È stato scritto giustamente che la distruzione di Pompei del 79 d.C. è evento marchiato a fuoco nel nostro immaginario; è un’affermazione che si impone nella sua evidenza, vista la notorietà generale delle circostanze. A ciò hanno contribuito gli scavi di Ercolano e Pompei, visitati da più di due secoli da milioni di turisti, nonché la serie di documentari (uno è andato in onda l’altra sera in televisione) che ne ricostruiscono le vicende. Ma su che cosa si basano le nostre informazioni storico-letterarie sull’evento? Fondamentalmente su due lettere scritte da Plinio il Giovane all’amico Tacito, forse pochissimi anni dopo la tragedia. In esse Plinio informa dettagliatamente lo storico (e così anche noi apprendiamo) della morte dello zio, detto il Vecchio, nel corso della celebre eruzione del Vesuvio dell’anno 79 d.C. Plinio il Vecchio era all’epoca comandante della flotta imperiale ancorata al capo Miseno, a poca distanza dal luogo dell’eruzione. «Il 24 agosto – scrive il nipote – mia madre lo informò verso l’una del pomeriggio che spuntava una nube fuori dall’ordinario sia per grandezza sia per aspetto. Si elevava certo una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna (si seppe poi che era il Vesuvio): nessun’altra pianta meglio del pino ne avrebbe potuto riprodurre la figura e la forma». E così ebbe inizio la celebre catastrofe, nella quale lo stesso Plinio il Vecchio avrebbe trovato la morte. I vulcanologi che hanno studiato le testimonianze letterarie, combinandole con i reperti materiali della zona, hanno ricostruito due fasi dell’eruzione. La prima è detta Pliniana ed è la più lunga, perché dura dalla tarda mattinata del 24 agosto fino alla notte, ma è la meno devastante. Induce molti abitanti della zona a fuggire, e ciò spiega il numero relativamente basso delle vittime. Una seconda fase, detta Peleana dal nome della località della Martinica, teatro di un’eruzione nel 1904, è più breve, ma non lascia scampo ai sopravvissuti nei centri abitati, compresi quelli che a Ercolano cercavano di imbarcarsi per fuggire. Ha studiato recentemente questa nuova letteratura sull’eruzione Pier Vincenzo Cova, ricavandone un saggio intitolato “Problemi e orientamenti della critica recente sulle lettere vesuviane di Plinio”. In questo ambito rientra anche l’indagine relativa alle cause della morte di Plinio il Vecchio, spesso immaginata, un po’ romanticamente, come quella dello scienziato desideroso di studiare da vicino il fenomeno, e quindi esposto alla violenza degli elementi. In realtà Plinio si era prodigato per portare soccorso alle popolazioni colpite, prendendo personalmente il comando di alcune navi che si diressero verso la zona colpita, per permettere lo sfollamento. Ma poco dopo i progetti umanitari vennero abbandonati: la cenere, che mista a pomice continuava a cadere, ammorbava l’aria anche di chi era relativamente lontano dal Vesuvio. Il respiro di Plinio si fece progressivamente pesante e, sdraiato per terra, chiese ripetutamente da bere, poi cercò di allontanarsi verso la spiaggia, sorretto da due schiavi. Ma improvvisamente stramazzò, mentre la cenere gli impediva la respirazione e otturava la gola, sempre un po’ malandata. «Broncostruzione in malato cronico» dichiarano oggi i medici che studiano le lettere del nipote, mentre in passato altri propendevano per un ictus o per un infarto. In ogni caso si trattò di una morte naturale in circostanze eccezionali, una morte che Plinio il Giovane tende a trasfigurare dal punto di vista retorico, ingigantendone i meriti e gli atteggiamenti. Un particolare sembra confermare il carattere celebrativo delle lettere del nipote: lo storico Cassio Dione, parlando dell’eruzione, non fa neppure un cenno a Plinio Il Vecchio. È fuori di dubbio, tuttavia, che restano di rilievo storico gli eventi collegati all’eruzione, all’origine di quella morte: eventi impensabili da parte dei contemporanei, che sapevano che Pompei era già stata colpita da un terremoto pochi anni prima (febbraio del 62 d.C.), e che mai avrebbero immaginato il ripetersi di una sciagura di tali proporzioni. Lo «sterminator Vesevo» come avrebbe scritto il Leopardi ne La ginestra, riportò la morte su località che stavano risorgendo a nuova vita dopo la distruzione precedente: ma è questa seconda tragedia ad aver avuto risonanza maggiore, per via della ricchezza delle testimonianze.
Giornale di Brescia, 31.12.2004.