Nel redigere il suo monumentale “inventario del mondo” (la definizione è di Italo Calvino), che è contenuto nei 37 libri della sua Storia naturale (dove storia, historia, significa semplicemente descrizione) Plinio il Vecchio è guidato dall’idea centrale della natura come legge fondamentale anche per l’uomo, benché non definita nei suoi contorni, incerta tra fisica e filosofia. L’invito a vivere secondo i ritmi originari della natura non è privo di contraddizioni e cade spesso nell’utopia, come quando vorrebbe ridurre la farmacopea ai rimedi dell’orto. Nello stesso tempo però riconosce i progressi compiuti proprio nella medicina come nelle arti e nelle tecniche.
Egli attribuisce però questi progressi alle generazioni precedenti. Quanto ai contemporanei lamenta un diffuso senso di apatia. Nonostante la pace e il benessere (scrive al tempo di Vespasiano e di Tito, in uno dei momenti migliori dell’impero), o forse proprio per questo, si è spenta non solo l’ansia della ricerca, ma persino il desiderio di conoscere ciò che è già stato acquisito al patrimonio culturale dell’umanità e la voglia di impegnarsi nella vita attiva. E già questo è contro natura: secondo Plinio la vita è veglia operosa (e lui dorme poco, tiene incarichi prestigiosi e nel contempo studia e scrive senza sosta). La maggioranza invece è dominata dalla noia, così ben descritta in più sedi da Seneca, negli uomini che intraprendono viaggi senza fine e si aggirano per paesi lontani: essi si illudono di star meglio cambiando, come il malato «che non può trovar posa in su le piume, ma con dar volta suo dolore scherma» (per tradurre con Dante l’ovvio paragone senecano). La scontentezza interiore si traduce nella fretta, con cui molti si muovono «come se dovessero correre a spegnere un incendio». In realtà non hanno nessuno scopo vero da raggiungere e la loro velocità è fine a se stessa.
L’altro modo per credere di riempire il vuoto interiore è la ricerca di sensazioni e stimoli sempre nuovi, perché «i bisogni naturali sono ben definiti, quelli indotti non hanno mai fine». Già Orazio aveva iperbolicamente detto che i pesci si accorgono che il mare si è ristretto, perché invaso dalle costruzioni sempre più imponenti che si elevano sull’acqua: l’impresario fa lavorare i suoi operai a ritmo forzato per gettare in alto mare le fondamenta di una nuova villa destinata a un committente, che ha ormai a noia la vita in terraferma. E questi non sa che l’insoddisfazione se la porta dentro: è inutile spronare il cavallo, perché «l’inquietudine siede accanto al cavaliere». Tanto per Orazio quanto per Seneca le aberrazioni sono frutto dell’ abbandono di una concezione semplice e sobria della vita, quale sarebbe suggerita da Madre Natura: è il lusso, che allontana dalla natura, sentenzia il filosofo. La lingua segue e documenta questa evoluzione: horti si chiamavano un tempo i piccoli poderi, ora i giardini e le ville.
Plinio si trova su questa stessa linea, aggravata dal suo pessimismo. Sulle nefaste conseguenze del lusso, fomentato dall’eccesso di ricchezze, basti un esempio (ma sono molti nella Storia naturale): Cleopatra vince una scommessa con Antonio, consumando il valore di dieci milioni di sesterzi in perle (una somma da capogiro) in una sola cena, anzi in un solo bicchiere, nel quale ne fa sciogliere una di quel valore. La mania delle perle è così diffusa che «adesso le vogliono anche i poveri». Ma Plinio va molto oltre, facendo l’inventario del mondo, animali, piante, minerali, vede e denuncia le ferite, che questo insensato modo di vivere ha inferto alla Terra, che pure ci genera, ci nutre e ci accoglie da morti nel suo grembo.
La natura infatti aveva disposto le cose in modo che tutta la superficie del globo, ma solo la superficie, fosse a disposizione dell’uomo. Questi invece ha violato i limiti del suo paradiso terrestre, scavando sotto terra le miniere, per estrarne l’oro e le pietre preziose, peggio ancora il ferro, col quale si può moltiplicare il danno, che si reca al prossimo e alle cose. L’uomo non ha veleni nella sua costituzione fisica, ma si procura artificialmente i mezzi per nuocere (e li aggrava tingendo di veleno le frecce).
Non diversamente per altro si esercita la sua arroganza in superficie. Per divertire le masse ci sono gli spettacoli, che governatori di ogni livello si premurano di allestire, sottraendo al loro habitat tigri e leoni e costringendo gli elefanti a esercizi da equilibrista. Una volta le statue degli dei erano di legno, poi furono fatte d’avorio. Il prezioso materiale adesso si usa anche per i piedi dei letti. Per procurarlo si fa strage di elefanti: ormai c’è penuria di zanne, perché «il lusso le ha fatte scomparire»: quindi si ricorre a sottili lamelle di osso, che di per sé non avrebbe alcun valore. Lo stesso avviene con il legno: quello pregiato si è ormai fatto raro e allora si rimedia riducendolo in strati sottili, con i quali rivestire essenze meno pregiate. I procedimenti tecnici dell’epoca sono ancora semplici, ma l’inventiva è senza limiti: gusci di tartaruga, debitamente trattati, sostituiranno il legno.
Plinio è diffidente verso gli artifici come verso i gusti perversi. Considera i nani, uomini o animali che siano, colpiti da una “sorte sventurata”. Ma ecco che la moda ora comporta gli «alberi di piccole altezze», costretti dunque con la forza a falsare la natura. Per questo egli usa parole forti, parlando in questo caso di aborto, come definisce adulteri certi innesti. L’applicazione persino ai vegetali della terminologia umana è indice della sensibilità con la quale questo antico sente le violenze esercitate sulla natura.
Giornale di Brescia, 18.7.2002.