Se si invita a potenziare l’insegnamento della grammatica nelle scuole, si suscita qualche perplessità, come per un antistorico ritorno al passato. La polemica contro la grammatica dura almeno da un secolo, e si svolge non solo sul piano didattico, ma anche su quello critico e filosofico, come contraria alla libertà della fantasia e quindi della poesia, inutile mortificazione dell’intelligenza creativa. Eppure la grammatica bene intesa costituisce una disciplina scientifica, perché organizza a sistema quel fenomeno essenziale che è la lingua. È vero che questa è in continuo divenire, ma secondo linee ben riconoscibili; il dinamismo riguarda soprattutto il lessico (e non solo in modo caotico), mentre alla grammatica interessa anche la relazione tra le parole, che è più stabile, anche se ripropone sempre il problema del rapporto fra le strutture formali e le strutture logiche, cioè del pensiero. La grammatica dunque, occupandosi della parola strutturata, è un modo di approfondimento delle risorse della lingua, quindi apre ai suoi usi molteplici e alla vitalità della comunicazione. Di conseguenza nessuna incompatibilità neanche con la poesia.
Valga allo scopo un esempio storico, vicino a noi geograficamente, anche se lontano nel tempo. Uno degli episodi più notevoli della letteratura latina, che estende le sue conseguenze (benefiche e dannose) alla politica e al costume, è stata certamente la cosiddetta rivoluzione neoterica, che trova il suo maggior rappresentante in Catullo, ma prolunga i suoi effetti anche nelle generazioni successive. Alla seconda di queste appartiene Virgilio, settentrionale anche lui, come molti rappresentanti più o meno ortodossi di quel gruppo, come il forse bresciano Cinna o il cremonese Bibaculo. Ma il neoterismo non sboccia nel deserto, perché trova il terreno culturale preparato proprio dai grammatici (la cui competenza si estendeva dalla critica letteraria alla retorica, quest’ultima necessaria alla vita politica). Il tratto d’unione è rappresentato da Valerio Catone, il quale, secondo una felice definizione di Svetonio, è «il solo che sa interpretare e foggiare i poeti». A lui i poeti nuovi guarderanno come a un maestro, forse anche di vita, poiché questo grammatico morì povero, il che significa che non era conformista neanche rispetto ai suoi colleghi di professione, alcuni dei quali sapevano farsi pagare.
Dei grammatici della generazione precedente si sa poco. Venivano nella Gallia Cisalpina, perché attratti dalle possibilità offerte da città fiorenti, invitati e favoriti dai maggiorenti locali, che erano molto interessati a promuovere lo sviluppo, non solo economico, ma anche culturale. Svetonio attesta esplicitamente che «anche nelle province era penetrata la cultura letteraria, e taluni dei più famosi maestri insegnarono fuori Roma, specialmente nella Gallia Togata: tra questi Ottavio Teucro, Sescennio Iacco e Oppio Carete, il quale ultimo tenne l’insegnamento fino alla più tarda età» (trad. F. Della Corte). L’assimilazione a Roma è evidente persino nel nome, perché nella Gallia Togata (ossia Cisalpina) si era adottato l’abito nazionale dei romani, contro le brache dell’altra Gallia. Valerio Catone era oriundo della Gallia, poi trasferitosi a Roma con così poco successo. Quindi ai suoi tempi era già iniziata la felice osmosi tra provincia e capitale, che costituirà uno dei punti di forza dello stato anche in presenza di governanti inadeguati. La possibilità di entrare nel circuito politico e culturale del centro spiega l’interesse per le scuole, dove la grammatica teneva gran posto, specie prima che si distinguesse disciplinarmente dalla retorica. Il mantovano Virgilio (destinato, per fortuna sua e nostra, alla carriera oratoria senza successo) frequenta la scuola di grammatica a Cremona e di retorica a Milano, prima di essere mandato a Roma a «specializzarsi».
Grammatici e retori erano spesso liberi professionisti, ma del modo, con cui si fondavano anche scuole pubbliche, fornisce un esempio tardo Plinio il Giovane: un gruppo di genitori si associa per il finanziamento, con l’integrazione economica di uno sponsor, che nel caso specifico è in relazione col mondo intellettuale, nel quale cercare gli insegnanti. Sulla vivacità culturale della zona nel periodo precedente apre uno spiraglio anche Cicerone, il quale a Bruto, che va governatore in Gallia, assicura che là troverà l’ambiente adatto a coltivare i suoi studi. Le scuole migliori erano frequentate anche da adulti in qualità di uditori.
È da notare che la competenza professionale conferiva un senso di sicurezza ai grammatici e ai retori in genere, e questa consentiva loro manifestazioni di libertà anche sotto regimi assolutistici, quindi anche nel periodo imperiale. Emblematico è il caso di M. Pomponio Marcello, che aveva criticato una parola usata da Tiberio: ribattendo al solito cortigiano, che sosteneva il diritto dell’imperatore di far entrare parole nuove nel vocabolario latino, Pomponio osò dire direttamente al principe: «Tu, o Cesare, puoi dare agli uomini la cittadinanza romana, ma non imporre loro le parole». Questa non era certo la condizione, nella quale venivano a trovarsi i grammatici delle generazioni repubblicane, specie nella Gallia Cisalpina. Questi invece potevano essere oggetto di riserve nazionalistiche e insieme di grande considerazione, perché portavano in provincia echi e forme della cultura più avanzata del momento, genericamente definibile greca. Anche per i neoteroi la cultura greca fu il reagente della loro novità. Qualche cosa di simile, cambiati gli attori in gioco, toccherà tanti secoli più tardi a Giacomo Leopardi, che attraverso la filologia di stampo tedesco, allora all’avanguardia, superò d’un balzo l’invecchiata antiquaria italiana del suo tempo. E anche la sua filologia, fortemente intrisa di linguistica e di grammatica, non fu d’ostacolo allo sbocciare della poesia.
Giornale di Brescia 28.9.2003.