Nel settembre del 1951 Thomas Stearns Eliot registrava una conversazione radiofonica alla B.B.C. di Londra sul tema Virgilio e la Cristianità. Il testo della comunicazione, subito pubblicato su una rivista letteraria, fa ora parte del corpus delle opere del grande scrittore americano: è una lezione significativa su Virgilio, riproponibile anche oggi. A più di cinquant’anni di distanza, vi ritroviamo non pochi spunti condivisibili e, per certi versi, più illuminanti di molti libri scritti sulla stessa materia: forse perché le osservazioni di Eliot non sono riservate agli addetti ai lavori ma sono di ampio orizzonte, tese soprattutto a cogliere l’eredità universale del messaggio del poeta mantovano. Eliot si chiede perché Virgilio risulti particolarmente congeniale alla visione cristiana della vita, pur essendo ovviamente estraneo al messaggio evangelico e privo di quelle doti profetiche che molti medievali gli attribuivano. Una prima risposta coinvolge il modo virgiliano di rappresentare la società e l’impero di Roma: pur desideroso di una concretezza narrativa, applicata al mondo romano contemporaneo, il poeta dell’Eneide seppe trascendere quella realtà e rappresentarla migliore di quanto non fosse davvero: migliore nei comportamenti individuali e sociali, migliore soprattutto nell’organizzazione statuale e nelle relazioni con gli altri popoli. Ma questo processo di ottimizzazione non fu una banale operazione di lifting applicata con intento adulatorio alla società romana e a chi ne reggeva le sorti. Eliot mostra come Virgilio nelle Georgiche avvertisse verso il mondo dei campi, ad esempio, uno spirito del tutto originale, che ne affermava il valore intrinseco e la dignità del lavoro che proprio nei campi si svolgeva e si compie. Questo spirito virgiliano era qualcosa di più, insomma, del tradizionale interesse romano per l’agricoltura, di marca prettamente utilitaristica: ed essendo qualcosa di più profondo, è comprensibile il favore che quello spirito incontrò subito nelle comunità monastiche cristiane, che univano nell’ascesi quotidiana la vita contemplativa e il lavoro manuale. Anche la pietas di Enea doveva prestarsi egregiamente a una valorizzazione in ambito cristiano. Essa si sostanziava di disponibilità e attenzione verso il prossimo, non solo nell’ambito familiare, ma anche sociale e politico, e veniva a costituire il nerbo di quell’impero di Roma che agli occhi di Virgilio sussisteva non per imposizione dall’alto, ma perché somma delle virtù dei singoli individui: si trattava insomma, secondo Eliot, di una fondazione dell’universale attraverso il particolare. Naturalmente quelle virtù individuali sarebbero state condivise e apprezzate in ambito cristiano, anche perché erano incarnate in un eroe come Enea, che si presentava come un novello Giobbe, capace di sopportare in silenzio e di agire per obbedienza. La sua stessa missione, e qui sta un’altra risposta di Eliot all’interrogativo iniziale, consisteva nell’accettare un destino, dal quale sarebbe dipeso l’avvenire dell’Occidente. E se Enea può dirsi proprio in questo senso uomo del destino, Eliot ci ricorda che fu da quell’impero romano, originato dalle scelte di Enea, che derivarono prima il Sacro romano impero e poi l’Europa medievale e moderna. Dunque Virgilio fu, agli occhi di Eliot, un’anima naturaliter christiana, ma con una fondamentale distinzione: gli mancò il lume, ovvero l’illuminazione della fede. Tra tante parole-chiave dell’opera virgiliana, come labor, pietas, fatum (aggiungerei anche libertas e funus, ovvero la libertà concessa da Ottaviano e il pensiero alla morte), manca il lumen a guidare i passi del poeta. Troviamo anche l’amore nella sua poesia, ma è un amore che si rivela passione rovinosa che porta alla disperazione e alla morte. Manca la luce della Verità e manca il Dio che è amore, per cui a Virgilio è negata quella visione che permette a Dante di cantare, nel XXXIII del Paradiso: «Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna».
Giornale di Brescia, 24.2.2004