Anche Seneca era, come noi in questi giorni, turbato dalle notizie del terremoto: nel suo caso si trattava del sisma che il 5 febbraio del 62 d.C. aveva distrutto quasi completamente la città di Pompei. Prima della notissima rovina del 79 d.C., dovuta all’eruzione del Vesuvio, Pompei era già stata duramente colpita da questo terremoto, di cui Seneca ci parla nelle Naturales Quaestiones, cioè nelle Ricerche naturali: la città sepolta dall’eruzione del vulcano era perciò una città in ricostruzione, in parte ultimata, in parte ancora in corso. Seneca si era occupato di terremoti già in un’operetta giovanile, che non ci è pervenuta: il suo interesse in questo campo non ci deve stupire, perché la riflessione naturalistica, botanica, zoologica, astronomica era considerata pertinente all’ambito filosofico. La fisica infatti, cioè (etimologicamente) lo studio della natura, era una delle tre parti canoniche in cui si articolava la filosofia antica. Nei sette libri dedicati dal filosofo spagnolo alle Ricerche naturali, il sesto è interamente riservato ai terremoti: scritto a partire dall’anno 62, esso si apre proprio con la notizia della recentissima rovina di Pompei. La trattazione è divisa in due parti: l’attualità innanzitutto, cioè gli avvenimenti campani, poi la ricerca delle cause del fenomeno, e infine la ricaduta sugli uomini, quelli coinvolti nella catastrofe, ma anche quelli che non lo erano stati. Dopo le notizie sulle vittime umane e sugli edifici colpiti, non solo a Pompei ma anche a Ercolano, a Nocera e a Napoli, Seneca promette di cercare parole di conforto per gli uomini atterriti: la meditazione viene avviata, col tentativo di immedesimarsi negli uomini smarriti per la paura, che assistono allo scricchiolio degli edifici, che provano le fughe a precipizio, che osservano lo sfacelo generale. Ma presto il desiderio del filosofo di indagare razionalmente il fenomeno prende il sopravvento e la consolazione è rinviata al finale del libro. La seconda parte, cioè la rassegna delle teorie sulle cause del terremoto, è la parte più debole, più datata dell’opera: qui misuriamo i limiti delle conoscenze antiche sul fenomeno e la bizzarria delle ipotesi collegate. Seneca cita filosofi svariati, per lo più greci, che si sono azzardati a individuare le origini del sisma, ora nell’acqua, ora nella terra o nell’aria o nel fuoco: cioè in tutti i quattro elementi primi, costituenti, secondo le teorie antiche, l’universo. Poco ci importa sapere se Talete incolpava l’acqua, Anassagora il fuoco, Anassimene invece la terra, mentre Aristotele, Teofrasto e molti altri (tra i quali si colloca Seneca stesso) pensavano all’aria. È il movimento proprio dell’aria a infilarsi tra le abitazioni e a farle crollare, pensano costoro, ma vengono smentiti da altri come Democrito, che ipotizzano il concorso di tutti i quattro elementi. La terza parte del libro, ovvero la ricerca di una spiegazione valida per l’uomo, è di natura più filosofica nel senso moderno del termine. Seneca la propone come forma di consolazione per tutti, anche se alla mentalità contemporanea essa risulta poco efficace. La sua spiegazione è di natura stoica, e parte dalla constatazione della debolezza umana, a cui basta anche un banale incidente, come un soffocamento durante un pasto o una febbre persistente a far sopraggiungere la morte. Se volete essere liberi dai timori, dice Seneca ai contemporanei, pensate che tutto è da temere: i nostri corpi sono deboli, fragili, caduchi, annientabili senza un grande sforzo da parte della natura. La spiegazione di Seneca non è di natura fisica, perché non ha gli strumenti per darla, né in chiave provvidenziale, almeno nel senso di una prospettiva ultraterrena: è invece un’occasione per ribadire la sua visione filosofica della vita, che comprende la necessità del dolore e della morte. Egli ha promesso di scrivere parole di conforto per gli uomini spaventati e lo fa in questa prospettiva: la coerenza del suo pensiero è assicurata ed esce, anzi, ribadita dal messaggio che lancia. Ma gli uomini comuni, impossibilitati a conoscere, o incapaci di accettare la spiegazione stoica della catastrofe, quale udienza avranno accordato alle sue nobili ragioni?
Giornale di Brescia, 9.12.2004.