, ma la più importante22. E costui si vanti pure con orgoglio e ringrazi gli dèi ed attribuisce a sé stesso ed alla natura il merito di essersi elevato all’altezza di un dio. Infatti a ragione si attribuirà tale merito: ha restituito alla natura una vita migliore di quella che aveva ricevuto ".
“Commentari dell’Ateneo di Brescia”, 1992 (il testo completo di note è disponibile in formato .pdf)