1. COME SI GIUNSE ALL’8 SETTEMBRE 1943. IL DRAMMATICO AUTUNNO
Il crollo del fascismo e i “45 giorni” di Badoglio Mussolini, nonostante l’accertata impreparazione militare e psicologica dell’Italia, di fronte ai grandi successi conseguiti da Hitler nella primavera del 1940, credendo ormai vicina la conclusione del conflitto, dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra (10.6.1940). Dopo vittoriose battaglie su diversi teatri di guerra, il cedimento italo-tedesco, sia nel nord-Africa, in Libia, sia in Russia, si profila netto tra l’autunno del 1942 e la primavera del 1943. In Italia si avverte che la guerra è perduta e l’opposizione al regime si manifesta clamorosamente negli scioperi del marzo 1943 nelle grandi industrie dell’Italia settentrionale. Il 10.7.1943 gli anglo-americani sbarcano in Sicilia. Il 25.7 il massimo organo del regime fascista, il Gran Consiglio, vota la sfiducia a Mussolini. Il re Vittorio Emanuele III dimette Mussolini e chiama il generale Pietro Badoglio a presiedere un governo di funzionari. Nei “45 giorni” tra il 25.7 e l’8.9 l’impacciata politica di Badoglio suscita sia la diffidenza di Hitler, che invia non richieste divisioni tedesche in Italia, sia degli alleati anglo-americani, che intensificano i bombardamenti a tappeto sulle nostre maggiori città, sia degli antifascisti, delusi della disgraziata dichiarazione “la guerra continua” e costretti ancora ad una semiclandestinità, persistendo la repressione della libertà di riunione e di stampa. Badoglio, preso tra la miopia del sovrano, le minacce di Hitler e la lentezza esasperata degli alleati a negoziare, non ha un chiaro programma d’azione. Il 10.8 si decide lo sganciamento dei tedeschi e si iniziano le trattative dirette con gli alleati. L’8.9 alle ore 19,45, Badoglio annuncia per radio l’armistizio, senza aver messo in atto le misure militari necessarie a prevenire la prevedibile reazione tedesca. L’imprevidenza e la disorganizzazione portano il paese alla catastrofe.
Settembre 1943: sfacelo ed eroismo La marina raggiunge le basi degli alleati; ma l’esercito, dislocato su uno scacchiere di eccezionale ampiezza, dalla Francia al Mar Egeo, senza direttive e senza capi, si sfascia. Il re e Badoglio lasciano Roma, raggiungono Pescara e lì s’imbarcano per Brindisi, per alcuni mesi salita al rango di capitale del “regno del Sud”.
Il 13.9 un commando di SS libera Mussolini, rinchiuso in un albergo sul Gran Sasso, e intorno all’ex-duce nell’Italia occupata dai tedeschi si ricostituisce il fascismo, il governo fascista. È il preannuncio della guerra civile. La fascista “Repubblica Sociale Italiana” (RSI) è detta anche “repubblica di Salò”, dal nome della cittadina del lago di Garda in cui risiede il governo fantoccio. Lo sfacelo dello Stato è impressionante, come quello dell’esercito regolare, ma splendidi e numerosi sono gli atti di eroismo in quel terribile settembre, in quelle prime settimane di “resistenza” spontanea e disperata. Il 21.9 si solleva Matera. Dal 27 al 30.9 insorge Napoli affamata e terrorizzata, costringendo i tedeschi ad evacuare la città. Nelle prime ore del 9.9 Roma si difende dall’attacco tedesco. Soldati delle divisioni Ariete e Piave e civili si battono con coraggio a Porta San Paolo e alla Cecchignola; il primo caduto della resistenza è un professore, Raffaele Persichetti. Nei pressi di Roma, a Torrimpietra, ben 22 ostaggi sono presi a caso tra la popolazione perché una bomba, esplosa non si sa come nell’accantonamento tedesco, uccide due militari. Il brigadiere dei carabinieri Salvo D’Acquisto, pur non avendo nulla a che fare con l’attentato, se ne assume la responsabilità per salvare la vita degli ostaggi.
L’episodio si ripete a Fiesole nell’agosto del 1944 ed ha per protagonisti tre carabinieri. In Puglia, Barletta si batte bene, ma è piegata e vede l’olocausto di 11 vigili urbani e 2 spazzini. Nei Balcani e nelle isole del Mar Egeo vi è oltre un quarto dell’esercito italiano, quasi 750 mila uomini. Nell’Egeo i presidi di Cefalonia, Lero e Corfù resistono; ma quando arriva l’ora della resa, è il massacro: i tedeschi passano per le armi 8.400 uomini della divisione Acqui a Cefalonia. Nei Balcani, a poco a poco, tra mille difficoltà i nostri soldati entrano a far parte delle formazioni partigiane degli ex-nemici; molti cadono, prese tra due fuochi, fra i partigiani e i tedeschi; 150 mila cadono prigionieri dei tedeschi.
In breve: in numerosissime località civili e militari si oppongono ai tedeschi dopo l’8.9; e nondimeno, l’assenza di un tempestivo ed organico piano d’azione, il disorientamento generale, lo stato d’animo assai diffuso tra i soldati del “basta con la guerra, tutti a casa” contribuiscono al successo della preordinata rappresaglia tedesca che si dispiega fulminea in tutta la sua ferocia. Oltre 600 mila soldati sono catturati e internati nei campi di concentramento in Germania.
L’incontro tra la “resistenza lunga” degli antifascisti e il “neoantifascismo” dei giovani Nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre è spontanea la reazione all’occupazione tedesca, ai rastrellamenti nazisti, all’ultima incarnazione del fascismo. In montagna si ritrovano ben presto gli sbandati, i renitenti alla leva fascista, i giovani pervenuti a un «neo-antifascismo tendenziale e generico» dalle esperienze disastrose della guerra fascista, quelli desiderosi dell’azione in quanto tale, ma anche i militanti nei partiti antifascisti e i più decisi assertori della «rivolta morale» alla dittatura e al neo-paganesimo razzista. La protesta spontanea è all’origine di scelte individuali di larghi strati di resistenti, ma non è lecito confondere il momento aurorale della resistenza con il suo effettivo sviluppo militare e politico. Non è concepibile una lotta partigiana senza la identificazione delle ragioni politiche di fondo della propria scelta. Senza il dibattito politico, senza l’apporto dei partiti antifascisti, senza il loro impegno nella politicizzazione delle forze resistenziali, senza la loro vigile presenza animatrice nelle fabbriche e nelle campagne, la resistenza non sarebbe mai stata la mobilitazione di tutto un popolo e non avrebbe avuto l’efficacia e la continuità che ebbe. Nel disfacimento generale degli organi statuali e delle forze armate nell’autunno del 1943, il Paese trova in sé la forza per uscire dal caos del «si salvi chi può», dalla rassegnazione passiva, dall’attendismo inerte e inizia la lotta armata contro l’oppressore e i suoi complici. «Noi combatteremo la nostra guerra, che non è la vostra guerra» dichiara con fierezza Ferruccio Parri nel primo incontro, a Lugano, con gli inviati delle potenze alleate (4.11.1943). Certo il nemico è lo stesso e la collaborazione con gli alleati è ovviamente necessaria e di primaria importanza, ma la parte degli italiani, per risorgere a dignità di popolo indipendente e di Stato democratico, non può essere delegata ad altri. Malgrado le differenze di esperienze e di generazioni, si operò quasi dappertutto la saldatura tra i superstiti combattenti dell’antifascismo «storico», irriducibili alle minacce e alle lusinghe del regime, fuoriusciti o prigionieri in patria, condannati al carcere o al confino e i nuovi combattenti, i resistenti, i giovani illusi e traditi dal fascismo. E così, mentre si lottava, spesso in condizioni disperate, si lavorò a prefigurare una visione etico-politica della nuova società, e quindi, a delineare, inevitabilmente, quelle idee programmatiche e quegli istituti che avrebbero dovuto segnare nella realtà storica il superamento dello Stato liberale e la sconfessione del totalitarismo, la fondazione dello Stato di diritto proteso ad attuare la libertà politica e la promozione dei diritti della persona umana a tutti i livelli. Ogni componente della resistenza, dal movimento «Giustizia e libertà» al Partito socialista, dai liberali ai comunisti, ai democratici cristiani, dette un suo specifico contributo alla causa comune e l’unità della resistenza ne fu la difficile e insieme preziosa risultante, sempre sostanzialmente conservata, sebbene sempre percorsa da una vivace e spesso esasperante lotta politica. L’unità della resistenza fu conquistata nel superamento delle divisioni tra i partiti stessi, per una eroica tensione morale, quella stessa per cui gli uomini si fecero intransigenti verso il comune nemico, perché intransigenti con la propria coscienza. In quel lavoro di incessante chiarificazione degli scopi della lotta, nel dibattito direttamente inserito nella realtà della lotta, il ruolo decisivo, nel Sud, a Salerno e a Roma, come nel Nord, fu indubitabilmente assunto con grande senso di responsabilità e avvedutezza politica dai capi dell’antifascismo «storico» e da quella classe politica che la dittatura totalitaria aveva combattuto «dal giorno stesso delle leggi eccezionali, con lo stesso impegno, con lo stesso spirito di sacrificio e, nella misura del possibile, con gli stessi metodi che la resistenza impiegò, più tardi, al momento dell’occupazione nazista» (L. Valiani).
Gli organi della resistenza politica sono, sin dall’inizio, i partiti antifascisti, usciti in parte dalla clandestinità il 25.7.1943. Essi confluiscono nel “Comitato nazionale delle correnti antifasciste”, che preme su Badoglio per il rilascio dal carcere dei detenuti politici, per l’allentamento del regime di polizia, per la fine della guerra a fianco della Germania e per la guerra contro Hitler. “L’alleanza tra l’Italia e la Germania – si affermava nell’o.d.g. del 2.9.1943 – è, per precisa confessione dei contraenti, l’alleanza di due regimi dittatoriali: caduto il regime fascista, l’alleanza è invalidata e l’Italia diventata libera ha diritto di riesaminare la sua posizione secondo gli interessi e gli ideali, non più di una fazione, ma di tutto il paese”. Dopo l’8.9 il “Comitato nazionale delle correnti antifasciste” si costituisce in “Comitato di Liberazione nazionale” (Cln) “per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” (I. Bonomi, “Diario”, 9.9.2943). In tutti i centri maggiori si costituiscono i Cln e tra essi ha una sua preminenza il Cln di Roma, simbolo del governo clandestino; dopo la liberazione di Roma sarà il Cln di Milano, divenuto “Comitato di liberazione Nazionale Alta Italia” (clnai), l’organo supremo di lotta e di guida di tutta l’Italia occupata. La struttura le Cln è paritetica, in quanto ogni partito ha in esso un numero uguale di rappresentanti, e le decisioni devono essere prese all’unanimità. Il 16.10.1943 al Cln di Roma si dibatte e si respinge la proposta del Partito Socialista e del Partito d’Azione, seguiti tiepidamente dal PCI, di proclamare la decadenza della monarchia: si vuol evitare ogni atto che possa “compromettere la concordia della nazione” e nello stesso tempo si insiste nel precisare che sarà il popolo stesso, a guerra finita, a “decidere sulla forma istituzionale dello Stato”. È una scelta difficile, ma coraggiosa ed opportuna, che evita una ulteriore ragione di conflitto fra gli italiani, pone le basi per una lotta unitaria al nazifascismo, avvia la soluzione veramente democratica del problema istituzionale. Quella decisione prevale per la fermezza dei rappresentanti della Democrazia Cristiana, affiancati dai demolaburisti e dai liberali.
2. IL DIBATTITO POLITICO E LA GUERRA PARTIGIANA SINO ALLA LIBERAZIONE DI ROMA (settembre 1943 – 5 giugno 1944)
Nell’Italia liberata: il regno del Sud, il congresso di Bari, la svolta di Salerno Nell’Italia liberata dagli alleati il governo Badoglio è schiacciato dalle tremende difficoltà della situazione e dagli impedimenti della Commissione Militare Alleata di Controllo. Il “regno del Sud” riesce nondimeno a segnare non pochi punti a suo vantaggio: la dichiarazione di guerra alla Germania (13.10.1943) e il riconoscimento alleato della “cobelligeranza” italiana, l’appoggio esplicito del governo inglese alla monarchia, il riconoscimento ufficiale da parte del governo sovietico (13.3.1944), la costituzione di alcune unità combattenti del risorto esercito (il Corpo Italiano di Liberazione, Cil), una maggior larghezza di aiuti economici da parte alleata, il trapasso all’amministrazione italiana delle province del Sud eccetto Napoli (11.2.1944) e nell’aprile del 1944 il trasferimento della sede del governo da Brindisi a Salerno. Finalmente il dibattito politico prende quota e si impone all’attenzione di tutti con il Congresso dei Comitati di Liberazione dell’Italia liberata, che si tiene a Bari (28-29.1.1944). È la più autorevole assise della resistenza nel Sud che rifiuta di salvaguardare la monarchia e anzi chiede “l’abdicazione immediata del re, responsabile delle sciagure del paese”. Il congresso è dominato dal filosofo Benedetto Croce, liberale, e dal conte Carlo Sforza, autorevole esponente del fuoriuscitismo antifascista e fervido repubblicano. Il problema è come accogliere ed insieme superare la pregiudiziale indisponibilità degli antifascisti a trattare con Vittorio Emanuele III, avviando nel contempo una soluzione non traumatica della questione istituzionale. La risposta viene da due iniziative parallele: la proposta De Nicola e la “svolta” comunista di Salerno. Enrico De Nicola, giurista napoletano, d’intesa con Croce e Sforza, elabora un nuovo modus vivendi tra antifascismo e corona: il vecchio re, il giorno stesso della liberazione di Roma, dovrebbe uscir di scena trasferendo i suoi poteri e le sue funzioni al figlio Umberto, nominato non successore al trono, ma “Luogotenente del regno”. Il 12.4.1944 il re, sia pure con riluttanza, si pronuncia pubblicamente in questo senso. Di contro al radicalismo del Partito d’Azione e del Partito Socialista prevale la direttiva della “tregua istituzionale”, la sola che permetta senza lacerazioni l’inserimento degli antifascisti nel governo e la mobilitazione di tutte le forze nella lotta al nazifascismo. Quest’orientamento riceve esplicita approvazione da parte dell’URSS. Il giornale ufficiale “Izviestia” il 30.3.1944 critica l’irrigidimento dei partiti antifascisti nei confronti del governo Badoglio. Il giorno seguente, il 1° aprile, l’eco è immediata al Consiglio nazionale del Partito Comunista Italiano (Pci), il quale approva una deliberazione collaborazionistica. Il segretario del Pci, giunto dalla Russia il 27.3.1944, Palmiro Togliatti, noto agli ascoltatori di Radio Mosca come Ercoli, si fa carico di imporre al partito “una svolta politica così clamorosa” (G. Amendola). Anche coloro che riconoscono l’opportunità del nuovo corso, non possono fare a meno di rilevare che esso è stato deciso a Mosca e attuato nel giro di pochi giorni, “senza aver consultato né le formazioni combattenti, né i partiti alleati” (G. Bocca). La “svolta di Salerno” spiega, insieme all’accoglimento della proposta De Nicola, l’ingresso dei rappresentanti dei sei partiti del Cln nel nuovo governo presieduto ancora da Badoglio e che si insedia a Salerno (21.4.1944). C’è però una scadenza precostituita: il governo si dimetterà alla liberazione di Roma.
La liberazione di Roma L’avanzata degli alleati verso Roma è molto più contrastata e lenta del previsto. Nel dicembre del 1943, a quattro mesi dall’armistizio, l’aggressiva difesa tedesca sulla “linea Gustav”, tra monte Cassino e l’Abruzzo, dà alla guerra in Italia un andamento di stile 1914-18, cioè di un’esasperante guerra di posizione. Finalmente, il 10 maggio, dopo l’inutile distruzione di Cassino, completato il concentramento delle forze, appoggiate da un’enorme potenza di fuoco (1 pezzo ogni 12 metri), si inizia l’attacco che in meno di un mese avrebbe portato alla liberazione di Roma. Il 23.3.1944 Roma aveva conosciuto la giornata più nera del suo calvario. In risposta ad un attentato a soldati tedeschi che transitavano in via Rasella, 335 prigionieri politici ed ebrei sono prelevati dalle carceri di Regina Coeli e dalle celle di tortura di via Tasso e massacrati in una cava arenaria tra le catacombe di Domitilla e san Callisto. È la strage delle Fosse Ardeatine. Tra le vittime un ragazzo di soli quattordici anni. L’incubo di Roman non cesserà che il 5,6.1944. Nessuno meglio di Federico Chabod, grande storico e valoroso partigiano egli stesso, ha colto il significato di quell’evento, in una pagina giustamente celebre. “All’indomani della liberazione di Roma – scrive lo Chabod – la popolazione della capitale si precipita in piazza San Pietro per acclamare il Santo Padre ed esprimergli la sua riconoscenza. Pio XII sarà chiamato “defensor urbis”. I romani ringraziano il Santo Padre perché la città non ha subito danni nella lotta fra alleati e tedeschi. In effetti il clero romano e il Vaticano svolgono durante questi mesi un’azione importante: approvvigionamento, soccorsi alla popolazione, ecc. Numerosi uomini politici perseguitati dai tedeschi vengono salvati e trovano rifugio nelle antiche chiese ed abbazie. Sempre mi torna in mente quando penso a quei giorni ciò che accadde nel V secolo, allorché le orde germaniche si riversarono nell’impero romano. Anche durante il periodo dell’occupazione tedesca, la chiesa splende su Roma, in modo non molto diverso da come era accaduto nel V secolo. Roma si trova, da un giorno all’altro, senza governo; la monarchia è fuggita, il governo pure, e la popolazione volge il suo sguardo a San Pietro. “Viene meno un’autorità, ma a Roma – città unica sotto ogni aspetto – ne esiste un’altra: e quale autorità!”.
La resistenza politica e militare nell’Italia occupata Dopo l’armistizio la situazione dell’Italia centro-settentrionale non è diversa da quella del Sud: liquidazione dell’esercito, razzie di uomini e di beni (tra le altre cose, la riserva aurea della Banca d’Italia, 120 tonnellate), deportazioni, reclutamento forzoso della manodopera, spietata caccia agli ebrei… Gli ebrei trovano rifugio in Svizzera e soprattutto nelle parrocchie, nelle famiglie amiche, nelle cascine di campagna; così che molti di essi sfuggono alla cattura. Ma su quanti sono presi pende un destino di morte. La Rsi tenta la ricostituzione dell’esercito; istituisce una nuova milizia di partito, la Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr); promette una Costituente, rinviata poi alla conclusione della guerra, ma frattanto propaganda i principi ispiratori del futuro Stato repubblicano condensati nei “18 punti di Verona”; approva il 13.11.1944 la socializzazione delle imprese private, cioè la compartecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (ma la cosa cade perché osteggiata dai tedeschi e derisa dagli operai). I tribunali speciali sono gli unici organi funzionanti. Il rinato fascismo esige i suoi riti vendicativi: i membri del Gran Consiglio che il 25.7.1943 votarono la sfiducia a Mussolini sono condannati a morte, e tra di essi c’è Galeazzo Ciano, il genero del duce, ex-ministro degli esteri (10.1.1944). Sono condannati a morte anche gli ammiragli Luigi Mascherpa e Inigo Campioni per avere difeso Lero e Rodi contro i tedeschi (maggio del 1944). Alla Rsi e ai suoi protettori si oppongono la bande partigiane. La resistenza arriverà a contare quasi 200 mila partigiani combattenti. Il partigiano è eterogeneo: vi sono unità guidate da ufficiali dell’esercito regio, unità di senza partito, unità autonome con forte prevalenza cattolica anche se aperte agli altri (ad esempio le “Fiamme Verdi” del bresciano) e vi sono le unità fortemente politicizzate, controllate dai partiti (le brigate Garibaldi del Pci, le brigate “Giustizia e libertà” dal Partito d’Azione, le “Brigate del Popolo” dalla DC, le brigate Matteotti dal Psiup). La fase di assestamento va fino alla primavera del 1944: le bande dell’ottobre-novembre del 1943 si danno un inquadramento più organico e tendono ad affrontare il nemico in operazioni sempre più vaste e meglio articolate. Momenti di grande rilievo in questa prima fase di lotta, in quanto miranti a collegare gli operai al movimento di liberazione nazionale, sono gli scioperi di novembre-dicembre del 1943 e lo sciopero generale del marzo 1944.
3. DAL 5 GIUGNO DEL 1944 AL 25 APRILE DEL 1945
Il governo dell’esarchia ciellenistica e le polemiche sulle funzioni e i limiti del Cln Con il ritorno della capitale a Roma, Vittorio Emanuele si ritira, il figlio Umberto ne assume i poteri in quanto ‘Luogotenente del regno’, il governo di Salerno si dimette. Il Luogotenente incarica l’on. Ivanoe Bonomi, designato dal Cln, di formare un governo di unità nazionale. Si chiude così la fase ‘badogliana’ e comincia quella propriamente ‘ciellenistica’, cioè dei governi di cui fanno parte i sei partiti del Cln. La formula, di cui il governo di Salerno segna l’avvio, è destinata a rivelarsi, attraverso i successivi ministeri, una tappa necessaria della ripresa politica italiana. Il governo, di cui fanno parte personalità di primo piano (Alcide De Gasperi e Giovanni Gronchi per la Dc, Togliatti per il Pci, Sforza per il Pda, Giuseppe Saragat per il Psiup, Croce per il Pli, Ruini per la “Democrazia del lavoro”), sancisce subito con un decreto (25.6.1944) la convocazione dell’Assemblea costituente a guerra finita; intensifica lo sforzo bellico con il Corpo di Liberazione (Cil) dell’esercito italiano; ristabilisce le libertà costituzionali nei limiti consentiti dallo stato di guerra; avvia i processi di epurazione nei confronti dei fascisti, dandone l’incarico all’azionista Sforza; lavora a riattivare gli organi amministrativi dello Stato. Incombe come un incubo la necessità di procurare approvvigionamenti per popolazioni affamate e malvestite e materie prime per le industrie. l’11.8.1944 nei pressi di Bergamo viene paracadutato il generale Raffaele Cadorna, il quale assume il comando del Corpo Volontari della Libertà (Cvl) costituito nel giugno a Milano dal Clnai, avendo a voce-comandanti ‘politici’ Ferruccio Parri (Pda) e Luigi Longo (Pci). Cadorna ha il compito di promuovere “l’unità di controllo e di direttive in tutta l’alta Italia”, mettendo d’accordo le formazioni autonome e quelle politicizzate in modo da evitare i danni di una guerra partigiana parallela. Il lavoro del governo è attraversato da una difficile crisi politica originata dal modo con cui azionisti e socialisti intendono le funzioni del Cln, volendo cumulare di fatto in esso ogni potere e a qualsiasi livello (questa concezione detta ‘giacobina’ sarà bene espressa dalla formula posteriore: “tutti i poteri ai Cln”). Nel novembre Bonomi si dimette e quando riesce a varare un secondo ministero (12.12.1944), i socialisti e gli azionisti si irrigidiscono nell’astensione, mentre Togliatti assume la vicepresidenza insieme a G. Rodinò (Dc). Nel dicembre del 1944, durante la crisi di governo e dopo il superamento di essa, la missione nel Sud del Clnai – missione composta dal presidente Alfredo Pizzoni, F. Parri, G. C. Paietta e E. Sogno – consegue un duplice importante risultato. Nei ‘protocolli di Roma’, firmati il 7.12.1944, il Clnai ottiene dagli alleati il riconoscimento della sua funzione politica, amministrativa, militare, e del compito di “riunire tutti gli elementi che svolgono attività nel movimento della resistenza”. In un protocollo aggiuntivo del 26.12.1944 firmato da Bonomi e da Paietta, essendo già ripartiti per il Nord gli altri membri della missione, si dichiara: “Il Clnai accetta di agire come delegato del Governo italiano e di rappresentarlo nella lotta contro i fascisti ed i tedeschi nell’Italia non ancora liberata”; ma si ribadisce con estrema chiarezza che “il Governo italiano è la sola autorità legittima in quella parte d’Italia che è già stata, o sarà in seguito, restituita dal Governo militare alleato”.
Tuttavia sui poteri dei Cln ci sarà spesso battaglia, sia a Roma, dove si propone un congresso nella capitale di tutti i Cln, sia a Milano. Quando però il Pci insiste perché i Cln comprendano anche i rappresentanti delle cosiddette ‘organizzazioni di massa’ controllate dai comunisti, allora anche i socialisti respingono la proposta, che viola il postulato ciellenistico della pariteticità e tende ad accrescere artificiosamente il peso della rappresentanza del Pci. La posizione diversa ed alternativa a quella delle sinistre è costantemente espressa dalla Dc. Per i demo-cristiani i Cln sono mezzi insostituibili di collaborazione tra i partiti in una situazione di grave emergenza e di lotta, ma non sono essi i soli organismi politici, né in essi si deve concentrare l’esercizio del potere. Non si tratta di porre il popolo dinanzi a soluzioni precostituite, quanto di far maturare nella coscienza di un paese profondamente diviso e di far consacrare dal libero consenso dei cittadini i frutti del momento rivoluzionario. La democrazia, come pluralità effettiva e rappresentanza di forze diverse, proprio perché fondata sul suffragio universale, assegna alle forze popolari un ruolo “prevalente” e pertanto non può essere concepita come avente un mero valore strumentale rispetto a qualcosa d’altro.
La liberazione di Firenze, le repubbliche partigiane e l’offensiva nazifascista L’estate è propizia a chi vive in montagna. I mesi estivi del 1944 vedono ingrossarsi l’esercito partigiano. Si pensa ad una conclusione prossima del conflitto, anche perché motivi per sperare non mancano: gli alleati sbarcano in Francia, in Normandia (6.6.1944); in luglio gli anglo-americani sono in Toscana, liberano l’Abruzzo e gran parte delle Marche; i russi dilagano in Romania e in Bulgaria. E tuttavia la speranza è in forte anticipo sul tempo. È ora che l’armata partigiana conosce i suoi maggiori successi e giunge a dar vita alle sue ‘zone libere’, una quindicina, a cominciare da quella di Montefiorino, nel modenese, passata in mano dei partigiani il 17 giugno. Nelle ‘repubbliche partigiane’ si torna a discutere, a votare, a sperimentare l’autogoverno, la tentazione della facile popolarità. A fine estate l’esperienza politico amministrativa delle ‘piccole repubbliche’ si ripete su scala maggiore nelle ‘grandi repubbliche’ dell’Ossola, della Carnia e dell’Alto Monferrato. Il 22.8 un altro splendido successo corona l’iniziativa partigiana: Firenze insorge e si libera da sola, prima che giunga l’esercito alleato. Poi l’avanzata alleata sul fronte italiano ristagna, lungo la ‘linea Gotica’ tra La Spezia e Rimini e possono essere ritirate dal fronte numerose e consistenti forze per muovere all’attacco dei partigiani e ristabilire così i collegamenti con la Svizzera, la Francia, l’Austria. La grande offensiva antipartigiana, durò tutto l’autunno del 1944. Il prologo al dramma era stato nel settembre la durissima battaglia del Monte Grappa, in cui la resistenza ad oltranza si rivelò un errore generoso pagato assai caro: 171 impiccati, 603 fucilati o caduti in combattimento, 800 deportati. La seconda offensiva antipartigiana in Carnia, in novembre, rende ancor più tragico il bilancio delle perdite. In ottobre, frattanto, una dopo l’altra, cadono le repubbliche partigiane. I fascisti esultano e lanciano un’accorta campagna psicologica con appelli alla pacificazione, al ritorno a casa e persino a possibili intese per il futuro del paese. Anche chi non crede ad una vittoria finale del nazifascismo, rischia di lasciarsi prendere, sia pure per ragioni umanitarie, da un clima pericolosamente “attesista”, nel miraggio di un trapasso di poteri senza lotta, aspettando la liberazione da parte degli alleati senza affrontare i sacrifici dell’iniziativa insurrezionale. Il Cln reagisce vigorosamente all’attendismo e riafferma la sua volontà insurrezionale e la direttiva della ‘resa senza condizioni’. Frattanto la polizia nazista e fascista mette a segno due colpi grossi: a fine ottobre cattura a Milano l’intera direzione clandestina della Dc per l’alta Italia e il 31.12 arresta Parri. Il 13.11, quando l’avanzata alleata sul fronte italiano si è del tutto esaurita, mentre infuria la repressione antipartigiana e si combatte furiosamente dalle Langhe al Friuli, viene trasmesso il ‘proclama’ del generale Alexander. Si chiedono ai partigiani sabotaggi, azioni di disturbo, informazioni,; ma si ordina di “cessare le operazioni organizzate su vasta scala”. Il proclama suona come un ordine di impossibile smobilitazione. Esplodono allora violenti il sospetto e il risentimento dei partigiani. C’è chi persino parla del segreto disegno alleato di lasciar massacrare i partigiani; ma, a parte l’errore psicologico del proclama, ci sono fatti nuovi politici e strategici che spiegano la situazione:
a) Alexander avrebbe voluto avanzare, puntando addirittura su Lubiana per scompigliare il sistema difensivo tedesco, ma gli erano state sottratte ben 6 divisioni per impiegarle nella Francia meridionale;
b) dopo lo sbarco in Normandia (6.6.1944) la posta grossa gli alleati la giocano in Francia, in cui impegnano anche le riserva, per cui il fronte italiano diventa inevitabilmente secondario;
c) d’inverno occorre senz’altro ‘sfollare’ la montagna e restarvi in forze significa esporsi al rischio grave dell’annientamento;
d) in attesa della primavera la lotta partigiana non può non adeguarsi al ritmo, ormai assai ridotto, delle operazioni militari alleate sul fronte italiano.
Il 1945: la ripresa e l’insurrezione vittoriosa
Col nuovo anno l’americano Mark Wayne Clark sostituisce al comando in Italia l’inglese Alexander a torto considerato ostile ai partigiani. Da parte alleata cominciano i grandi lanci di viveri, armi e munizioni. Sul finire dell’inverno il grosso dei partigiani riguadagna la montagna. Si torna a combattere, ma con una superiore organizzazione, spesso con genialità strategica (come nella prima e nella seconda battaglia del Mortirolo, tra la Valtellina e la Valcamonica, il 22-27.2 e il 10-26.4). Il plenipotenziario tedesco in Italia, K. Wolff, avvia trattative per la resa separata delle truppe tedesche dal fronte sudoccidentale e, come prova di buona volontà, consegna Parri (7.3). A Caserta, in Campania, Cadorna e Parri discutono con il comando alleato in Italia le disposizioni per la resa dei nazifascisti, la difesa degli impianti industriali del Nord, la situazione della Val d’Aosta. Ma la zona in cui la situazione sembra senza una via d’uscita è quella del confine orientale, essendo scoperte le mire annessionistiche di Tito, sostanzialmente condivise dai garibaldini della “Natisone”.
I comunisti abbandonano il Cln per aderire al fronte sloveno, poi propongono un comitato esecutivo destinato ad assumere l’amministrazione di Trieste. La verità è che in questo settore sono in collisione gli interessi nazionali e la subordinazione a interessi ideologici molto evidenti, e “l’alleanza tra gli slavi e i garibaldini è un fatto reale” (G. Bocca). Lo sciopero ‘pre-insurrezionale” (20.3) parte dalla Lombardia e si estende ad altre zone dell’Alta Italia. Il 5.4 riprende l’avanzata degli alleati sul fronte tirrenico e su quello adriatico. Il 22.4 Bologna è libera, il 23 gli alleati raggiungono il Po, il 24 il Clnai lancia l’appello all’insurrezione e quel giorno stesso Genova è vittoriosa sulle forze tedesche. Il 25 insorgono Milano e Torino.
“La mobilitazione della classe operaia e il convergere delle unità partigiane sui grandi centri sono due momenti culminanti della battaglia insurrezionale” (M. Legnani). Mussolini, dopo un fallito tentativo con gli anglo-americani, cerca disperatamente il 25.4 a Milano, in Vescovado, un accordo con il Cln. Ma questa strada gli è sbarrata. Egli allora abbandona Milano già insorta e si accoda ad una colonna tedesca diretta a Como. In fuga verso la Svizzera, Mussolini è riconosciuto, e in esecuzione della condanna a morte già emanata dal Clnai, è fucilato a Dongo (28.4). La resistenza, dopo 18 mesi di martirio e di lotta, si fa in quegli ultimi giorni d’aprile festa di popolo.
La Voce del Popolo, 1985.
L’appello del 18 giugno 1940
La resistenza è fenomeno europeo, anche se l’Asia conosce qualcosa di analogo nei confronti dell’espansione imperialistica del Giappone. L’impero del Sol Levante, infatti, tra il 1942 e il 1943 ha operato conquiste tali da controllare una superficie di 8 milioni di Kmq, dalle isole Salomone alle porte della Mongolia, e una popolazione di 450 milioni. Il Giappone, però, nella sua propaganda usa armi ben più efficaci che non lo schiavismo programmatico dell’ordine nuovo hitleriano. Il Giappone fa leva sulla lotta al colonialismo europeo, sull’indipendenza e sulla leadership mondiale della “Grande Asia”, sulla prospettiva economica della ‘co-prosperità’ (ogni paese produrrà ciò che conviene meglio alle sue possibilità e riceverà dagli altri quello che gli manca).
In Europa, dopo lo smembramento della Polonia, concordato tra la Germania nazionalsocialista e la Russia comunista, legati dal patto di non aggressione del 23.8.1939, la Germania rovescia il suo enorme potenziale bellico sull’Occidente, occupando nella primavera del ’40 la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia, il Belgio. Il crollo della Francia è pauroso. Un generale che allora non era affatto una figura di primo piano, Charles De Gaulle, dai microfoni di Radio Londra, il 18.6.1944, prima ancora che l’armistizio sia concluso, ma con la certezza che lo sarà, e sarà disonorevole, lancia il suo celebre appello ai francesi perché inizino la ‘resistenza’ all’occupante nazista. La Francia, che pure conosce la diserzione congiunta dei filonazisti e di tanta parte dei comunisti, essendo allora Hitler alleato del dittatore sovietico, nella misura in cui il governo della zona non occupata, il governo di Vichy, retto dall’ottantaquattrenne maresciallo Henry Philippe Pétain si mostra impotente o connivente con il vincitore, si avvicina a De Gaulle. L’esercito dei resistenti toccherà i 150 mila maquisars. Due fatti, nel difficile inizio della resistenza, ne costituiscono la premessa più diretta: la ‘battaglia d’Inghilterra’ e la ‘Carta Atlantica’. Quando Hitler domina l’Europa, l’Inghilterra rimane sola a combattere per l’onore stesso dell’umanità e per la sua sopravvivenza. Tra l’agosto e l’ottobre del 1940 Hitler crede di costringere l’Inghilterra a trattare attaccandola con terrificanti bombardamenti. Ma la grande battaglia aerea è vinta dall’Inghilterra: la Germania non riesce ad assicurarsi il dominio dello spazio aereo inglese e, pertanto, il progettato sbarco oltre la Manica diventa ineseguibile. È la prima sconfitta della Germania nazista! L’altro evento di grande rilievo per il movimento resistenziale di ispirazione democratica è costituito dalla ‘Carta Atlantica’.
Gli Stati Uniti d’America sono ancora fuori dal conflitto (vi entreranno dopo il proditorio attacco nipponica di Pearl Harbour del 7.12.1941), ma il presidente Franklin D. Roosevelt ne ha fatto ‘l’arsenale della democrazia’. Roosevelt si incontra col premier britannico Winston Churchill nella baia di Terranova ed insieme elaborano e proclamano i principi della ‘Carta Atlantica’, a cui deve ispirarsi una coerente contrapposizione al nazifascismo e la prospettiva del dopoguerra (14.8.1941).
L’impero nazista
Le nazioni europee nei rapporti con la Germania nazista possono suddividersi in tre categorie: protettorati, territori occupati, alleati. I ‘protettorati’ sono direttamente soggetti al Reich e sono governati da alti personaggi nazisti. I ‘protettorati’ sono costituiti in Boemia-Moravia, in Polonia e in Ucraina. I paesi ‘occupati’ sono: Norvegia, Danimarca, Olanda, parte della Francia, Jugoslavia, Grecia. In questi due ultimi paesi ci sono, fino all’8.9.1943, in qualità di occupanti anche gli italiani. Il comandante militare dirige le truppe di occupazione, emette ordinanze, controlla le decisioni dell’autorità locale. In Danimarca il governo locale rimane al suo posto, pur distanziandosi il più possibile dall’occupante. I governi legali di Norvegia, Belgio, Olanda si rifugiano a Londra, quello greco al Cairo. In Norvegia il capo del partito nazista, Quisling, dà vita ad un governo di piena collaborazione con i tedeschi: di qui il nome di “Quisling” ai traditori filonazisti di qualsiasi nazionalità. I cosiddetti ‘alleati’ del grande Reich sono l’Ungheria, la Slovacchia, la Romania, la Bulgaria, la Croazia. Ma anch’essi diventano satelliti dell’impero hitleriano per la presenza di presìdi tedeschi, per l’allineamento nell’antisemitismo, per la presa del potere da parte di partiti fascisti.
L’alleato principale della Germania è l’Italia; ma anch’essa, dopo il fallimento nella guerra della Grecia (28.10.1940 – 23.4.1941), è declassata a satellite. L’armistizio dell’8.9.1943 unisce gli italiani al calvario del resto dell’Europa occupata e vede la soggezione totale ai tedeschi, malgrado le velleità di alcuni, nella Rsi.
Collaborazionismo, attendismo, resistenza
Come reagiscono le popolazioni occupate alla creazione dell’Europa secondo l'”ordine nuovo” di Hitler? In ogni paese vi sono essenzialmente tre atteggiamenti: la collaborazione, l’attendismo, la resistenza. I collaborazionisti sono reclutati tra i filofascisti dei movimenti di destra, già operanti prima dello scoppio della guerra, così come tra coloro che si adeguano al dominio tedesco per paura o per calcolo.
L’attendismo è l’atteggiamento della grande maggioranza che giudica severamente ogni specie di rapporti con i tedeschi, resiste passivamente, ascolta radio Londra e lotta duramente per la sopravvivenza del nucleo familiare di cui fa parte, tra bombardamenti, retate, rappresaglie. La resistenza attiva è la scelta di una minoranza, che però può agire con efficacia solo grazie alla solidale copertura e agli aiuti concreti della popolazione della zona in cui opera. Ne fanno parte giovani renitenti ai bandi di reclutamento dei vari ‘governi Quisling, patrioti esasperati dall’oppressione nazista, coscienze religiose che rifiutano il neopaganesimo dello stato totalitario. I partiti comunisti entrano massicciamente nella lotta, ma solo dopo il 22.6.1941, quando Hitler attacca la Russia e viola il patto dell’agosto 1939 cogliendo di sorpresa Stalin. L’azione resistenziale è multiforme. Si organizza la fuga di gente in pericolo verso i territori neutrali o alleati. Si pubblica e si diffonde, con grave rischio, la stampa clandestina: in Polonia si contano quasi mille giornali clandestini e in Francia la tiratura tocca i due milioni di copie al mese nel 1944. Si costituiscono ‘reti’ di rifornimento, di collegamento e di soccorso, con l’insostituibile, forte partecipazione delle donne; ma nulla è stabile e si deve esser pronti a ricominciar tutto da capo dopo un tradimento o una confessione estorta con la tortura. Punto di massima esplicazione della resistenza è la guerriglia armata, dietro le linee tedesche, con azioni di sabotaggio, insediamenti di piccole ‘zone liberate’ e talora vere e proprie battaglie. Particolarmente vasta e dura è la lotta resistenziale in Jugoslavia, ben presto egemonizzata dal comunista Josip Broz, detto Tito. Essa registra altissime perdite, ma riesce a liberare il paese da sola (l’aiuto dell’Armata Rossa è limitato alla liberazione di Belgrado). La resistenza russa ha caratteri a sua volta originali. Stalin si appella al patriottismo russo, mette tra parentesi l’ateismo come dottrina ufficiale dello Stato sovietico, nel 1943 scioglie persino il Komintern, l’internazionale comunista. Ma il miglior alleato di Stalin è la crudeltà razzista di Hitler, il suo folle disegno di considerare tutti gli slavi una sottospecie umana e la guerra come uno spietato massacro razziale. Ma prima di allora si era vista una guerra tanto sistematicamente ‘totale’. La lotta partigiana si organizza e si scatena soprattutto a partire dall’estate del 1942, intralciando sia le offensive che le ritirate tedesche (in particolare con la ‘guerra delle rotaie’). Dopo la vittoria di Stalingrado 82.2.1943) il ‘patriottismo russo’ cede nuovamente il passo al ‘patriottismo sovietico’ e si riscopre ‘il genio’ militare e politico di Stalin. In ogni modo la sconfitta tedesca ha un grande significato perché rafforza il convincimento che Hitler non può più vincere. Ma ancora più degli slavi sono odiati, braccati, internati, eliminati gli ebrei. L’antisemitismo è la connotazione a cui il nazismo non ha mai rinunciato. La guerra suggerisce ora l’attuazione del più orrendo genocidio che la storia conosca. Dal 15.9.1941 tutti gli ebrei residenti nell’impero nazista devono portare la stella di Davide e la scritta ‘giudeo’.
È il preludio alla deportazione in massa. Il 7.12.1941 Hitler adotta il decreto Nacht und Nebel (notte e nebbia). ‘Notte’ vuol dire che la punizione è morte; ‘nebbia’ che l’operazione deve compiersi nel più assoluto segreto. Nasce allora l’organizzazione scientifica dello sterminio di massa: campi con camere a gas che sembrano docce, forni crematori che senza interruzione bruciano cadaveri.
In Europa si contano, alla fine della guerra, 1188 lager di tipo diverso, in massima parte concentrati in Germania, Polonia e Russia. Il campo di sterminio più tristemente celebre è quello di Auschwitz, ove passano per il camino degli inceneritori oltre 4 milioni di prigionieri sterminati in tutta la rete dei lager, 6, la metà, sono ebrei. Tra gli episodi più sconcertanti e memorabili della resistenza europea vanno segnalati: la distruzione della località ceca di Lidice dal 10.6 all’1.7 dopo l’attentato a R. Heydrich, vice protettore del Reich per la Boemia e la Moravia; l’insurrezione nei mesi di agosto e settembre 1944 dell’armata segreta nazionale di Varsavia, mentre l’armata rossa, già attestata sul Bug, in prossimità della capitale, non interviene e non aiuta gli insorti nemmeno con rifornimenti aerei: e ancora in Polonia l’eroica resistenza dei 400 mila ebrei polacchi del ghetto di Varsavia (dal 19.4 al 16.5.1943) fino al totale annientamento.
La resistenza tedesca al nazismo
La lotta al nazismo è particolarmente difficile ed eroica in Germania; ma è errato credere che essa sia solo una scelta di singoli e quasi “una causa privata” (H. Böll). Tra gli altri gruppi alla resistenza prendono parte la sinistra democratica, la Rote Kapelle di tendenza comunista, i moderati di C. Goerdeler. Del gruppo Goerdeler fa parte il colonnello Claus von Stauffenberg, che il 20.7.1944 attenta alla vita di Hitler nel quartier generale di Rastenburg. I collegamenti dei congiurati sono assai più vasti di quel che si pensa se 5 mila persone sono coinvolte nel complotto e giustiziate. Tuttavia la testimonianza più alta, e insieme più capace di diffusione tra il popolo, è data dalla coscienza cristiana della Germania. Qui basti ricordare la lunga lotta del filosofo e pedagogista Friedrich W. Foerster, le cui opere furono pubblicamente bruciate dai nazisti; l’intransigenza del gesuita tedesco Friedrich Muckermann – perseguitato e in pericolo di vita anche all’estero, sfuggendo di continuo agli agenti nazisti – e della sua diffusissima rivista clandestina Der deutsche Weg (La via tedesca), l’intima ripugnanza all’ideologia della morte del pensatore cattolico Romano Guardini e dei due vasti movimenti che lo hanno per maestro, il movimento liturgico e il movimento biblico; l’olocausto di oltre 4 mila sacerdoti cattolici nei lager dove erano finiti per ribellione alle leggi razziali, la decapitazione nel 1942 di Hans e Sophie Scholl, gli studenti di Monaco animatori del gruppo della “Rosa bianca”; l’attività cospirativa e la protesta della ‘chiesa confessante’, a cui appartiene il teologo Dietrich Bonhoeffer, impiccato il 9.4.1945.
La riscoperta di un nuovo e più alto senso di patria
I caratteri essenziali della resistenza italiana possono essere così sintetizzati:
– la resistenza fece riscoprire agli italiani un nuovo e più alto senso di patria, contro l’esaltazione retorica e bellicistica del nazionalismo fascista, in connessione diretta con gli ideali del nostro risorgimento;
– la resistenza fu popolare, unitaria, pluralistica;
– la resistenza non si svolse solo nei territori occupati dai nazisti, ma anche nei campi di concentramento.
Nella resistenza il martirio che aveva nobilitato tante pagine del nostro risorgimento, dallo Spielberg a Belfiore, diventò regola e non eccezione, rischio consapevolmente assunto, atto di fede in una umanità migliore, in una patria finalmente libera dal dispotismo. Lo testimoniano le lettere dei condannati a morte, con la semplicità, la carica umana, la fierezza di coloro che le scrissero. Franco Balbis, torinese, ufficiale in servizio permanente effettivo, scrive: «Con la coscienza d’aver sempre voluto servire il mio Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone d’esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta. per il bene e per l’avvenire della nostra Patria, per la quale muoio felice!». E Mario Batà, romano, studente in ingegneria, con una sola espressione lapidaria dice ai genitori: «Perdonatemi se ho preposto la Patria a voi». Il maestro elementare Giacomo Cappellini, cattolico, bresciano, medaglia d’oro al valor militare: «Muoio cosciente d’aver compiuto il mio dovere sino all’ultimo, tutto dedito ad un ideale: la Patria». L’operaio comunista Guido Galimberti, bergamasco, non si esprime in termini diversi: «Care bimbe, ora non potete leggere questo mio ultimo saluto, ma lo leggerete un tempo nel quale potrete comprendere; allora apprenderete in questo foglio la morte di vostro padre e saprete che è morto da soldato e da italiano e che ha combattuto per avere un’Italia libera. Spero, che quando sarete grandicelle mamma vi farà imparare ad amare l’Italia. L’amerete con tutto il cuore, addio».
La resistenza fu popolare, unitaria, pluralistica
La nostra resistenza ebbe un carattere unitario e insieme pluralistico. «Farne un blocco unitario significa porre un ostacolo insuperabile alla sua individuazione storica», ha ammonito il Quazza in un suo importante contributo: significa allontanarsi dal terreno della storia per collocarsi nella sfera del mito. Il movimento partigiano, ben lontano dal realizzarsi come monopolio esclusivo di una classe, come blocco appunto, trovò aderenti e sostenitori in ogni ceto.
Tutte le classi sociali hanno partecipato alla lotta. Sono note le cifre relative al Piemonte, dove, secondo lo Chabod, la composizione sociale delle forze partigiane è così configurabile: operai 30,51 per cento, contadini 20,39 per cento, classi medie 29,83 per cento, artigiani 13,63 per cento, agiati 5,64 per cento. Se le indagini del grande storico, che fu anche valoroso partigiano, hanno portato ad un simile risultato in una regione ad alto sviluppo industriale, quale il Piemonte, si deve ammettere che altrove la presenza dei contadini, degli artigiani e delle classi medie sia stata ancora più incisiva. Questa semplice osservazione chiarisce il carattere polemico e propagandistico, ma non storico, di quei tentativi di accapparramento della lotta resistenziale come espressione esclusiva o quasi di una sola parte, di una sola classe, di una sola ideologia.
In realtà la resistenza poté affermarsi come movimento di massa per il convergere di più fattori, tutti decisivi. Essi sono: il risveglio civile del mondo contadino, la massiccia presenza cattolica, la partecipazione attiva della donna al moto resistenziale, la lotta degli operai nei luoghi di lavoro, il «no» al nazifascismo degl’internati militari italiani nei Lager nazisti.
La resistenza italiana ebbe l’appoggio del ceto contadino. Non mancarono, certo, malumori e isolati episodi di ostilità fra i partigiani e le popolazioni delle campagne. Non si capisce, però, la lotta partigiana senza la solidarietà operante e rischiosa dei contadini; i quali fecero di più: presero essi stessi le armi contro i nazifascisti. La partecipazione diretta dei contadini alla guerra partigiana è stato, secondo il Salvemini, «il fatto più importante della resistenza». Per la prima volta la gente di campagna rompeva con una sua tradizione reazionaria e antirisorgimentale. L’ingresso dei contadini nella storia del nostro «secondo risorgimento» divenne possibile e fecondo grazie alla partecipazione cattolica alla resistenza e al sostanziale appoggio che i sacerdoti diedero ai partigiani, che ai loro occhi erano, in un modo del tutto evidente, e addirittura fisico, dei perseguitati e quindi delle persone da proteggere e da aiutare. I cattolici italiani – ed in primo luogo coloro che militavano nella Federazione Universitaria Cattolici Italiani (Fuci) e nel Movimento Laureati di Azione Cattolica, da una parte, e dall’altra le élites operaie del sindacalismo cristiano e dell’anti-fascismo di origine popolare – giudicarono di non potersi tenere in disparte in una lotta che impegnava così drammaticamente la coscienza morale.
La resistenza italiana oltre la particolare organizzazione unitaria che seppe darsi, ebbe un altro carattere distintivo tutto suo: la lotta di grandi masse sui luoghi di lavoro. nell’Italia del Nord, nelle sue città industriali e nelle campagne emiliane, cioè in un ambiente economicamente sviluppato, le forze della resistenza non avrebbero potuto concentrarsi tutte sui monti, abbandonando le fabbriche e gli altri luoghi di lavoro al nemico. Occorreva sostenere la lotta anche sui posti di lavoro, facendo leva in primo luogo sul movimento operaio, e in modo speciale sulle “Squadre armate patriottiche” (Sap) e sui “Gruppi di azione patriottica” (Gap), forza ausiliaria dei partigiani. «In nessuno dei Paesi occupati dai nazisti, il movimento operaio ebbe un’importanza analoga all’Italia del Nord» (G. Carocci). Va ascritto in massima parte alle Sap e ai Gap l’aver impedito ai tedeschi nel 1944 di asportare in Germania i macchinari delle fabbriche e nel 1945 di distruggerli, garantendo così una rapida ripresa in alcuni settori chiave dell’economia nazionale all’indomani del 25 aprile.
La resistenza non si svolse solo nei territori occupati dai nazisti, ma anche nei lager
Infine non va dimenticato che il primo eloquente referendum, con esito plebiscitario in senso antifascista, fu per così dire tenuto proprio nei campi di internamento in Germania, nei Lager tedeschi, in cui finì tanta parte di un esercito senza capi e senza un qualsiasi piano d’azione. La «non collaborazione» fu perseguita con fermezza dalla quasi totalità dei 650 mila prigionieri di cui solo l’uno per cento aderì al risorto fascismo della repubblica di Salò. Piuttosto che servire il nazismo e i suoi complici, si preferì andare incontro alla fame, al freddo, alle pestilenze, a tutti gli orrori dei campi di concentramento, rinunciando all’agognata prospettiva del ritorno in patria. Il no dei deportati al nazifascismo fu atto che si rinnovò ogni giorno, vincendo la tentazione degli affetti e l’urlo dei bisogni più elementari ferocemente compressi. E dietro ognuno dei 650 mila internati ci sono altrettante famiglie ostili all’oppressore e ai suoi sgherri, sì che la continuità tra la resistenza disarmata nei lager e quella armata in patria appare efficace e ricca di conseguenze.
L’eredità della resistenza
La ricerca storica più spassionata ha accertato, insieme a tante luci, talune ombre. Si pensi, ad esempio, ad uno dei più amari episodi della guerra di liberazione: il 7.2.45, nelle malghe di Porzus, in Friuli, un intero comando delle divisioni Osoppo, le formazioni partigiane facenti capo alla Democrazia cristiana e al Partito d’azione, fu catturato e barbaramente passato per le armi, non dai nazifascisti, ma «da mano fraterna nemica», come si legge nel registro dei Caduti dell’Anpi di Udine, da un comando gappista di 100 garibaldini. Ma il giudizio su quel periodo tremendo ed eroico è già acquisito: esso fu la primavera della nostra patria ed ebbe un significato umano e nazionale altissimo. La resistenza fu una grande speranza per tutto quel complesso di programmi e orientamenti che accompagnarono la lotta armata. Certo si deve sceverare il grano dal loglio, i vagheggiamenti utopistici e le formule mitiche dai propositi concreti e dalle oggettive possibilità. Ma quella speranza non fu un vaneggiamento di illusi.
L’eredità della resistenza è attestata dall’avvento della repubblica e dalla Costituzione nell’aprile del 1945; la libertà fu riconquistata. La resistenza significò l’acquisizione da parte dei ceti popolari di quella patria che prima appariva loro estranea e nemica. Fu un bene che al centro delle elaborazioni politiche della resistenza ci fosse il problema di «quali dovevano essere le condizioni e le forme dell’esercito popolare del potere in una società moderna» e che l’equazione tra democrazia e pluralismo sovrastasse ogni mistificazione totalitaria. Max Salvadori nell’«Avvertenza» alla sua Breve storia della Resistenza italiana (Firenze, Vallecchi 1974) scrive: «Oggi più che mai sono convinto che la peggiore delle trentasette o trentotto democrazie in cui vi è sufficiente libertà per agire al fine di avere meno oppressione, meno disuguaglianza, meno conformismo, è preferibile alla migliore delle cento e più dittature in cui vive il più dell’umanità ed in cui, non essendovi libertà, non è possibile lottare né per l’eguaglianza né per la giustizia».
A Brescia la resistenza nasce da un vasto retroterra, preceduta da un lungo lavoro di preparazione silenziosa, sul piano della spiritualità e della cultura, al rifiuto della dittatura e del neo-paganesimo razzista. Le violenze fasciste del 1926 contro le organizzazioni cattoliche, il sospetto e l’ostilità reciproci fra il regime e il mondo cattolico bresciano fecero sì che qui le illusioni e i compromessi non attecchissero, se non marginalmente. Spento il dibattito politico, disciolti i partiti, l’epicentro del «no» al regime fu la Pace, in cui emergeva per coraggio e forza spirituale P. Giulio Bevilacqua. Ma col padre filippino erano molti ad essere in sintonia, a cominciare da quei laici, primo fra tutti Andrea Trebeschi, pronti a rischiare tutto pur di non rinunciare alle proprie convinzioni. Agirono in Brescia in senso antifascista o a-fascista anche altre spinte ideologiche e propaggini clandestine dei disciolti partiti, ma nel ventennio fu la chiesa a dar vita a un clima di diffidenza, di riserva e di opposizione popolare al fascismo. Non mancarono momenti di incrinatura a vantaggio del regime come, ad esempio, quando Mussolini si disse pronto a difendere l’Austria dalla minaccia hitleriana, dopo l’assassinio del cancelliere Dollfuss, e durante la guerra d’Etiopia; ma la nebbia presto si diradò. L’alleanza con nazismo e l’allineamento del regime su posizioni razziste segnò a Brescia l’aperta e definitiva rottura tra coscienza cattolica e fascismo. Di qui la disponibilità di tanti giovani, preparati e generosi, ad assumersi subito, all’indomani dell’8 settembre 1943, i rischi e le responsabilità che la scelta partigiana comportava.
La lotta cominciò a Brescia tra il settembre e l’ottobre del 1943, con i 300 partigiani operanti sul monte Guglielmo, col prelievo di armi dalla “Beretta” di Gardone V.T., con la formazione dei gruppi partigiani collegati tra loro e guidati, in Val Camonica, da Romolo Ragnoli e in Val Sabbia da Giacomo Perlasca e Mario Bettinzoli.
Con Salò capitale della Repubblica Sociale Italiana e quartier generale di tutte le forze militari e di polizia dei nazi-fascisti, Brescia fu condannata a sperimentare per venti interminabili mesi la repressione più massiccia e crudele. Ma la terra di Tito Speri non si smentì. Quello che fecero i giovani, le donne, i contadini, gli operai, la gente di montagna, gli studenti, i sacerdoti, ha del leggendario. La mobilitazione degli animi fu generale ed ebbe come epicentri la parrocchia e la fabbrica.
Le parrocchie, l’Azione cattolica diocesana, ambienti religiosi e conventi tramutati in centri di mobilitazione operosa. E fin dall’inizio fu alto il prezzo del sacrificio. In pochi mesi, tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944, caddero nelle mani del nemico quasi tutti i primi generosi iniziatori del movimento resistenziale (Astolfo Lunardi, Peppino Pelosi, Giacomo Perlasca, Ferruccio Lorenzini, Ermanno Margheriti). Per loro fu la tortura e la fucilazione. Per altri, fu il lager, dal cui inferno pochi uscirono vivi, come p. Carlo Manziana, e molti altri, come Andrea Trebeschi e Rolando Petrini, trovarono la morte.
La primavera e l’estate del 1944 videro il mirabile, vittorioso dispiegarsi delle attività partigiane ovunque ed in particolare nelle Valli. Le nove brigate “Fiamme Verdi”, le tre brigate “Garibaldi” e le due brigate “Matteotti”, erano divenute vere formazioni militari con quasi duemila unità; ovunque, ma soprattutto in città, operavano i “Gruppi di Azione Patriottica”; si giunse persino a costituire, tra la valletta di Corteno e Pontedilegno, zone libere in cui si avviarono le prime esperienze di amministrazioni elette democraticamente. Non meno di sei-settemila patrioti e collaboratori affiancavano nei modi più diversi le forze partigiane. Ma le rabbiose rappresaglie dei neri non mancarono nemmeno in quei mesi in cui più forte si faceva l’illusione che la fine della guerra fosse imminente.
A Cevo di Valsabbia, base della 54a brigata Garibaldi, le case vengono incendiate il 3 luglio e a Bovegno il 15 agosto 16 civili vengono trucidati.
Le cose si misero male sul freddo autunno del 1944 e nell’inverno del 1945. L’offensiva antipartigiana, sferrata il 1° ottobre da Kesselring e continuata par tutto l’autunno, moltiplicò le catture, le torture, le esecuzioni capitali, le stragi. Fu il momento più difficile della resistenza bresciana, impossibilitata a smobilitare, come avrebbe voluto il generale Alexander, e duramente provata dalla fame, dal freddo, dall’attacco nemico. Caddero allora alcuni degli uomini più validi del movimento partigiano come Emiliano Rinaldini, il maestro adolescente, Giacomo Cappellini, Giuseppe Verginella e tanti altri.
«Da Domodossola al Grappa, dalle Valli bresciane all’Istria è tutto un calvario» scriveva Zenit (E. Petrini) nel numero 17 de «Il Ribelle». E continuava: «Il ribellismo italiano non muore. Più scarno, purificato, si abbarbica alla montagna, la sola sua vera alleata, si rifugia nei quartieri operai della città e nelle campagne, i suoi veri vivai. Simile al fratello polacco, combatte senza speranza nell’aiuto altrui, perché combatte per un’idea: per la libertà, per l’umanità. La nostra è ribellione più alta che non la stessa guerra». Battista, che era poi Laura Bianchini, nel numero 20 de «Il Ribelle», che porta la data emblematica del 25 dicembre, dà voce ai pensieri e ai propositi di tutti con parole semplici e forti: «Avevamo sperato che questo Natale ci avrebbe trovati liberi, pronti per la ricostruzione. Invece il martirio dell’Italia, e nostro, non è finito. A denti stretti terremo il nostro posto e continueremo a portare, ora per ora, il peso delle giornate buie. Il bruciante amore di patria e di libertà che ci ha gettato, coscienti, nel crogiolo, non ha perduto nulla nel suo segreto ardore; e questo ci dà una sicura fiducia di perseverare fino in fondo. E ci dà pace».
A partire dal febbraio 1945 la resistenza si riorganizza, il collegamento con gli Alleati è più continuo, gli aviolanci assicurano finalmente armi ed equipaggiamenti. L’ultima battaglia e la più dura fu combattuta contro la legione GNR “Tagliamento” dalle 200 fiamme verdi attestate a 1900 metri di quota, sul Mortirolo, il passo alpino situato tra la Valcamonica e la Valtellina. Si smise di combattere solo il 28 aprile. In città i Gap e le Sap guidano l’insurrezione del popolo e in poche ore il 26 aprile ogni presenza tedesca fu travolta. Ma fino all’ultimo, negli scontri con il nemico in fuga, si continuò a morire, quando ormai la partita era già decisa irrevocabilmente.
Per quali scopi, con quali ideali la nostra gente si gettò nella terribile e meravigliosa avventura della resistenza? Ai valori ai quali la miglior resistenza si ispirò dette voce, meglio di ogni altro, Teresio Olivelli, presenza ancor viva nella memoria e nella coscienza di tanti bresciani. Ne scrisse sul secondo numero del «Ribelle» datato 26 marzo 1944, a firma Crusor, dandoci una delle pagine più belle della resistenza italiana in genere e cattolica in specie: «Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo. Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale».
In un momento in cui pare che non ci sia più nulla da salvare, bisogna gettare se stessi nell’inferno della vita, «con rischiosa ed intensa moralità», liberi non solo da ogni contaminazione, ma anche dalla «tentazione degli affetti», con l’anima protesa alla «nuova città». «A questa nuova città noi aneliamo – concludeva Olivelli – con tutte le nostre forze: più libera, più giusta, più solidale, più cristiana. Per essa lottiamo: lottiamo giorno per giorno perché sappiamo che la libertà non può essere elargita dagli altri. Non vi sono “liberatori”. Solo, uomini che si liberano… Lottiamo anche perché sentiamo di essere l’esercito reale della nazione e dell’umanità».
Quella di Olivelli non è che una delle tante testimonianze, anche se particolarmente idonea a restituire una dimensione più umana alla storia di ieri e insieme al senso della vita e della convivenza sociale dell’oggi. Fu cosa di grande momento che nel cuore della resistenza bresciana ci fu anche, e ne fu l’espressione più alta, una «ribellione per amore».