«Siano sacrosante le leggi delle divinità dei defunti», è il senso della celebre affermazione Deorum Manium iura sancta sunt che era compresa tra le leggi romane delle XII tavole, e che il Foscolo ha premesso come epigrafe al suo carme Dei Sepolcri. Da sempre l’umanità ha esercitato il culto verso i defunti, in forme e valenze diverse; già i poemi omerici attestano gli usi primitivi dei Greci in questo campo, che sembra però conoscere più il rito verso il defunto appena scomparso, che non il ricordo negli anni seguenti. L’antica Roma ci offre maggiori testimonianze della memoria dei propri morti, come risulta anche dalle leggi sopra citate. Per saperne di più in ambito romano, una delle fonti più autorevoli da utilizzare è costituita dai Fasti di Ovidio. È un’opera erudita in sei libri di distici elegiaci, nei quali il poeta descrive le feste del calendario romano; sappiamo che Ovidio aveva iniziato a comporli nei primissimi anni dopo Cristo, poi deve aver rimesso mano al testo negli ultimi anni del sua vita, cioè tra il 14 e il 17 d.C. È vero che tutti i lettori provano un’impressione di freddezza marmorea nel leggere questi pur eleganti e levigati versi; ma anche se la poesia non ci attesta la fede e la devozione del poeta, ci documenta però bene i sentimenti dei contemporanei, cioè dei romani dell’Urbe e dell’Abruzzo di Ovidio, dei quali la narrazione è intessuta. Ovidio aveva previsto di scrivere nei Fasti un libro per ciascun mese, ma la trattazione si è fermata ai primi sei; partendo da gennaio, nel secondo libro il racconto raggiunge il mese di febbraio, che per i Romani antichi era il mese dedicato al ricordo dei defunti. Erano ben nove i giorni riservati a tale culto: andavano dal 13 al 21 di febbraio e consistevano in un ciclo organico che iniziava con i Parentalia del giorno 13 e si concludevano con i Feralia del 21. I Parentalia erano dunque i giorni di feste annuali in onore dei defunti: devono il loro nome al fatto di essere indirizzati, innanzitutto, verso i genitori, che a Roma erano i parentes. Da cerimonia originariamente riservata alla memoria dei genitori, essa si allargò poi a comprendere tutti i defunti, anche al di fuori della famiglia: veniva così esteso il concetto di genitorialità dall’ambito della famiglia a quello più largo e generale dell’intera società. In un certo senso, tutti i predecessori, anche se non parenti, venivano considerati antenati dei viventi. Invece i Feralia si svolgevano al termine del ciclo di suffragio, come abbiamo visto. Per questo vocabolo i latini avevano escogitato una facile etimologia: i Feralia si chiamavano così, attesta Ovidio, perché durante quei giorni i vivi portavano (in latino il verbo è fero) le offerte ai defunti. In italiano è rimasto l’aggettivo derivato, che è ferale, a indicare ciò che è collegato alla morte. I riti avevano uno scopo ben preciso: rendere buoni gli spiriti dei defunti nei confronti dei vivi. Si guardava infatti con paura all’aldilà e a chi vi abitava, e si trattava allora di accattivarsene il favore: perciò ecco spiegato il nome delle divinità dei morti, cioè i Mani, ricordati anche nelle XII tavole. Infatti lo storico Varrone diceva che anticamente l’aggettivo manus, da cui si origina il nome delle divinità, significava "buono": perciò gli dei Mani erano gli dei buoni, che aiutavano i vivi dall’aldilà. «Si accontentano di poco i Mani», scrive Ovidio nei Fasti: «apprezzano di più la devozione che non i ricchi regali; non c’è avidità tra gli dei che affollano le rive dei fiumi infernali. Basta una tegola della casa, che sia coperta da una ghirlanda, qualche chicco di grano, una manciata di sale, del pane inzuppato nel vino, qualche violetta». L’offerta votiva può essere lasciata anche dentro una ciotola, in mezzo alla via; l’importante è aggiungere, precisa il poeta di Sulmona, preghiere e parole adatte. Accompagneranno i giorni dedicati ai defunti alcune prescrizioni rituali, come il divieto di contrarre matrimoni o l’obbligo di tenere chiusi i templi, con gli altari privi di incenso e i bracieri spenti. Il modello di devozione verso i defunti viene offerto dal poema di Virgilio, che ci mostra la pietas di Enea rivolta anche verso i morti; e anche per Ovidio Enea è indicato come esemplare in questo campo. Ma la poesia latina ci ha offerto per il culto dei defunti, oltre alle figure del mito come Enea, anche una bella testimonianza storica. È quella, molto famosa, rappresentata dal poeta Catullo, che si reca fino nella lontana Troade a piangere sulla tomba del fratello. In un epigramma del suo canzoniere, il poeta di Verona ci documenta il rito dell’offerta votiva sul tumulo del defunto, e il colloquio che egli intesse col fratello. Catullo gli si rivolge direttamente, raccontandogli il lungo viaggio per arrivare fino a lui, e accompagna la deposizione delle offerte con lacrime copiose. Sono parole di affetto, sono ricordi dolorosi che riaffiorano, ma che trovano conforto nel dialogo e nel rito.
Giornale di Brescia, 1.11.2005.