Vini e viti dei romani

Il vino tiene un suo posto nella letteratura antica, sia storico-narrativa che poetica. Per quest’ultima bastino i nomi di Alceo e di Orazio. Ma è un vino profumato quello col quale l’accorto Ulisse addormenta il gigante Polifemo prima di accecarlo. In una coppa di vino Cleopatra durante un banchetto fa sciogliere una perla di inestimabile valore, solo per vincere la folle scommessa con Antonio su quale dei due avrebbe speso di più per una cena. Del vino i Romani temevano le conseguenze negative, anche sull’esempio di precedenti illustri. Alessandro Magno, che sotto l’effetto dell’alcool compiva gesti esecrabili, aveva lasciato cadere nel vuoto l’ammonimento di Androcide: «Quando ti accingi a bere, ricordati che la cicuta è un veleno, ma il vino è un veleno anche per la cicuta» vale a dire è un veleno anche più forte. Quindi a Roma un tempo esistevano forti restrizioni specialmente per le donne. Secondo Catone in antico i mariti baciavano le mogli sulla bocca, non per affetto, ma per controllare se avevano bevuto. Poi i costumi vennero allentandosi, fino ad arrivare negli ambienti peggiori ad un capo del banchetto lui stesso “più pieno di vino di un acino d’uva”, secondo la pregnante espressione del carme 27 di Catullo. In altri luoghi invece era raffinatezza il Falerno gelato. Produzione ed uso del vino erano comunque diffusi. Data la rilevanza dell’enologia, non disdegnavano di occuparsene anche gli intellettuali, e non per hobby, ma per interessi pratici. C’era anche chi, come Svetonio, forse stanco della vita negli archivi, desiderava una vigna per relax, ma tanto piccola da contare e riconoscere le piante una per una. Invece Remmio Palemone, un grammatico che si era fatta una fama tale per cui poteva esigere alti onorari per le sue lezioni, si dedicava anche a imprese agricole e industriali. Per esempio comperò una proprietà terriera abbandonata, la fece lavorare a fondo e vi impiantò viti, che dopo qualche anno cominciarono una produzione strepitosa (360 grappoli in una sola pianta innestata di sua mano!), suscitando l’ammirazione interessata di altri appassionati. Tra questi niente meno che il filosofo Seneca, allora all’ apice della sua potenza politica, che riuscì ad aggiudicarsi quel vigneto ad un quadruplo del prezzo che Remmio Palemone aveva pagato per l’acquisto. Non sempre le cose andavano così bene. Plinio il Giovane, che era un grande proprietario, ma non un latifondista (ossia praticava colture intensive, non estensive), si lamentava spesso delle avversità atmosferiche. E una volta si trovò a indennizzare (non si sa se per generosità propria o per una clausola contrattuale) i commercianti, che avevano pagato le uve ancora sulla pianta prima che la grandine le distruggesse. Perciò, volendo comperare un nuovo fondo, Plinio si domanda se sia più opportuno procurarselo adiacente a uno già posseduto (risparmiando così sulle spese di gestione) oppure lontano (per ridurre i danni in caso di tempeste locali). E altre volte si lamenta di non trovare più conduttori esperti. La crisi dell’agricoltura pregiata in Italia è provata anche da una disposizione imperiale, che imponeva ai politici una forte percentuale di proprietà terriera in Italia. Del resto il famoso vino Cecubo era scomparso dal mercato sia per l’inerzia dei produttori sia soprattutto per la folle idea di Nerone, che aveva iniziato lo scavo di un canale navigabile tra Ostia e la Campania, adatto al transito contemporaneo di due grosse navi (una specie di autostrada fluviale a due corsie) proprio nella zona di produzione. Eppure, pochi anni prima del nipote, Plinio il Vecchio poteva ancora riconoscere in Italia la coltivazione di due terzi delle ottanta specie di uve conosciute e, forse pensando al passato, poteva celebrare le meraviglie della produzione nella penisola. L’anno 121 a.C., a causa di una estate lunga e calda, tutte le specie avevano dato un vino di grande qualità. Conservato addirittura per duecento anni, era diventato sì imbevibile, ma era utile in piccolissime percentuali per tagliare vini più deboli. Nonostante queste meraviglie, alla fine della sua lunghissima esposizione dell’intero ciclo vitivinicolo, Plinio si domanda se è proprio il caso di affrontare tante complicazioni, quando la natura offre spontaneamente la bevanda migliore, che è l’ acqua.

Giornale di Brescia, 28.8.2003.