L’eticità del lavoro in Virgilio

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Nelle riflessioni, che seguono, «lavoro» va inteso non solo come il fatto fisico e/o meccanico in sé e il suo prodotto, ma anche come coinvolgimento del soggetto, che lo produce. In questo senso il termine italiano si avvicina al latino labor per l’insistenza sul costo operativo (fino alla fatica, fisica o morale). Però la parola antica ha un’accezione anche più vasta, perché designa pure la costituzione dell’oggetto, cui reagisce (come, per fare un esempio, ratio è insieme la complessità del reale e la capacità dell’intelligenza di farne la sintesi). Tale è il senso di espressioni come frumentis labor additus di Georg. 1,150: il labor è organico al concetto di frumento, riuscendo inimmaginabile in epoca storica il frumento spontaneo. Nei singoli contesti labor accentuerà l’uno o l’altro di tali aspetti, l’atto e il prodotto, il suo costo soggettivo e la natura dell’oggetto, ma, per l’area concettuale implicata, difficilmente potrà essere poco significante. Infine un discorso sul lavoro non può prescindere dalla tecnica, che del lavoro è il prolungamento e l’organizzazione: per la tecnica il latino ha un termine proprio, artes, che non per niente si trova spesso nei medesimi contesti di labor.
In Virgilio, la parola labor compare 113 volte: è un’occorrenza molto alta, superata solo da pochissime altre parole-chiave: amor, animus, vis, fatum . Nonostante tale frequenza, il luogo fondamentale, su cui si è appuntata l’attenzione dei critici, rimane la clausola famosissima di Georg. 1,145 – 146 labor omnia vicit / improbus. L’importanza di questa deriva dal contesto teoretico, in cui si trova collocata . Vi si tocca infatti la dottrina dell’origine della tecnica dal bisogno in un certo stadio della storia del mondo. Il tema coinvolge i problemi assai gravi della colpa e del riscatto, della decadenza e del progresso, della degenerazione fisica e del male morale. Queste implicazioni non sono esposte dettagliatamente, perché il discorso è rivolto a un pubblico, con cui esiste comunanza di cultura. Per tale pubblico i cenni a Giove, al fuoco, alle arti bastano ad evocare nella mente teorie o credenze ben note, anche in prospettiva polemica. Per i moderni, che devono ricostruire tutto un ambiente, la situazione è diversa e la comprensione non è immediata. Complica l’interpretazione l’aggettivo improbus, anche perché rilevato (o staccato?) a principio di verso.
Così la critica si è divisa in due campi, sia pure con sfumature diverse al loro interno. Da una parte sta chi legge il passo come una dichiarazione pessimistica. La degenerazione fisica e morale del mondo è ineluttabile e irreversibile. La conclusione deriva anche dal presupposto costituito dalla dottrina dell’età aurea, la quale comporta il concetto di sviluppo storico in una sola direzione, dal meglio al peggio . A temperare questa visione regressiva interviene altrove, per esempio nella Buc. 4, la teoria dei cicli: ma qui ne manca qualsiasi traccia. Dunque labor omnia vicit improbus vuol dire che la legge della fatica e del dolore è inesorabile compagna e signora dell’uomo da quando è finita l’età dell’innocenza e del benessere gratuito. All’interno della concezione si potrà discutere la ragione di questo destino: colpa dell’uomo (il peccato di Prometeo) o volontà perversa del brutto poter che ascoso a comun danno impera (il Pater del passo) o semplice legge meccanicistica di una natura ignara delle sofferenze delle creature.
Dall’altra parte sta chi interpreta in positivo quella stessa legge . Labor omnia vicit improbus vuol dire che lo sforzo umano supera ogni avversità. Siano stati Giove o la natura o l’uomo ad abbandonare l’età aurea, questa è in ogni modo una felix culpa. Alla gratuità del dono si sostituisce il merito della creatività, alla dipendenza l’autonomia, alla immobilità dell’Eden la meravigliosa avventura dell’uomo nella storia, all’inerzia del primitivo l’attivismo dell’uomo moderno, alla staticità della condizione originaria la illimitatezza del progresso. La conquista merita un prezzo, labor improbus: ma in qualche interpretazione l’aggettivo si spoglia anche di questo residuo negativo per indicare soltanto l’intensità dello sforzo, ossia ribadire la grandezza dell’uomo teso a costruire il suo destino.
Queste visioni, alternative tra loro, sono adombrate già in Servio. Proprio a proposito di Georg. 1,145 labor improbus il commento spiega: nulli probabilis, e chiosa: nullus enim est amator laboris. Subito sotto vuole invece che l’aggettivo si intenda così: vel indefessus, adsiduus, sine moderatione: è evidente lo sforzo di togliere peso negativo all’attributo, spostandolo sul versante quantitativo. Si tratta della prima interpretazione, per così dire attivistica, dell’illuminismo moderno.
Cercare una volta di più di comprendere il pensiero di Virgilio non è ozio filologico. Il concetto del lavoro (e della tecnica) coinvolge l’idea stessa di uomo e del suo ruolo: «il modo di intendere un momento così centrale della vita umana, qual è appunto il lavoro, non può non essere direttamente legato al modo di considerare il soggetto di esso (cioè precisamente l’uomo), nonché alle prospettive (naturali innanzitutto, ma poi anche sovrannaturali) che gli vengono assegnate ». Oggi si assiste indubbiamente a una caduta di tensione nell’etica del lavoro. Questa morale era viva nella tradizione popolare, ma aveva scarsi supporti ideologici. Le culture, che si dividono il campo nel mondo moderno, o proclamano la libertà del lavoro avente per fine la realizzazione di sé attraverso la produzione, o postulano come ideale la libertà dal lavoro, la fine del regno della necessità. Neanche il Cristianesimo è riuscito a far attecchire pienamente l’etica del lavoro, nonostante abbia introdotto alcuni presupposti necessari a una morale della corporeità e del progresso: l’Incarnazione, l’escatologia, la collaborazione all’opera divina, il riscatto dal peccato . Malgrado i precetti pratici, già contenuti nella Didaché , malgrado l’esempio dei monaci, i limiti teorici sono evidenti in S. Tommaso e nella nozione di lavoro servile. Si dice che questo limite sia imputabile alla cultura classica, persistente nella coscienza e nella società pur dopo la caduta dell’Impero. E di fatto Roma non solo non era mai giunta a valutare moralmente e socialmente le attività produttive (sintomatico il giudizio di Cicerone, De off. 1, 42, 150 – 151), ma neanche a inserire la tecnica nel proprio quadro culturale, nonostante qualche malriuscito tentativo .
Così la vita morale rimaneva separata dalla realtà pratica. Eppure anche l’etica è porsi di fronte alla realtà in modo non passivo, ma con un progetto da realizzare. Anche oggi si dice che «non è possibile avere una vita etica che non sia a livello di operatività» . Quindi il lavoro e la tecnica, che sono modi tipici di porsi di fronte al reale, hanno un momento morale, se non sono pura ripetizione di gesti meccanici. Invece il romano separa agere e facere. La testimonianza più acuta è nell’epist. 90 di quel Seneca, che pure ha contribuito, col suo realismo, ad avvicinare al quotidiano le grandi norme dell’etica . Ma nel1’epist. 90 Seneca condanna senza appello la tecnica come responsabile della decadenza e proclama la sufficienza della filosofia alla vita morale. Anche altrove ripete che la sapienza non basta a vivere, ma basta a vivere bene (epist. 9,13). La nozione si fa anche più confusa in altri autori . Lucrezio separa natura e valore, ossia non identifica il primitivismo con la perfezione umana; ma al progresso tecnico, così riconosciuto, non sa fornire un altro parametro morale, perché gli rifiuta la capacità di cambiare la condizione umana . Plinio il Vecchio identifica difetto morale e debolezza fisica fin dall’origine e nega all’uomo la speranza di rimediare alla deficienza etica; gli riconosce solo la possibilità di rallentare l’inesorabile declino. Così il suo unico imperativo morale è l’attivismo, cioè una moltiplicazione quanti¬tativa; il suo rimpianto del passato è sterile moralismo, anziché moralità .
In questo quadro storico riconoscere la posizione di Virgilio è di importanza proporzionale alla grandezza della sua fama.

 

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Io non credo si possa togliere al passo sull’origine delle artes una impronta nobilmente pessimistica. Lo vietano il giro stesso del pensiero, il lessico prevalente, la normale accezione virgiliana di labor e la sua aggettivazione abituale, infine il costante senso negativo di improbus. Basti una breve analisi.
Che cosa dice il passo in questione, cioè i vv. 118 – 146? Che il raccolto è continuamente insidiato, nonostante i labores degli uomini e degli animali: dunque il male è organico all’esistenza; il labor rimedia al male, ma non garantisce la stabilità del successo . L’organicità è ribadita dal rinvio a un pater misterioso, che ha voluto che questo rimedio, cioè la tecnica, non fosse facile. Infatti alla condizione di natura non solo è stato tolto il bene (131 – 132), ma aggiunto il male (129 – 130). La deficienza non è appena fisica, ma anche morale (i serpenti sono velenosi, i lupi predatori), quindi il rimedio coinvolge tutto l’uomo (curis acuens mortalia corda), compresa la sua dimensione intellettuale (meditando). Invece di una natura, che dà tutto a tutti, una atomizza¬zione di ricerche separate, segno della piccolezza e inferiorità umana: tum variae venere artes. Non è un quadro di dominio, ma di oppressione. Alla clausola discussa labor omnia vicit improbus si allinea una affermazione impietosa, che la ribadisce con forza: et duris urgens in rebus egestas . E non solo nelle nervature del pensiero, qui riassunte (haud facilem, curis, gravi veterno, malum virus serpentibus atris, labor improbus, duris urgens in rebus egestas), ma anche nelle immagini descrittive domina una aggettivazione negativa: improbus (dell’anser), amaris (delle fibre della cicoria), officiunt, nocet, removit, captare e fallere (morali!), verberat.
Nel passo labor si trova già due volte. Dei restanti 111 esempi pochissimi sono in accezione positiva. C’è compiacimento per l’opera dell’uomo, che supera e vince l’ostilità della natura, in Georg. 2,155 adde tot egregias urbes operumque laborem, / tot congesta manu praeruptis oppida saxis (ma nel contesto delle laudes Italiae); la gioia del lavoro quando arridono la speranza e l’amore in un rarissimo flash-back su Didone «privata» in Aen. 11,73 (vestes) … quas illi laeta laborum / ipsa suis quondam manibus Sidonia Dido / fecerat. Il labor della riproduzione è blandus, cioè attraente, in Georg. 3,127, ma bisogna mettersi in condizione di sopportarlo; Enea in Aen. 4,233, viene rimproverato di non dedicarsi al suo labor, che pur gli darà fama; Turno in Aen. 11,47.6 chiama fortunatusque laborum egregiusque animi chi muore prima di vedere la rovina della patria. E già in questi ultimi casi è difficile non definire pessimistica o dolorosa la concezione, che li ispira.
La negatività dei contesti in cui la parola si trova, è ancora più evidente altrove. Le messi rigogliose sono frutto del lavoro degli animali, ma la pioggia continua le guasta: Georg. 1,325 (aether) pluvia ingenti sata laeta boumque labores diluit. Il sole, sorgendo, non porta speranza, ma opera atque labores «ai miseri mortali» in Aen. 11,183. Il lavoro è penoso per il fatto stesso di essere ripetuto, come nella coltivazione della vite: Georg. 2,397, 401, 412 est etiam ille labor curandis vitibus alter, / cui numquam exhausti satis est … redit agricolis labor actus in orbem … durus uterque labor; la parola torna, ossessivamente, tre volte in un contesto, che ben s’intona al concetto generale della precarietà del rimedio tecnico rispetto al male organico della natura. Labor è perciò la parola più adatta per indicare la lunga vicenda di Troia e il vagare di Enea di terra in terra, apparentemente senza scopo né meta (proprio un labor actus in orbem!); quindi il termine ricorre spessissimo nel poema . Labor è infatti anche l’error del Labirinto, un emblema di questa condizione (Aen. 6,27 dipinto proprio da Dedalo è labor ille domus et inextricabilis error). Il contesto è sempre di povertà, malattie, peripezie, morti, rovine, sofferenze. I suicidi dell’inferno vorrebbero aethere in alto / nunc et pauperiem et duros perferre labores (Aen. 6,437). La concezione esistenziale è sconsolata: per i vi-venti (è detto dei bovini, ma la sentenza si generalizza) ogni più lieto giorno di nostra età primo s’invola, sottentra il morbo e la vecchiezza e l’ombra della gelida morte: Georg. 3,67 – 69 optima quaeque dies miseris mortalibus aevi / prima fugit: subeunt morbi tristisque senectus / et labor et durae rapit inclementia mortis. Infine, a suggello teoretico, il Labor si allinea con le personificazioni dei mali peggiori dell’uomo tra i mostri del vestibolo infernale accanto alla morte, non lontana dalla Egestas : Aen. 6,276 – 277 et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas, terribiles visu formae, Letumque Labosque (nota il polisindeto).
L’aggettivazione è coerente: ho contato 5 volte durus, 5 volte tantus, e poi insanus, gravis, infandus, ingratus, del tipo di durus, cioè qualitativo; magnus, longus, quantus, del tipo quan¬titativo di tantus (ma la quantità, come la ripetizione, è per sé stessa negativa nella fatica). L’unica eccezione è verus di Aen. 12,435. su cui bisognerà ritornare.
Nel nostro passo labor è accompagnato da improbus, un attributo a sua volta sempre negativo. E’ detto di Turno come un masso, di Enea da parte di Didone o da parte di Turno o come invasore, di Arrunte, di Darete provocatore, della fortuna da parte di Sinone, in Aen. 12,687; 4,386; 11,512; 12,261; 11,767; 5,397; 2,80; come dell’oca, della cornacchia, del serpente, del lupo e della sua rabbia, dell’aquila, del leone (tutti animali feroci o nocivi) in Georg. 1,119; 1,388; 3,431; Aen. 9,62 e 2,356; 12,250; 10,727. I contesti sono tutti negativi: danni, violenze, uccisioni o almeno inimicizie e ostilità. Infine improbus è detto l’amore in Buc. 8,49 e 50 e Aen. 4,412. Chi ricordi quale senso doloroso abbia Virgilio dell’amore, percepisce il suono sinistro dell’aggettivo. E quello che l’amore è nelle Bucoliche (o in quella ripresa di alessandrinismo, che è il dramma di Didone) è il labor nelle Georgiche, una legge implacabile, una necessità oppressiva, che l’uomo non può né ignorare né evitare. Non a caso la clausola di Georg. 1,146 labor omnia vicit richiama la sconsolata morale dell’egloga 10,69 omnia vincit amor.

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Per queste ragioni mi sembra inaccettabile una interpretazione non dico trionfalistica, ma anche solo attivistica del passo sul labor improbus: sarebbe anche contraria al tono generale della poesia virgiliana. Se non c’è mai tensione attiva, ma stanchezza (anche nel poema, anche in Enea!), è difficile pensare che proprio qui Virgilio abbia celebrato il vantaggio, per l’uomo, dello scambio del veternus, che caratterizza l’ozio aureo, con 1’attivismo ferreo, che trova in sé stesso la propria gratificazione, o abbia esaltalo la forza promozionale dell’egestas (benché questo sia un motivo quasi topico) . E siccome non c’è luce di provvidenza nel doloroso quadro dell’uomo, non si può neanche dire che la sofferenza, quale viene descritta, sia finalizzata al bene (nonostante qualche suggestione verbale). Le Georgiche sono troppo meccanicistiche nella loro struttura filosofica per lasciare spazio a qualsiasi finalismo .
Non costituisce invece una vera difficoltà la debolezza dell’uomo, che potrebbe essere usata (ma qui non lo è) per ingrandire la sua rivalsa: la retorica conosce bene questo tipo di argomentazione: la grandezza dell’uomo si misura nella sua capacità di ricuperare con l’intelligenza lo svantaggio fisico iniziale; l’animale, che nasce senza difese e senza capacità autonome, è destinato a soggiogare la terra con la forza della sua mente.
È vero invece che altri passi sembrano giustificare un’interpretazione più ottimistica. Le laudes Italiae di 2,136 – 176 sono l’esaltazione di uno stato fiorente non per solo dono gratuito della natura (mari, miniere), ma anche per opera dell’uomo: tot egregias urbes operumque laborem, / tot congesta manu praerupta oppida saxis, e poi il porto Lucrino e le dighe che imbrigliano il mare, e persino le vittorie, dunque res antiquae laudis et artem. Il finale dello stesso libro descrive la vita fortunata dei contadini, lontani dalle guerre e dagli odii, a contatto con la natura lussureggiante che si rinnova, colti nelle manifestazioni vitalistiche dei giorni festivi. Ma si sa che i libri pari del poemetto sono di intonazione più luminosa: il contrasto tra I e II è dichiarato nel finale dalla ripresa della stessa immagine dei carri .
A che cosa è dovuta questa alternativa? Ha solo una finalità estetica? O serve a ricevere influenze diverse senza dover scegliere? Oppure intender metterle in rapporto dialettico aperto ? Qualcuno pensa che un simile bifrontismo copra la biunivocità del rapporto colpa-espiazione, che legittimerebbe insieme la persistenza dei toni negativi (la pena è una sofferenza) e la presenza dei positivi (la soddisfazione del risultato). Ma nel meccanicismo delle Georgiche non c’è spazio per questa dialettica: la pena colpisce allo stesso modo i colpevoli e gli innocenti, cioè uomini e animali .
Nel nostro passo c’è solo qualche accenno a elementi del mito di Prometeo, ma collocati di proposito fuori posto. V’è il fuoco, ma non è materia o occasione del peccato, bensì strumento di punizione: il Pater lo nasconde (131 removit) per chiudere l’età dell’oro. Giove stesso è nominato, ma solo come termine crono¬logico (anche Servio ad loc.: ante regnum Iovis), per indicare l’età postsaturnia, non come autore della repressione. Giove del v. 125 e il Pater del v. 121 non sono necessariamente identificabili, nonostante la connessione etimologica e la vicinanza concet¬tuale. Pater è in Georg. 1,328 e 2,325 il mondo fisico, la realtà come si presenta. Questa interpretazione si adatta anche al nostro contesto . Il modo di essere di questo mondo è i1 labor, organico all’esistenza. Qui dunque labor designa la costituzione dell’oggetto (con immancabili riflessi sull’atteggiamento del soggetto). Pater è il modo mitico di indicare questa stessa legge della realtà. Con un giro di pensiero non dissimile San Paolo sembra dire che la legge è stata fatta per condannare, ossia: non basta conoscere, bisogna operare . Per cui l’osservanza dei gentili vale più della conoscenza dei giudei. La legge viene non tanto enunciata in sé, quanto derivata dalla realtà che ne è la trasgressione: ossia è sintesi e teorizzazione della realtà medesima. Trasportato in Virgilio, questo modo interpretativo gli fa dire che il pater è, come la legge, sintesi e teoria del reale, cioè del labor, più che il suo autore. Ma io non voglio spiegare Virgilio con San Paolo. A spiegare Virgilio basta lo stoicismo . Tra il poeta e l’apostolo corre infatti una differenza profonda: San Paolo parla di legge, cioè della proiezione sulla terra della volontà divina; Virgilio invece parla di Dio (il Pater), che si identifica con la legge, perché è ancora immanentista. Però un chiarimento si ricava da questa analogia: che Virgilio non parla in termini teoretici o conoscitivi ma in termini operativi. Allora la stessa età aurea non va intesa come una dottrina, ma come il mito di una condizione morale . Infatti le età dell’oro, che compaiono nel poeta, sono troppe e discordanti tra loro per rimandare a una precisa impostazione dottrinale (sia pure tutt’altro che univoca, come era già quella sul regno di Saturno) . La visione più ortodossa si trova nell’ecl. 4, cioè una vita beata senza lavoro né proprietà né leggi né storia. Ma già nel finale di Georg. 2, dove pure compaiono la pace, la giustizia, la fiducia, la secura quies, i latis otia fundis e persino molles sub arbore somni, il quadro è tutto diverso: ci sono la storia (i Sabini, Remo, l’Etruria, Roma), la famiglia (dulces pendent circa oscula nati), ma soprattutto il lavoro (agricola incurvo terram dimovit aratro: / hinc anni labor). Eppure aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat. La società delle api è comunistica, come quella saturnia, ma conosce la divisione del lavoro, rigide leggi, l’eroismo della fatica e appartiene all’età di Giove. Quella regressione nell’Arcadia, che è il regno di Evandro nel 1. 8 dell’Eneide, prefigura Roma: non solo ha leggi e lavoro, ma conosce anche la tecnica; Saturno è il saggio posidoniano, che insegna agricoltura e civiltà .
Questo vuol dire che l’età aurea rappresenta non un’epoca determinata, ma una condizione morale; ora una condizione morale si può ricuperare in situazioni storiche diverse e con strutture e istituzioni diverse. Le conseguenze di tale osservazione sono molteplici:
– Intanto Virgilio si libera dallo sterile rimpianto del primitivo e soprattutto dall’obbligo di consentire con la contraddittoria propaganda augustea di ritorno al passato; non lega più la possibilità di rinnovamento morale al ripristino di vecchie strutture, rinunciando cioè al progresso tecnico e a un’organizzazione sociale più evoluta. Non pone legame di necessità fra strutture del reale e forme istituzionali. La proposta di alta produttività, conseguenza di una tecnica avanzata, non contraddice a un progetto morale. Anzi, siccome si parla dell’Italia, la produttività agricola della penisola significherà autosufficienza alimentare e quindi rifiuto dell’imperialismo (le importazioni si pagavano con i tributi delle province sottomesse) . Questo intento sembra assai più virgiliano e verosimile che quello di insegnare l’agricoltura con versi raffinati a veterani analfabeti.
– Se labor indica la natura del reale e il reale ha una dimensione morale, improbus si può leggere pianamente anche nel suo valore morale immediato, cioè non probus. Il collegamento tra fisico e morale non è nuovo, ma è nuova la fiducia di incidere attraverso la tecnica sul morale per quella aderenza immediata del soggetto all’oggetto, che si esprime persino nella identità della parola labor. Quindi il rimedio alla carenza (fisica e morale) della realtà è interno allo stesso reale, cioè la via colendi, voluta dal Pater, non contraddice alla natura. L’agricoltura è la più adatta fra tutte le artes a rappresentare questa possibilità offerta all’uomo, anche perché già moralizzata attraverso la connessione col mos maiorum. Però l’agricoltura rappresenta anche le altre arti: in 1,118 – 159 compaiono anche caccia, pesca, navigazione, inoltre il ferro e il fuoco (tecniche metallurgiche, cioè).
– La possibilità morale delle artes spiega la compresenza nello stesso finale del 1.2 di esiti buoni e cattivi dello stesso progresso tecnico, economica e sociale: anzi, tutto il passo è giocato sulla contrapposizione di forme diverse di avanzamento storico: pas¬sioni politiche contro serenità, ansia, violenze e sovversioni contro un ordinato ritmo di lavoro e un corretto funzionamento delle istituzioni familiari e sociali. La nuova età dell’oro non è segnata dall’ozio o dalla spontaneità di natura, ma dal lavoro secondo ritmi e istituzioni precise (la tecnica). Le due concezioni di vita, che vengono messe a confronto, non rappresentano il conflitto città-campagna, politico-privato, vecchio-nuovo, progredito-primi¬tivo, ma il risultato diverso di due usi divergenti delle stesse possibilità offerte dalla tecnica e dal progresso sociale. La tecnica non è buona in assoluto, solo perché tecnica, né cattiva in assoluto, solo perché altro dalla natura vergine, ma uno strumento, che si può usare bene o male . In questo senso la diversità, o la contraddizione, fra 1,118 – 159 e 2,458 – fine s’attenua o scompare . Scoperta la legge organica del reale, il labor (fisico e mora¬le insieme), e individuata al suo interno la via omonima da seguire (etico-tecnica), emerge però una grande novità, cioè il rischio di sbagliare. Eticità del lavoro e della tecnica vuol dire doverosità e bontà intrinseca di questa via, non vuol dire né garanzia dei risultati né univocità delle procedure: rimane all’uomo la scelta dei modi concreti, con cui operare. L’imperativo categorico è operare, i modi sono opinabili.
Vorrei sottolineare come il rischio di sbagliare sia condizione di moralità, perché presuppone la libertà, quindi la responsabilità. L’innocenza inconsapevole non è meritoria; Seneca, ancora nella lettera 90,44, lo dice per la vita morale come è da lui inte¬sa (ars est bonum fieri) e Virgilio lo riconosce nel campo tecnologico. È già stato osservato da altri il rischio della sofisticazione in Georg. 1,193 a proposito dell’intervento sui semi, gran¬dior ut fetus siliquis fallacibus esset. Una tecnica consolidata e importante come la medicina può addirittura sortire effetti negativi in determinate situazioni (Georg. 3,549 quaesitae nocent artes). In altre parole, Virgilio attribuisce alla tecnica caratteristi¬che proprie dell’etica. Una conquista può sempre andare perduta . Le acquisizioni del labor non sono mai definitive. Lo si è già visto nell’attacco di 1,118 nec tamen, haec cum sint homi¬numque boumque labores… nihil improbus anser… officiunt… nocet; ossia il male è organico all’essere, il bene non è definitivo. Le sementi, scelte e analizzate con grande fatica, possono tut¬tavia degenerare (1,197, e il poeta se ne fa testimone: vidi). Il lavoro attorno alle viti non è mai finito (2,397 numquam exhausti satis est): la pena della ripetitività viene espressa anche attra¬verso il notato triplice ritorno di labor in pochi versi.
Insomma questo labor, che è già morale perché non è astratto, possiede della moralità altri aspetti: l’assunzione di responsabilità, il rischio delle scelte, la continuità dell’impegno.

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Nonostante il prezzo che si dispone a pagare, nonostante la rinuncia a ogni ottimismo sulle magnifiche sorti e progressive. sulla irreversibilità del progresso e sulla assolutezza della tecnica, questa concezione è più positiva di quella degli altri scrittori, con cui ho prima confrontato Virgilio. Contro Lucrezio ricongiunge tecnica e morale, non come necessità, ma come possibilità; contro Plinio e contro il moralismo sterile del rimpianto riconferma fiducia nella moralità della tecnica in condizioni sempre diverse (e dunque di rischio). Ma la distanza si aggrava rispetto a Seneca, soprattutto perché non solo riconosce valenza morale alla tecnica, ma sembra negarla alla filosofia. Anche per Virgilio la tecnica non nasce dalla filosofia ma dal bisogno : cfr. Georg. 1,132 ut varias usus meditando extunderet artes. Con questa affermazione il poeta esprime la realtà prevalente nel mondo antico, dove la tecnica non è figlia della scienza, ma risposta ai bisogni emergenti. La scienza al contrario è teoresi come la filosofia, conoscenza disinteressata.
Questo mi sembra il significato della dichiarazione di poetica inserita tra i vv. 475 e 499 del 1.2, proprio all’interno del passo finale: la collocazione è certo significativa. La polemica rimanda a Lucrezio, il poeta che meglio rappresenta l’unità di filosofia e scienza in funzione morale . Virgilio, con una sorta di recusatio, opta agli stessi fini per la poesia agreste. Quindi alla verità filosofica e scientifica contrappone il mito dell’agricoltura, cioè il poeta si fa mediatore tra l’uomo e la tecnica . Anche di Socrate all’inizio del Fedone (61 b) si apprende che ha composto poesie: è un annuncio che giustifica e prepara il mito finale. Può essere che questo mito abbia un valore in qualche modo re-ligioso, ossia rimandi il vero oltre la pura razionalità. Ma non voglia spiegare Virgilio neanche con Platone. Mi basta notare che questa analogia spiega da sola la presenza del mito di Orfeo Aristeo alla fine delle Georgiche. Il complesso episodio, che per la sua struttura alessandrina sembra un fuor d’opera nel poema e quindi genera la leggenda della sua tardiva sostituzione a un primitivo elogio di Gallo , in questa prospettiva appare invece il naturale coronamento di un discorso morale, condotto per tutte le Georgiche non in nome della filosofia, ma del valore del labor, che è il valore delle artes. Di questo discorso il poeta si fa interprete come poeta, smessi gli abiti non suoi della scienza e della filosofia.
Il mito di Orfeo-Aristeo sia dunque il contraltare del mito dell’età aurea, introdotto dal semimito delle api (o realtà miticamente interpretata).

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La critica moderna ha fatto molti passi innanzi nella analisi delle ragioni profonde della struttura interna del grande idillio e della connessione ultima col tema del lavoro . Orfeo è un contemplativo (canta), Aristeo attivo (lavora); quindi l’uno è simbolo dell’otium, l’altro delle artes . Si noti però che Aristeo non esercita una tecnica avanzata a fini economicistici o produttivistici, ma per la propria realizzazione (Georg. 4,326 vitae mortalis honorem). Inoltre è disposto a pagare un prezzo: per la riproduzione delle api sacrifica un toro. La morìa stessa è conseguenza di un peccato: il quadro è morale. Aristeo riesce nel suo intento, mentre Orfeo fallisce: l’opzione virgiliana per l’eticità del lavoro sembra anche qui chiara.
Tuttavia qualche particolare va precisato. Orfeo aspira all’immortalità individuale di Euridice, Aristeo si accontenta della riproduzione, cioè della sola continuità delle api (diciamo: l’immortalità di gruppo). Dunque l’attenzione si sposta sullo sciame. Se ne deve dedurre che il modello proposto è l’alveare? E la modalità di vita è ancora la forma comunistica dell’età aurea di Georg. 1,118? Se così fosse, il pensiero virgiliano non farebbe alcun progresso, si limiterebbe a ripensare con sterile nostalgia un mondo favoloso, di cui conosce bene l’irripetibilità storica. Il pessimismo non sarebbe attivo, ma totale: nessuna moralità. E poi anche le api contraddicono all’Arcadia, perché schiacciate dalla fatica: nello sciame di lavoro si muore (204). Il labor qui domina come l’amor in Arcadia.
Sull’alveare come modello occorre far