Nel panorama piuttosto oscuro della presenza classica nella cultura italiana contemporanea, aprono ogni tanto qualche spiraglio di luce coraggiose iniziative dell’editoria, tra le quali anche la traduzione di pubblicazioni straniere, per lo più tedesche, risalenti all’inizio del secolo, ma diventate a loro volta classici del genere. L’ultima di queste iniziative, dovuta a Rusconi, riguarda Tutti i frammenti degli Stoici Antichi secondo la raccolta di Hans Von Arnim. Questa edizione, vecchia di quasi un secolo, aveva costituito fino ad oggi uno strumento insostituibile di studio, nonostante le molte parziali pubblicazioni successive. L’attuale italiana rappresenta anche una novità nella presentazione del materiale, perché riproduce fotograficamente i testi greci e latini come apparivano in Von Armin e pone a fronte la traduzione, serbando l’ordine dell’edizione tedesca. Con l’aggiunta di alcune utili appendici ne risulta un volume di ben 1666 pagine, pur essendo limitata alla prima fase storica della dottrina stoica, che però è anche quella fondamentale e decisiva per gli orientamenti di fondo. I frammenti sono importanti, perché dello stoicismo antico, a differenza del nuovo, non ci sono giunte opere intere. Alcuni passi sono relegati nell’Appendice già nell’edizione tedesca, ma non meno interessanti. Citerei tra questi un capitolo di Gellio, che dimostra l’attitudine didattica degli stoici, i quali, proponendo una dottrina utile per la vita, non intendevano riservarla agli anziani. Eppure l’autore del passo riferito da Gellio è Crisippo, il secondo successore di Zenone (fondatore e primo capo della scuola), ma certamente il maggior teorizzatore e sistematore della dottrina (a lui è dedicata una buona parte della raccolta). Gellio, tanti secoli dopo, trae da un libro di Crisippo «sul bello é il piacere» una descrizione iconografica della Giustizia, attribuita ai pittori e ai retori precedenti. Per questa descrizione conviene rifarsi al testo greco, che Gellio riporta diligentemente dopo la sua traduzione: «Si dice che (la Giustizia) sia una vergine per simboleggiare che è incorruttibile e non fa nessuna concessione ai malfattori, non accetta né discorsi speciosi né preghiere o suppliche, né adulazione o altro del genere. In coerenza con ciò viene rappresentata in atteggiamento fermo e deciso, accigliata in volto, con la vista acuta per incutere paura ai malvagi e coraggio ai giusti, perché il suo sguardo è benevolo verso questi e ostile agli altri». Di conseguenza, commenta Gellio, «i giudici, che sono i sacerdoti della Giustizia, devono essere dignitosi, irreprensibili, severi, incorrotti, non devono lasciarsi vincere né commuovere di fronte ai malvagi e ai delinquenti, devono essere rigidi, duri ed efficienti». Ma aggiunge anche che ai seguaci di teorie più morbide questo non pare il ritratto della Giustizia, ma della Crudeltà. Anche i commentatori moderni si affrettano a ricordare che la proposizione di Crisippo risale al terzo secolo avanti Cristo e che, ai tempi di Gellio (II sec. d.C.), nell’amministrazione della giustizia era subentrata all’intransigenza l’umanità. Per capire certe rigidità della posizione originaria degli stoici antichi, bisogna rifarsi al concetto teorico di giustizia, che essi hanno. La giustizia dei tribunali infatti rappresenta solo un caso particolare della giustizia in generale, anche se in quella sede si pone storicamente il problema della distinzione fra legge (naturale) e diritto (positivo). La prima «non è una scoperta dell’ ingegno umano né il frutto di una sanzione popolare», ma «è la somma ragione insita nella natura, la quale comanda ciò che va fatto e proibisce quel che non va fatto». Essa è ordinata al rapporto fra gli uomini e all’equità distributiva, quindi tocca direttamente i tribunali, ma non appartiene né alle parti né al giudice («il giudice non vuol vincere nessuno e nemmeno combatterlo o fargli opposizione»). La legge si comunica agli uomini, perché essi sono partecipi della ragione universale; quindi la nozione di «giusto» si trasmette «per trasposizione nei fatti» dei suoi imperativi. Realizzando la ragione universale l’esercizio della giustizia è una virtù o, come qualche stoico vuole, un’applicazione particolare dell’unica virtù. Come tale è disinteressata, non cerca premio né prezzo; realizzando il bene coincide con la felicità. Anche il titolo del libro di Crisippo, citato da Gellio, è significativo: poiché il bello è anche buono, l’esercizio di questo costituisce il piacere vero. Si tratta di una concezione altamente morale, non certo economicistica.
Giornale di Brescia, 22.8.1999.