Quando cominciò l’anno 1917, gli Alleati e gli Imperi Centrali combattevano ormai da due anni e mezzo. Gli uomini di governo, che avevano dichiarato la guerra, potevano ben assumersi la responsabilità di giungere alla pace; almeno ora, dopo che lutti e sofferenze avevano colpito così atrocemente i popoli del continente, le illusioni sull’“eroica avventura” e sulla “guerra lampo” erano interamente cadute e si avvertiva che la vittoria non era a portata di mano né per l’uno né per l’altro del belligeranti. Questa convinzione, estremamente realistica, spinse Benedetto XV a stringere i tempi per tentare – con una serie di contatti e di mediazioni a livello diplomatico, con lettere confidenziali e con un’instancabile azione persuasiva nei confronti dei governi – una soluzione negoziata del conflitto, il cui costo in termini di vite umane e di risorse aveva superato di gran lunga le più fosche previsioni. Di qui una sua lettera del 23 gennaio all’imperatore Guglielmo II, perché formulasse proposte concrete a dimostrazione della sua buona volontà. La risposta del Kaiser fu sostanzialmente negativa, ma alla fine di giugno il nunzio apostolico a Monaco, mons. Eugenio Pacelli, il futuro papa Pio XII, intravedeva qualche possibilità di concessioni da parte degli imperi Centrali e Benedetto XV decise di agire.
Il terzo anniversario dello scoppio della guerra era vicino – il 28 luglio – e il Papa voleva far giungere, in quell’occasione, un appassionato e realistico appello a tutti i capi delle nazioni belligeranti per porre fine all’“inutile strage”. A Roma si lavorò alacremente alla stesura della nota diplomatica pontificia, che ebbe tre redazioni e fu tradotta in francese. Essa consta di tre parti. All’inizio ricorda le iniziative già prese dalla Santa Sede e gli appelli rimasti fino allora senza risultato. La prima delle tre bozze, proprio perché non ancora ultimata, raggiunge un tono di straordinaria intensità. “Purtroppo l’appello Nostro non fu ascoltato: quella voce della ragione e della fede andò soffocata dal fremito delle passioni, sempre facili a traviare anche quando muovono da un principio, come l’amor patrio, alto e generoso. Così la guerra proseguì per altri due anni con tutti i suoi dolori: si inasprì anzi per terra, per mare, per i nuovi campi dell’aria, donde scese sulle città inermi, sui quieti villaggi, sui loro abitatori innocenti la desolazione e la morte. Le vittime si moltiplicarono a milioni, si alzò a monti la strage, le rovine si accumularono alle rovine, e dove non il ferro e il fuoco, penetrò il disagio e la fame, acuita dal blocco spietato e dall’efferata lotta aerea e sottomarina. Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di barbarie?”.
I capisaldi di una pace giusta e duratura venivano così compendiati nella seconda parte della nota:
“Diminuzione simultanea e reciproca armamenti ed istituzione arbitrato. Libertà e comunanza dei mari. Intera reciproca condonazione, danni e spese di guerra, salvo casi speciali da esaminare. Restituzione reciproca territori attualmente occupati, conseguentemente del Belgio e delle Province francesi da una parte, e delle Colonie tedesche dall’altra. Esame delle questioni territoriali, per esempio, tra Italia e Austria, tra Germania e Francia, da farsi con disposizioni concilianti e tenendo conto aspirazioni popoli. Così parimenti delle altre questioni territoriali e politiche specialmente relative Armenia, Stati Balcanici e Polonia”.
La terza parte, contenente la celebre espressione: “inutile strage”, è un appello finale che suggella degnamente un documento che, come è stato ben detto, attesta “un potere che resta al di sopra delle passioni umane”. “Sono queste le precipue basi – si legge nel documento pontificio – sulle quali crediamo debba poggiare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica così importante per l’avvenire ed il benessere materiale di tutti gli Stati belligeranti. Siamo quindi animati, nel presentarle a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, dalla cara e soave speranza di vedere accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale ogni giorno più apparisce inutile strage”.
La Segreteria di Stato insisteva perché la Germania accettasse come fase di discussione la proposta pontificia, rimandando alla futura conferenza di precisare l’applicazione dei singoli punti di essa. Su di un punto, tuttavia, non si poteva transigere: era necessaria una risposta “positiva e concreta” circa l’assoluta indipendenza del Belgio. Mancando questa, le trattative di pace sarebbero destinate a un “certo fallimento”, non vi sarebbero state altre proposte da fare e la guerra sarebbe andata sino in fondo (Telegramma di Gasparri a Pacelli, 14 settembre). Ma quella dichiarazione, nei termini espliciti voluti dal Papa, non venne mai. Il 19 luglio il Reichstag aveva invocato “una pace senza annessioni”, ma la Germania era un Paese in cui ogni decisione doveva essere presa non dal potere politico, ma dal Kaiser e dai due signori guerra, Hindenburg e Ludendorff, o con il loro permesso. Pacelli scriveva a Gasparri il 27 settembre: “Decisamente la causa della pace ha fatto in questi ultimi tempi in Germania parecchi passi indietro. Del resto, è stato qui sempre così: quando le cose vanno piuttosto male, sono pronti ad ogni accomodamento; ma se per un poco l’orizzonte si rischiara, si abbandonano alle più folli illusioni ed avanzano pretese inaudite, contro i veri interessi del Paese”. A sua volta, l’imperatore d’Austria Carlo, nella lettera al Papa del 4 ottobre, toccando il punto delicato delle rivendicazioni territoriali italiane, dichiarò che i suoi popoli – senza distinzione di nazionalità – si sarebbero opposti alla più piccola concessione territoriale in favore dell’Italia: “Una tale concessione non sarebbe quindi né giusta né possibile. Forse si potrebbe tutt’al più prendere in considerazione, al momento della conclusione della pace, reciproche rettifiche che non cambiano per nulla l’equilibrio territoriale prima della guerra fra l’Austria – Ungheria e l’Italia”. Ma anche nel campo dell’Intesa, com’è stato documentato limpidamente dallo storico Angelo Martini, e limitandoci ai soli circoli responsabili, l’atteggiamento nei confronti della nota pontificia suscitò molte perplessità e riserve. Una delle pochissime eccezioni, apertamente a favore della proposta pontificia, fu il discorso di Lord Braye alla Camera dei Lords, sebbene tenuto soltanto nel luglio del 1918. Dolendosi della mancata risposta del governo inglese e degli alleati, ne ravvisava una delle cause nell’articolo 15 del Trattato di Londra, con il quale Salandra e Sonnino avevano chiesto l’esclusione della Santa Sede da qualsiasi trattativa di pace. “Chiunque sia stato l’iniziatore e perciò il responsabile della guerra, – precisava Lord Braye – quelli che la continuano hanno anch’essi la loro parte di responsabilità. Tutte le guerre, le cui ragioni potrebbero essere tolte da un arbitrato, sono delle pazzie criminali”.
Il più fine storico italiano d’ispirazione cattolica, Arturo Carlo Jemolo, ricorda: “Quando Benedetto XV parlò – con una espressione di cui la storia doveva dimostrare la perfetta aderenza alla realtà – di inutile strage, quali grida si levarono da tutto l’interventismo contro il pontefice disfattista!… È triste, ma consola la parola di Benedetto XV, che di fronte ad una guerra dove non sono di fronte concezioni universalistiche, né forme di civiltà, ma questioni di frontiera, affronta l’impopolarità e osa parlare di inutile strage” (“Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni”, Einaudi 1948, pp. 568 e 600-601).
Norberto Bobbio, espressione di quella parte della cultura laica che “non può non dirsi cristiana”, dà un giudizio su Benedetto XV ancora più netto. “Le uniche parole di condanna assoluta della guerra che echeggiarono in Italia – si legge in “Profilo ideologico del Novecento” Einaudi, 1986 p. 109 – pur soffocate dal clamore di simili tirtei, furono quelle di Benedetto XV che, superando la tradizionale teoria della guerra giusta, la quale aveva permesso in passato di giustificare entrambi i belligeranti, entrambi li condannò, e respingendo la concezione etica della guerra chiamò la guerra qual essa era, e quale si sarebbe ancor più rivelata in tempo di pace, orrenda carneficina, che ormai da un anno disonora l’Europa (28 luglio 1915), e due anni dopo (1° agosto 1917), perseverando, inutile strage”.
Giornale di Brescia, 15.1.1988