La svolta del 1914 e il delirio della violenza

Il brano di Benedetto Croce, opportunamente proposto alla riflessione dei giovani che hanno affrontato nei giorni scorsi la prova scritta di italiano per la maturità, sui guasti operati negli animi dalla prima guerra totale della storia e sulla crisi epocale che essa apriva, ci ha indotto a porre a noi stessi ancora una volta l’interrogativo: perché la nevrastenia del dopoguerra portò in Italia alla crisi dello Stato liberale e al fascismo? Ogni tentativo di risposta ci riporta inevitabilmente al trauma subìto dal nostro Paese tra il ’14 e il ’18.
Sulle vicende che portarono l’Italia in guerra molte sono le leggende da sfatare, ma due aspetti di quella vicenda si impongono all’attenzione di chiunque come «nodi» della nostra storia, carichi di possibilità negative per il futuro: il cosiddetto radiosomaggismo e quella semina di sventure che fu per noi, durante la guerra e soprattutto nel dopoguerra, il Patto di Londra. Nel modo in cui si giunse all’intervento già si intravvedono alcune conseguenze che potevano essere corrette o evitate e che, invece, caratterizzeranno negativamente la vita del Paese. Quale fu, dunque, il senso delle «radiose giornate» del maggio 1915? Esse attestano la netta prevalenza dell’interventismo antidemocratico sull’interventismo democratico di Bissolati, Battisti, Bonomi, Gronchi, Salvemini che reclamava l’intervento contro la minaccia del militarismo tedesco, per l’auto-decisione dei popoli e la liberazione della nazionalità. Questo interventismo, che nel gennaio del ’18 si riconoscerà nei Quattordici Punti di Wilson, sarà sconfitto dall’interventismo antidemocratico dei sindacalisti rivoluzionari, dei nazionalisti, dei militaristi, dei futuristi. Costoro professavano i miti più disparati, ma si trovavano d’accordo sia nel propagandare la guerra (la necessità fascinosa del «caldo bagno di sangue», il solo atto a dissipare «l’orribile fetore della pace», come allora scriveva D’Annunzio), sia nella volontà di smantellare l’istituto parlamentare. Nel «radiosomaggismo» l’interventismo più torbido e arruffato, che aveva i suoi corifei in D’Annunzio e Mussolini, dilagò nelle piazze, sormontando ogni altra corrente. Quelle giornate, che qualcuno già allora definì «sudamericane», forzarono la mano al Governo e al sovrano, fino all’ultimo incerti e possibilisti sul da farsi, e piegarono per loro mezzo il Parlamento. Fu la prima vittoriosa battaglia del fascismo albeggiante. Una trasformazione radicale nel tessuto civile europeo. «Cominciò allora – nota Nino Valeri – la consuetudine delle sagre, sull’esempio di quella di Quarto. Corse la teoria del bagno di sangue, dilagò il metodo della diffamazione e del vituperio contro chi manifestasse opinioni contrarie. Cominciò allora l’incitamento alla violenza, la caccia all’uomo, le liste proscrizione, i dialoghi con la folla, il compiacimento dei superuomini».

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Al processo di sgretolamento del sistema democratico dette un contributo di prim’ordine la gretta visione politica con cui i capi della destra antigiolittiana, Salandra e Sonnino, discussero, conclusero e gestirono il Trattato di Londra. Proprio perché erano «armati di sacro egoismo», Salandra e Sonnino non si proposero nemmeno di conciliare la sicurezza dei nostri confini e la solidarietà con i popoli slavi in lotta anch’essi, e prima di noi, contro l’impero austro-ungarico. Si intestardirono in una «politica di ingrandimenti territoriali» e di dominio esclusivo dell’Adriatico, facendo proprie le rivendicazioni antislave dei nazionalisti, che anche uomini come il Tittoni e il Di San Giuliano giudicavano «semplici pazzie». Il Trattato, infatti, assegnando all’Italia la Dalmazia e le isole antistanti, per meglio garantire quaranta-cinquantamila italiani che vivevano in quelle terre costringeva settecentomila slavi a trasferirsi sotto la sovranità italiana. La coscienza slava, offesa e calpestata, ai primi di maggio rispose contrattaccando: Sùpilo e Trumbic rivendicarono per il futuro Stato jugoslavo non soltanto la Dalmazia, ma anche l’Istria e Trieste. Si gettavano così le basi di un’assurda inimicizia tra due Stati e due popoli che hanno oggi interesse a vivere in pace tra loro. Solo nell’ora del disastro, nei giorni di Caporetto il Governo italiano per bocca del suo presidente, Orlando riscoprì la politica della nazionalità e dell’autodecisione dei popoli. L’8 aprile del ’18, quando i nostri soldati si battevano sul Grappa e sul Piave, si riunì in Campidoglio il Congresso delle nazionalità oppresse, che si concluse con la firma del Patto di Roma, in cui erano implicite la disponibilità italiana a rinunciare alla Dalmazia e quella jugoslava a non rivendicare l’Istria e Trieste. Sembrava trionfare finalmente la linea dell’interventismo democratico. Ma dopo la vittoriosa conclusione della battaglia del Piave, il presidente Orlando non ebbe più dubbi. D’accordo con Sonnino rivendicò, nel contempo, l’annessione di Fiume, in nome del principio di autodecisione dei popoli – perché in essi era prevalente la popolazione italiana, e contro quel principio rivendicò la Dalmazia, le Curzolari, Valona – perché a noi assegnate dal Trattato di Londra. La linea contraddittoria della delegazione italiana a Parigi portò alla rottura. Nell’ebbrezza dei facili applausi, Orlando fu in quei mesi il principale artefice del mito della «vittoria mutilata», mito quanto mai deviante per un popolo che, avendo sofferto molto, era troppo facilmente incline a credersi defraudato. E sulle ali della «vittoria mutilata», D’Annunzio tornò alla ribalta e parlò della necessità di un altro maggio radioso, questa volta per far fuori una classe politica imbelle, responsabile di un così vergognoso fallimento. L’impresa di fiume, maturata nel settembre del ’19, fu per tanti aspetti anticipazione e modello della futura marcia su Roma.

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La guerra, come si vede, continuava a generare violenza. La «psicosi bellica», l’invocazione alla violenza levatrice della storia, essendo essa sola capace di risolvere ogni problema, incanaglisce e avvelena gli animi. «La guerra è finita – scrisse molto bene il Beaumont – ma l’uomo resta mobilitato. Non lascia l’uniforme, o ne riprende un’altra». Annota Alberto Caracciolo: «Il fatto militare si inserisce e si scioglie immediatamente nel fatto rivoluzionario o controrivoluzionario». Insomma ognuno tende a portare nella lotta politica la mentalità e i metodi della guerra. Il disprezzo della democrazia e l’attesa della dittatura liberatrice accomunava ormai massimalisti, comunisti e fascisti. E alla fine furono questi ultimi ad avere partita vinta, iniziando un’avventura che si concluse con la più vergognosa delle sconfitte e con una guerra fratricida.

Giornale di Brescia, 26 giugno 1988.