Nel marzo 2002, nella collana «I millenni» di Einaudi, è apparsa, a cinquant’anni di distanza dalla prima, la nuova edizione delle “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”. È la sedicesima. Quel libro si rivolge ormai non alle persone che avevano vissuto i fatti, o almeno i tempi, della Resistenza perché quella generazione è quasi completamente scomparsa; e neppure ai loro figli, che hanno toccato o superato anch’essi i cinquant’anni. Esso va consegnato invece ai nipoti, cioè agli adolescenti e ai giovani di oggi, che non hanno conosciuto la grande frattura politica, morale e culturale che segnava l’Europa e non sanno che – nel momento dell’estremo pericolo, sotto il giogo crudele della barbarie più organizzata che mai si vide nella storia, e in una situazione di vera e propria guerra civile, la più terribile e insidiosa che possa esserci – in questa nostra Italia uomini e donne, appartenenti a tutte le età e ad ogni classe sociale, presero coscienza del dovere della libertà e furono pronti a pagare con la loro stessa vita il prezzo che essa comporta.
Le “Lettere di condannati a morte” raccolgono lettere o messaggi di partigiani e patrioti scritte quando essi, catturati da fascisti o tedeschi, già sanno che verranno uccisi, o ne hanno il sicuro presentimento. Questo è l’unico criterio comune a tutte le lettere riportate nel volume. Tutti gli autori delle lettere furono “giustiziati”, anche se parecchi non arrivarono davanti al plotone d’esecuzione perché uccisi dalle torture, o perché si erano uccisi. Sono lettere, dunque, che non furono scritte per essere pubblicate. Concepite nel momento più solenne della vita, quando si è faccia faccia con se stessi in presenza della morte, esse erano indirizzate alle persone più care, in cui sono riposti gli affetti più personali, o a compagni di lotta e d’impegno civile. In esse si chiede memoria, conforto e anche perdono per una scelta che è causa di dolore, ma che è stata fatta per adesione a un valore più alto.
“Questi testi sconvolgenti – scrive Gustavo Zagrebelsky nella sua nota introduttiva – parlano di esseri umani negli ultimi istanti della loro vita, nell’attesa consapevole della fine per mano di altri esseri umani. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all’estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così – testimoniano coloro i quali, per un motivo inaspettato, hanno potuto dare testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, anche quelle svuotate dall’uso quotidiano, tornano improvvisamente a riempirsi del loro significato primigenio. Chiunque, perciò, può farle parlare da sé, senza intermediari”.
Nel 1945 io avevo vent’anni. Ebbene, se potessi rivolgermi ai figli dei miei figli, ai giovani che leggeranno le “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana”, ecco che cosa direi loro:
“La memoria di persone e di eventi che questo libro ci restituisce, l’onore che esso tributa a quanti hanno lottato per la libertà di tutti, dando la vita per essa, esige anche da parte di voi giovani un’assunzione di responsabilità degna del loro sacrificio. Anche voi non potete, non dovete arrendervi all’indifferenza, ai calcoli meschini, all’attendismo, alla menzogna e all’illegalità che uccidono la democrazia, ai miti disumanizzanti di turno, all’arroganza e all’ingiustizia, a tutto ciò che offende le coscienze. Anche voi siete chiamati all’impegno di capire dove oggi si gioca l’istanza di un’uguale libertà, di una rinnovata rivolta morale e al dovere di essere interiormente pronti a compiere quell’istanza con purezza di cuore. Anche voi siete chiamati a diventare ribelli per amore. L’umanità ha bisogno dell’eroismo morale dei giovani, se si vuol evitare il naufragio, a cui la sospinge il consumismo e lo svuotamento spirituale che l’accompagna. Questo è il compito dei giovani di ogni generazione, e dunque anche il vostro”.
Giornale di Brescia, 9.4.2003. Scritto in occasione dell’incontro su “La Resistenza, inizio di una nuova storia”.