La visione politica dello Statista attraverso i discorsi della sessione parlamentare 7 gennaio – 16 luglio 1857
7 gennaio – 16 luglio 1857: un’area di tempo breve, ma assai significativa per il Presidente liberale e per il Risorgimento nazionale; poco più di un semestre, ma un semestre che cade nella piena, vigorosa maturità del genio cavourriano, sì che la lettura dei “Discorsi parlamentari” – pubblicati da «La Nuova Italia» di Firenze – che il Nostro pronunciò in quel periodo è veramente rivelatrice della concezione e del metodo d’azione del «tessitore», come pochi altri documenti² .
Il 7 gennaio 1857 si aprì la terza sessione della V Legislatura del Parlamento subalpino di Torino; il 9 gennaio il deputato Brofferio chiese che venisse fissato un giorno per poter muovere delle interpellanze al Presidente del Consiglio, Cavour, «sulle condizioni italiane dopo le parole da lui pronunciate in Parlamento al suo ritorno dal Congresso di Parigi». Già questo avvio della sessione dice quanto essa fosse decisiva per i futuri sviluppi della «questione italiana» e per consolidare la struttura economica, politica e militare del Regno di Sardegna.
La «questione italiana» e quella scolastica
La risposta all’interpellanza del Brofferio, il leader della borghesia radicale e della democrazia rurale, che denunciava nell’operato del Governo al Congresso di Parigi una «perpetua contraddizione di pastose parole e di vuote opere», rimane un esempio di fede e di misura a un tempo nella difesa del proprio operato. «Io in politica – dichiarava Cavour – non credo ai vaticini ed infatti io mi sono sempre gelosamente astenuto del farne. La storia di tutti i tempi, massime la storia moderna e quella dell’ultimo mezzo secolo, ci dimostra che gli avvenimenti si succedono sempre imprevisti; dimostra la verità di quel detto, essere la storia una grande improvvisatrice. Quindi mi pare opera inopportuna, puerile e quasi ridicola il voler fare delle ipotesi sui futuri eventi… Ma se il deputato Brofferio desidera sapere quali saranno i principi della nostra condotta, quale sarà lo scopo che determinerà le nostre azioni, io non ho alcuna difficoltà a dichiararlo altamente. Dacché il Re Vittorio Emanuele II è salito al trono, il suo Governo ebbe sempre un’istessa politica, ebbe sempre di mira il mantenimento e lo sviluppo all’interno delle libertà costituzionali, all’estero di procurare nei limiti del possibile e del fattibile il maggior bene dell’Italia… Se la guerra d’Oriente, se il Congresso di Parigi non hanno prodotto pel Piemonte e per l’Italia un risultato materiale, immediato, hanno prodotto (almeno così credo) un immenso risultato morale. Non bisogna illudere gl’individui. …Spero che le brevi spiegazioni vi faranno convinti che nel Congresso di Parigi si sono sparsi semi preziosi che e il tempo e la virtù degl’italiani sapranno rendere fecondi» (Tomo I, pp. 19, 20, 22 passim).
Sullo spinoso problema della libertà d’insegnamento, nella seduta del 17 gennaio, Cavour rivendica di essere stato «uno dei primi» a sostenere i princìpi al Parlamento Subalpino. Senza dubbio «allo stato attuale della società, è impossibile l’immaginare una società nella quale lo Stato direttamente od indirettamente non intervenga nelle scuole» (Tomo I, p. 28). Il sistema da «applicare al nostro paese è quello in cui vi è un insegnamento dato dalla società e un insegnamento libero». «Solo osserverò – precisa Cavour – che, affinché esso produca buoni frutti, si richiedono due cose: la prima, cioè, che l’insegnamento ufficiale o sociale sia bene e fortemente ordinato, e la seconda che l’insegnamento privato sia veramente libero. Ecco le condizioni che si richiedono: forte ordinamento dell’istruzione sociale e larghissima libertà dell’insegnamento non ufficiale. Ma per giungere ad un buon ordinamento di questo sistema come dobbiamo procedere? È egli possibile ad un tratto fortificare l’insegnamento ufficiale e stabilire una piena libertà? Possiamo noi con un colpo di bacchetta produrre questo miracolo? Sia la prima una legge intesa ad ordinare l’insegnamento ufficiale. Quanto a quelle che hanno a stabilire le basi su cui deve fondarsi la libertà d’insegnamento, è noto che elleno sono leggi lunghe, complicate, difficili che richiedono tempo e mature considerazioni per essere ponderate e discusse. or bene che cosa ha fatto il Ministero? Il Ministero ha pensato di dare principio all’opera con ordinare, regolarizzare l’insegnamento libero» (Tomo I, pp. 29 – 30).
Società civile e società religiosa
Il problema etico-politico che appassionò il primo e l’ultimo Cavour fu quello dei rapporti tra società civile e società religiosa, rapporti particolarmente difficili in un Paese che per dar compimento alla sua unità doveva distruggere il potere temporale della Chiesa.
L’argomento è accennato con «schiette e franche parole»nella risposta alla interpellanza dell’instancabile Brofferio, il quale chiedeva di conoscere i motivi che aveva indotto il Governo a mandare Boncompagni, ministro del Re a Firenze, a «complimentare il Sommo Pontefice a Bologna».
La missione del Boncompagni fu missione di cortesia e di riverenza. E Cavour colse l’occasione per precisare il suo pensiero con lucida fermezza contro ogni astrattismo radicaleggiante. «Qualunque possa essere l’effetto delle mie parole, non esito a dire che, qualunque possano essere le differenze che corrono tra la Corte di Roma ed il Piemonte, e dal lato politico e sopra alcune materie religiose, noi non abbiamo cessato perciò di riverire nel Papa il Sommo Pontefice, il capo religioso dell’immensa maggioranza dei cittadini piemontesi. Se noi con fermo proposito abbiamo in ogni circostanza cercato di mantenere incolumi i diritti del potere civile, se ci siamo adoperati a introdurre le riforme da noi riputate necessarie e dai tempi richieste nei rapporti della Chiesa collo Stato, noi per ciò non abbiamo mai cessato di considerarci come facienti parte della Chiesa di cui il Pontefice è il capo; ed io credo che questi sentimenti sieno divisi dalla immensa maggioranza dei Piemontesi che, mentre sostiene virilmente gli sforzi del Governo per tutelare i diritti del potere civile, intende che esso continui a rimanere fedele a quella religione che è da esso professata» (Tomo II, p. 545).
Era l’esecuzione del legato giobertiano del Rinnovamento, secondo il quale il Risorgimento nazionale avrebbe dovuto compiersi nel rispetto della libertà della Chiesa e «anche senza il Papa» non avrebbe lasciato di «essere cattolico».
Il valore della legge
Forte in Cavour era il senso nuovo della legalità su cui doveva poggiare lo Stato: egli dava alla legge il valore di un ordine avente una sua validità da far valere comunque finché la legge non fosse stata mutata.
L’onorevole Asproni nella seduta del 16 giugno sostenne che la magistratura – così come in Inghilterra – non doveva essere costituita in corpo ordinato, in modo da rendere possibile alla coscienza del paese, per mezzo dei giurati, giudicare al di sopra della legge stessa, rendendone innocue e tollerabili certe assurdità. Le precisazioni di Cavour furono immediate e decise. «Se le leggi non dovessero aver forza per se stesse, se fosse in facoltà delle opinioni mutabili di modificarle essenzialmente non vi sarebbe più legislazione, né costituzione. Allora sì che esse sarebbero vani fogli di carta scritta, che non avrebbero valore se non che sostenute colle baionette e coi cannoni. Io poi contesto altamente i fatti allegati dall’onorevole Asproni intorno all’Inghilterra. In nessun paese del mondo il rispetto alle leggi, anche alle leggi diventate viete, che sono fino ad un certo punto in contraddizione colle nuove opinioni, in nessun paese le leggi sono più che quivi rigorosamente osservate. Se in Inghilterra un deputato si permettesse di dire che è in facoltà del Ministero o dei giurati di modificare le leggi, egli sarebbe condannato dall’opinione pubblica, sarebbe stimmatizzato da tutti» (Tomo II, p. 550).
Né sono meno incisive le battute scambiate tra l’Asproni e il Cavour:
«Asproni. – Per verità io non so comprendere come il signor presidente del Consiglio si sia così infuriato contro le parole che ho pronunziate.
Cavour. – Sono la negazione della libertà» (Tomo II, p. 551).
C’è un episodio nella seduta dell’11 luglio che merita di essere ricordato a riprova del «senso della legge» che caratterizza così profondamente l’azione del grande piemontese. Quel giorno Cavour intervenne due volte, e ampiamente, in difesa di un progetto di legge concernente una nuova convenzione con la compagnia Transatlantica, ma il Senato respinse il progetto di legge. Nacque una discussione circa la votazione avvenuta, ma Cavour tagliò corto ad ogni sotterfugio: «Il Senato capirà che io lamento il voto che esso ha dato testé; certamente io ne sono addolorato. Nullameno il Senato avendo rigettato l’articolo, io non vedo che cosa si potrebbe mettere in votazione. Essendo stata rigettata l’autorizzazione di dare piena esecuzione alla convenzione, non c’è nulla da votare. Egli è evidente che, il Senato emettendo il voto per alzata e seduta a seconda degli usi di tutti i Parlamenti del mondo basta la maggioranza relativa, purché sia presente, come lo richiede lo Statuto, la maggioranza assoluta. Perciò io crederei molto pericoloso se si volesse rivenire in un modo qualunque sul voto che il Senato ha dato, voto che io, lo ripeto, ancora lamento, perché credo che la convenzione fosse molto opportuna» (Tomo II, p. 803).
Il medesimo «senso della legge» aveva indotto Cavour a fissare chiaramente nella seduta del 9 marzo i limiti del potere giudiziario: «Io professo per l’autorità della magistratura il maggiore rispetto, io reputo che convenga conferirle amplissima facoltà nell’applicazione delle leggi, ma io sono altresì d’avviso che bisogna lasciare alla magistratura la minor dose d’arbitrio possibile».
E dopo qualche mese, il 12 giugno, Cavour ribadiva: «È inopportuno affidare allo stesso magistrato quistioni giudiziarie e quistioni puramente amministrative».
Il problema, come si vede, era già presente alla mente di Cavour, ma è divenuto ineludibile oggi, in una società in cui lo Stato si è assunto crescenti compiti d’intervento nell’economia del Paese.
Progresso sociale senza demagogia
Cavour odiò francamente la demagogia, ma è un fraintendimento farlo apparire il patrocinatore, sia pure illuminato, della conservazione sociale.
Il suo riformismo non fu mai concepito con mentalità conservatrice, come una specie di ritirata strategica ed anzi egli deplorò apertamente «la pericolosa grettezza politica» di commisurare le riforme non alle esigenze reali e alle effettuali possibilità dei popoli, ma «allo stretto indispensabile per allontanare il prossimo pericolo di sconvolgimenti».
La polemica verso questo modo di guardare al divenire sociale si avverte anche in alcuni discorsi del semestre parlamentare 7 gennaio – 16 luglio 1857.
Per Cavour hanno esito ben diverso «le riforme tentate a mo’ d’esperimento, a confronto di quelle fatte in modo definitivo» (Tomo I, p. 128); opposta addirittura è l’efficacia anche politica delle riforme concesse «all’ultima ora», lasciandosi «trascinare dall’opinione pubblica», da «pressione popolare» o dalla «pressione d’imprevedibili eventi» (Tomo I, p. 445).
Cavour illustra il suo punto di vista come un esemplare ricorso ad un pur grande personaggio della storia inglese: Robert Peel.
«Io ho più volte invocato il nome di sir Robert Peel come quello dei più grandi, dei più illustri riformatori del secolo moderno. Io non disdirò questi principi avanti a voi più volte professati, ma se credo che sia altamente opportuno per gli uomini di Stato di tutti i paesi e del Piemonte in specie di studiare le cose inglesi, si è o signori, per profittare di molte cose utili state fatte in quel paese, e per evitare altresì alcuni errori da essi commessi; si è per giovarsi degli esperimenti che colà si fanno in larga scala, per giovarsene onde non essere nella necessità di ripeterli. Quando un fisico, un cultore di scienze fisiche sa che un uomo di non dubbia autorità, d’incontestabile abilità, ha fatto una serie di esperimenti costosissimi, ammette la legge che da quegli esperimenti si deducono, senza credersi costretto a ripeterli, così io vi propongo di fare rispetto all’Inghilterra. L’Inghilterra procedeva la prima nella via delle riforme delle leggi economiche, e perciò era ragionevole che procedesse misuratamente. Ma, o signori, quando la riforma fu compiuta, forse coloro che la propugnavano si fecero a sostenere che si era fatto ottimamente di cautamente procedere? No, o signori; giacché quello steso sir Robert Peel quando diceva che la libertà dell’interesse aveva attutita la crisi del mille ottocento quarantasette, lamentava altamente di non aver avuto il coraggio di promuoverla venti anni prima onde evitare la crisi del 1824… Credo dunque che sarebbe ora mostrarsi di una servilità poco ragionevole se si volesse imitare l’Inghilterra non solo nelle riforme operate, ma nel modo di operarle; se si credesse necessario, perché l’Inghilterra ha fatto una serie di esperimenti, che ora sono fuori di contestazione, noi credessimo dover ripetere quei medesimi esperimenti. Profittiamo degli esperimenti altrui; profittiamo degli errori delle altre nazioni onde non commetterli. E molte riforme in Inghilterra furono fatte gradatamente, le quali vennero da noi applicate risolutamente… Io credo, o signori, che Robert Peel avrebbe lasciato un nome più illustre assai, una fama più duratura, se invece di essere stato costretto in certo modo da necessità fatali ad operare delle riforme, ne fosse stato egli medesimo l’iniziatore. Io credo che Robert Peel avrebbe forse lasciato un nome senza uguale nella storia, se avesse proposta l’emancipazione dei cattolici nel 1825 invece che nel 1929; credo che il suo nome supererebbe quello di tutti gli uomini di Stato di questo e degli altri secoli se la riforma dei cereali fosse stata iniziata nel 1840 in un anno d’abbondanza invece di essere stata conceduta alla carestia d’Irlanda» (Tomo I, pp. 443, 444, 445 passim).
Sulla necessità d’agire secondo una meditata audacia Cavour impostava la politica estera, ma conformava altresì la politica interna. Valga qui un esempio: la lunga, faticosa discussione per indurre la Camera a deliberare il perforamento del Moncenisio, che in quel tempo appariva al Ministro piemontese «la più grande di tutte le imprese moderne». Senza una sana inventiva, senza immaginazione sorretta dalla ragione che analizza e dalla tensione volitiva che traduce in fatti un’idea, c’è solo la «riuscita fatale» dei retrogradi, di una politica avvezza «alle mezze misure», «timida, vacillante e perplessa». «Le grandi imprese non si compiono, le immense difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro, a cui è dato di condurre queste opere a buon fine, abbiano una fede viva, assoluta, nella loro riuscita. Se questa fede non esiste, non bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria; se noi non avessimo questa fede, non verremmo ad insistere avanti a voi chiamando sul vostro capo una così grave responsabilità» (Tomo II, p. 462).
Audacia e realismo senza cinismo
Un quadro, nella produzione di un grande artista, ha una sua propria individualità ed è insieme un «autoritratto» di chi l’ha dipinto, rivelando un’innegabile parentela con tutte le altre opere che lo precedettero e con quelle che ad esso seguirono.
Analogamente, qualsiasi processo evolutivo reca con sé elementi di novità che s’innestano in un plesso di caratteri che, mentre ne garantiscono la continuità costitutiva, rendono possibile la stessa intelligibilità del suo inedito atteggiarsi. Ciò può essere vero anche nel mondo storico? Qui il «sì» e il «no», una decisione presa o rinviata, una concezione portata avanti in un certo modo piuttosto che in un altro rispecchiano originalmente non solo il mutare delle situazioni obiettive, ma anche l’universo mentale, «le guise della mente», la Weltbild, la imago vitae, la personalità in una parola di coloro che sono i protagonisti. Questa è l’impressione che abbiamo ricavato dalla lettura dei due tomi dei “Discorsi parlamentari” tenuti da Cavour in un semestre di attività parlamentare: in essi Cavour appare un «eroe con gli occhiali», che sovrasta collaboratori e avversari per chiarezza di visione politica e coraggio d’iniziativa. I discorsi di un semestre decisivo ci aiutano così a capire l’uomo politico perché in essi circola un pensiero unitario, un modo di vedere le cose ch’è proprio e solo di Cavour.
Cavour, uomo attento alla realtà effettuale e ai suoi svolgimenti solo in parte prevedibili, politico accorto e duttile, audace e prudente, energico e tempestivo, era proprio la negazione della estemporaneità, del gesto gratuito, del discorso sloganistico, dell’empirismo rozzo: egli non era uomo di paradossi (a questi può fare ricorso utilmente chi non abbia responsabilità di governo), né uomo di pregiudizi, ma fu uomo di princìpi, di salde convinzioni maturate attraverso un travaglio spirituale, un programmatico slargamento di orizzonti ed un’esperienza di cultura e di vita eccezionali. Per questo il suo realismo non fu quello di un avventuriero, né quello di un Bismark che può comandare da despota e contare su d’una forza militare poderosa e che sa sfruttare genialmente a suo vantaggio, ma senza scrupoli e senza una meta per l’avvenire, tutte le debolezze altrui. Cavour fu ed è una «forza costitutiva della coscienza italiana», come è stato detto con grande verità, e partecipa del processo ri-creativo, ab imis fundamentis, del popolo italiano per il suo continuo subordinarsi alle esigenze della libertà e della legge come a condizione ineliminabile di progresso civile. In ciò egli non è solo il maestro della nuova Italia, ma uno degli statisti più grandi dell’Europa moderna.
²-C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, Vol. XIII a cura di A. Saitta, Firenze, La Nuova Italia, 1965. Tomo I, pp. 1-466; Tomo II, pp. 466-838.
Humanitas, n. 4, 1968.