Una delle sezioni più note della letteratura latina è costituita dal libro centrale, il sesto, dell’ Eneide, là dove Virgilio narra la discesa di Enea nell’ Ade.
La bibliografia che si è accumulata sull’ argomento è certamente grandiosa, e scritta praticamente in tutte le lingue del mondo. E’ perciò quasi impossibile riuscire a dire qualcosa di nuovo sull’ argomento; forse però si riesce a rileggere con spirito diverso qualche passaggio anche notissimo del canto, che viene oggi illuminato in modo diverso a noi lettori dalle vicende che quotidianamente viviamo.
La sezioni più significativa del sesto libro è senz’ altro costituita dalla rassegna di anime che Anchise sottopone alla osservazione e meditazione del figlio. Enea può così cogliere quali saranno le vicende future di Roma, attraverso le parole di Anchise che gli anticipa la reincarnazione delle anime: esse sono destinate a vitalizzare le vicende dei regni albani prima, poi della monarchia romana, infine della repubblica e del primo dominio di Augusto.
Questa rassegna ha un’ evidente funzione celebrativa, sia di Roma in generale sia della casa Iulia in particolare; è la gens Iulia che, discesa da Iulo Ascanio figlio di Enea, ora regge le sorti dello Stato, attraverso Cesare prima e Ottaviano poi. Insieme alla funzione encomiastica c’ è qui un aspetto propagandistico delle conquiste di Roma nel corso dei secoli; ma inevitabilmente la gloria della città è sostanziata di guerre, di sangue, di lutti.
L’ animo di Virgilio rifugge però dall’ esaltazione militare di queste vicende; neppure in un poema epico, com’ è a tutti gli effetti il suo, trovano posto alcuni ingredienti tradizionali della narrazione costruita sul modello omerico. Si è detto infatti, e giustamente, che in Virgilio prevale una sensibilità elegiaca, che lo porta più volentieri a riflettere sui temi del mistero, del dolore, del destino spesso ingiusto, del male. E tra questi mali universali non c’è dubbio che al centro dei suoi pensieri si trovi la guerra.
Ecco allora che, anche all’ interno del poema epico, della rassegna encomiastica, della esaltazione della storia di Roma, Virgilio trova occasione per fare spazio anche a brevi ma significative parentesi di esaltazione della pace, della concordia, e addirittura del perdono per i nemici. La storia di Roma si sostanzia, dunque, anche di questi sentimenti, di questi stati d’animo: così, almeno, li sottolinea il poeta.
Due sono gli esempi che si possono fare a questo proposito. Il primo riguarda la breve sezione di versi (826-835) che all’ interno della storia repubblicana, è dedicata alle figura contrapposte di Cesare e di Pompeo. Nell’ Ade esse sono ancora concordi, come saranno in vita finché durerà il loro rapporto di suocero (Cesare) e genero, per via del matrimonio di Pompeo con Giulia, figlia del dittatore. Ma che terribili guerre si scateneranno poi tra loro, lamenta Virgilio, quali schiere e stragi susciteranno! La guerra civile, la più terribile tra le guerre, lacererà tragicamente gli uomini e la società; perciò ecco l’invito: "O figli, non abituate l’ animo a tali guerre!". Ma occorre che qualcuno faccia il primo passo in direzione dell’ altro, perché altrimenti la catena di sangue e di vendette non troverà mai fine. Da qui viene l’ invito di Anchise a Cesare, cioè al proprio discendente: "Tu per primo perdona, getta di mano le armi".
Non sono frequenti nella letteratura e nella storia di Roma esortazioni come questa al perdono; perciò vale la pena di sottolinearla nella sua importanza e rarità.
Pochi versi dopo ritroviamo il secondo passo significativo. E’ quando Anchise distingue tra le abilità degli altri popoli, indirizzati come i Greci alle arti plastiche e pittoriche, ovvero all’ astronomia o alla geometria, da quelle dei Romani, destinati a reggere col loro dominio i popoli. Potremmo aggiungere, a reggere a mano armata: e vi leggiamo la giustificazione della politica romana di potenza. Ma non solo così deve essere: perché Roma deve svolgere la funzione di una guida politica che detti le norme per la pace, che significano in altre parole debellare i superbi e i prepotenti, e insieme risparmiare i sottomessi, quelli che invocano la pace romana. In altre parole, una pace basata sulla giustizia, in cui si lotti contro le diverse forme di sopraffazione, e all’ interno della quale si ritrovi anche la dimensione del perdono.
Giornale di Brescia, 17.10.2002