Una famosa satira di Giovenale presenta il vecchio Umbricio, che lascia la capitale con le sue povere cose per trasferirsi in Campania. Egli è «un romano di Roma»», che non si ritrova più nella sua città natale, diventata invivibile per troppe ragioni: il traffico, il lusso, la corruzione, ma soprattutto l’invadenza degli stranieri. Roma è diventata greca, si lamenta, cioè cosmopolita. Per greco (il vecchio lo sa bene) non si intendono i veri Achei, ma la folla variopinta e composita venuta dal vicino e dal medio Oriente: egli dice pittorescamente che il fiume Oronte dalla Siria è venuto a sfociare nel Tevere. Si tratta per Umbricio di gente che si insinua dappertutto, si adatta a tutto, ma a poco a poco finisce per emarginare proprio chi ha fin da piccolo respirato l’aria dell’Aventino. Eppure la presenza di stranieri a Roma non era una novità e non aveva dato prima motivi specifici d’allarme. La città era nata come centro commerciale e quindi aveva sempre visto mercanti di ogni genere. Da secoli si solcavano le rotte mediterranee e nei porti si parlava una lingua franca oppure, nei casi migliori, il greco, che dopo Alessandro Magno si era corrotto, ma era diventato la lingua comune delle regioni, che avevano costituito il suo immenso ed effimero impero. Quelli che parlano questo greco sono i greculi, che i romani distinguono dagli eredi di Atene (per la civiltà della quale nutrono ammirazione). Verso i greculi si prova un sentimento misto di superiorità per la loro debolezza politica e di diffidenza per i loro atteggiamenti. Ma in definitiva i cittadini li accettano e li impiegano, a volte con grande fortuna. Si hanno molte notizie di espulsioni non solo di politici, ma anche di retori e di filosofi, ma non altrettante di extracomunitari. Se mai, stando a Giovenale, sono gli indigeni romani che si autoespellono, quando la pressione degli stranieri è troppo forte. Ma almeno nei secoli precedenti, l’assimilazione prevale sui contrasti. Dell’etnia romana si può ripetere pressappoco quello che si riscontra sul latino, che è una lingua formata da apporti di ogni genere e di ogni provenienza, eppure ha una sua fortissima originalità. La capacità di assorbire influenze straniere senza snaturarsi sembra un tratto distintivo della Romanità e si innesta nella sua tradizione liberale. Sull’ argomento esiste un discorso dell’imperatore Claudio, che si legge in Tacito, ma non è un’invenzione dello scrittore (come spesso usavano gli storici antichi): su una tavola trovata a Lione già nel Cinquecento è inciso il testo del discorso realmente pronunciato, che è sostanzialmente simile a quello tacitiano. L’occasione era stata offerta dalla proposta di introdurre nel senato centrale uomini di una regione della Gallia fino allora esclusa. Per sostenere la proposta il principe, che non era uno sciocco come la tradizione a lui contraria lo ha fatto apparire, sfrutta la sua cultura antiquaria allo scopo di dimostrare che è coerente con la tradizione di Roma accogliere gli esterni, cioè gli stranieri, e insieme non badare allo status sociale: il secondo re di Roma, Numa, veniva dalla Sabinia, e quindi «per quei tempi era uno straniero»; Servio Tullio era figlio di una prigioniera. Proprio l’accettazione nel nome di Roma di popoli diversi (e fa l’esempio dei Cisalpini) aveva portato la pace; da Romolo i successori avevano imparato «a trasformare i nemici in cittadini». A Roma gli stranieri potevano anche regnare per la stessa ragione, per la quale le alte cariche venivano assegnate persino ai figli di liberti. Anche il tribuno Canuleio, secondo Livio, cinquecento anni prima di Claudio aveva usato lo stesso argomento, intrecciare cioè la tradizione liberale con l’accoglienza degli stranieri. Dunque questo è un concetto non isolato, anche se non sempre realizzato in modo così idillico. Però la partecipazione di genti non romane alla romanità in aree sempre più vaste è un fatto provato, sia nelle istituzioni che nella cultura. C’è il momento dei Cisalpini e quello degli Spagnoli, e persino quello degli Africani. E questi immigrati non si sentono “inquilini” di Roma, ma cittadini a pieno titolo, anzi eredi morali di quella nazione di cui pensano di interpretare lo spirito (e ringiovanire le membra come affermava Claudio). È straordinaria la rapidità di queste acclimatazioni: la Gallia entra nell’orbita romana solo al tempo di Cesare, cioè settecento anni dopo la fondazione di Roma, ma ne è pienamente invasa; la Romania addirittura al tempo di Traiano e ne risente ancora nella lingua. Agricola, governatore in Britannia al tempo di Domiziano, si stupisce della celerità con cui quegli isolani adottano la civiltà urbana tipica di Roma, e si preoccupa dei contraccolpi negativi (si imparano i vizi). L’ingresso rapido in un modo di vivere più avanzato presenta i suoi rischi. Certo la romanizzazione è più agevole per le classi alte, con le quali vengono più frequentemente in contatto le delegazioni del governo centrale. Ma il motivo procede anche dal basso: i «barbari» (ossia gli stranieri o ex stranieri) entrano nell’esercito romano, e il servizio militare, lungo e duro, è una via di promozione sociale. I centurioni, cioè modesti sottufficiali, quando sono congedati occupano posti di rispetto e cariche locali nei paesi d’origine o nelle comunità (città e presidi nello stesso tempo) in cui si stabiliscono. Insomma il rapporto di Roma con genti di volta in volta fuori della comunità percorre tutta la storia antica, con punte conflittuali fin dai secoli repubblicani (chi non ricorda Brenno o i Campi Raudi?), ma con prevalenza della politica di incontro, che esige disponibilità da entrambe le parti. Il rispetto per Roma così durerà oltre Roma e negli ultimi tempi saranno proprio generali “barbari” a difendere l’impero. Solo a partire da un certo momento i momenti conflittuali prevalgono sulla reciproca accettazione. Marco Aurelio nel secondo secolo combatte ancora vittoriosamente contro i Sarmati, ma la sua è ormai una guerra difensiva; e i secoli seguenti saranno solo una ritirata progressiva di fronte all’incalzare di genti da nord-est e da nord-ovest. Che cosa è cambiato? Non sono cambiati gli stranieri, sono cambiati i romani, non più capaci di trasformare i nemici in cittadini. La spinta propulsiva, che li aveva fatti calamita del mondo, si è esaurita. La lunga crisi demografica e la decadenza dell’agricoltura sono giunte allo stadio terminale: l’esercito è da tempo professionale, ossia mercenario: l’assenteismo politico dilaga. Lo stato è forse meglio organizzato, la qualità della vita (per alcuni) è superiore, ma le idealità sono tramontate: conta solo il denaro, lamenta Giovenale. Con questo aspetto la civiltà romana non è più un esempio da imitare o una realtà in cui entrare volentieri, ma una ricca preda da conquistare. Le magnifiche costruzioni innalzate da Adriano in tutte le parti del mondo, che quel viaggiatore instancabile ebbe occasione di visitare nel suo lungo regno, costano però una enorme pressione fiscale (anche le piante pagano tasse, ancora Giovenale). Verrà presto il giorno, in cui le masse dei cittadini comuni preferiranno la precarietà dei barbari al carico tributario dello stato organizzato.
Giornale di Brescia, 23.9.1998.