La Morcelliana: storia, filosofia, rinnovamento civile

LA MORCELLIANA: STORIA, FILOSOFIA E RINNOVAMENTO CIVILE[1]

(appunti per l’individuazione di un contributo)

I. Le scelte di fondo: contro l’autarchia culturale e contro il razzismo (1925 – 1945)

 Per individuare l’itinerario percorso dalla Morcelliana in mezzo secolo di attività editoriale – itinerario tutt’altro che uniforme, eppure avente una sua «continuità a linee spezzate» – è inevitabile scegliere dei punti di riferimento, nel tentativo di collocare le opere nel tempo in cui furono pubblicate, anche se il valore di alcune di esse non è soltanto «storico». Malgrado il difficile avvio e i limiti derivanti a qualsiasi editore che lavori in regime dittatoriale, ben presto sorsero collane come «Pensiero cattolico moderno», «Testimonianze e panorami di vita religiosa», «Problemi e opinioni», «I compagni di Ulisse» che comprendevano opere di notevole valore, espressioni vive di sensibilità cattolica nell’affrontare le questioni più discusse e nell’analizzare la cultura italiana, di liberarla dall’assurda clausura in cui tende a incapsularla il totalitarismo fascista; si vuol far uscire ad ogni costo da uno stato di minorità la cultura cattolica italiana, aprendola all’influsso delle avanguardie del cattolicesimo europeo, e in particolare di quello tedesco. Per parecchi anni l’editrice ebbe il suo animatore insistente e coraggioso in Mario Bendiscioli, uomo di grande indipendenza di giudizio e di fervida operosità, che sin da giovane fuse nella sua complessa personalità la passione per la storia, la conoscenza diretta del mondo tedesco e l’ansia di far acquisire alla cultura italiana la coscienza autentica della dimensione religiosa, troppo spesso sacrificata al riduttivismo sociologizzante e alle deformazioni della polemica ideologica. Nel ’33, nel suo ampio contributo al volume Romanesimo e Germanesimo, Bendiscioli attaccava senza mezzi termini l’antirömische Affekt, il violento complesso antiromano proprio del prussianesimo e del razzismo pangermanista, insieme a tre qualificati esponenti della cultura tedesca: lo scrittore Georg Moenius, il benedettino Ildefons Herwegen del monastero di Maria Laach, l’anima del movimento liturgico tedesco, e il filosofo esistenziale Peter Wust.

L’eredità classica fu tratta in salvo dalla Chiesa Cattolica, la quale, a sua volta, si fece iniziatrice di civiltà per l’Europa barbarica nell’atto stesso di iniziarla al Vangelo. Roma cristiana, d’altronde, continua Gerusalemme e la Chiesa Cattolica è il «secondo Israele». Sebbene il cristianesimo, per la sua stessa natura, avesse rotto con l’intransigenza nazionalistica del giudaismo, tuttavia ha sempre rivendicato per sé la successione di Israele e ha fondato il suo appello sulla Legge e i Profeti. Per questo, scriveva acutamente Moenius, al Los von Rom presto non può non seguire il Los von Juda [2]. Il cieco, fanatico rifiuto delle fondamenta spirituali e delle radici storiche dell’Europa voleva essere maniacalmente consequenziario. E lo fu. Quando il nazionalsocialismo giunse al potere, l’antigiudaismo divenne una specie di atto di lealtà verso lo stato. Contro ogni equivoco levò allora la sua voce il cardinale Faulhaber, arcivescovo di Monaco, nelle prediche d’Avvento del 1933.

La Morcelliana immediatamente fece conoscere, per la traduzione di Giuseppe Ricciotti, il testo di quelle prediche raccolte nel volumetto Giudaismo cristianesimo germanesimo (1934). Faulhaber difendeva a viso aperto i valori religiosi, morali, sociali dell’Antico Testamento [3] e, rivolgendosi ai perseguitati israeliti, faceva sue le parole che alcuni decenni prima aveva rivolto ad essi il cardinal Manning: «Io non capirei la mia religione, se non avessi venerazione per la vostra» (p. 42). Era quella della Morcelliana una scelta religiosamente limpida; tuttavia va ricordato che in quel momento non era politicamente rischiosa, perché fin quasi alla vigilia del patto d’acciaio il fascismo non ostacolò la circolazione di giudizi di dura condanna nei confronti del nazismo antisemita e anticristiano[4].

Nel 1936 l’analisi della spaventosa realtà del nazismo al potere registrava un vero e proprio salto qualitativo grazie ad un’opera di alto livello storico. Con Germania religiosa del III Reich Bendiscioli documentava una vicenda che era in pieno svolgimento, su cui però i fatti accaduti e i documenti acquisiti erano tali e tanti da parlare da soli ed in modo terribilmente eloquente. Su problemi che riguardano così da vicino le coscienze e la dimensione pubblica della libertà religiosa, «il disinteresse sarebbe incoscienza colpevole», scriveva il Nostro, ammonendo che «nella coscienza religiosa s’annidano forze risolute e decise che solo a grave prezzo e con palese ingiustizia possono essere soffocate o anche solo mortificate». La connessione tra libertà religiosa e libertà politica era in realtà il postulato fondamentale a cui quel libro rinviava di continuo; ad esso bisognava ormai rifarsi per rendere più coerenti e meglio fondati l’indagine storica e il giudizio etico-politico che essa recava in sé.

Nel marzo del 1937 Pio XI rese pubblica la condanna del razzismo nazista con l’enciclica Mit brennender Sorge. Bendiscioli scrisse allora Neopaganesimo razzista (1937). Il volumetto, steso in forma volutamente giornalistica, ebbe una larga diffusione. L’attacco frontale al razzismo tedesco era anche un modo intelligente ed accorto di combattere le correnti razziste che si annidavano nel fascismo e che, di lì a pochi mesi, avrebbero avuto partita vinta. Si trattava ormai di preparare la coscienza cattolica a opporsi consapevolmente all’introduzione dell’antisemitismo nella stessa legislazione italiana. Quando il peggio accadde, finì ogni residua illusione e cominciò nei confronti del fascismo un processo di rigetto, irreversibile e generalizzato, e quel che più conta in nome di valori su cui non si può mai transigere senza rinnegare le ragioni stesse dell’essere cristiani. Fu quello il preannuncio, e in un certo senso il primo inizio, della resistenza come rivolta religiosa e morale al disumanesimo nazifascista.

II. L’apporto filosofico (1925 – 75)

 Nella produzione filosofica anteriore alla fine del conflitto appare già qualche autore che poi avrà un ruolo preminente: Maritain dei Tre riformatori, tradotto da Giovan Battista Montini (1922), Guardini de La coscienza (1a ed. 1933; 3a ed. 1961), Sertillanges del profilo S. Tommaso d’Aquino (1a ed. 1931; 2a ed. 1946). Gli italiani sono presenti con saggi di E. Fenu su Freud (1a ed. 1934; 2a ed. 1943) e Bruno (1938) e con l’originale Schopenhauer di Pietro Mignosi, filosofo e scrittore siciliano di talento. Scritta nel ’26 e tradotta da Bendiscioli nel ’33, la Filosofia della tecnica di Friedrich Dessauer combatte il pregiudizio assai diffuso secondo cui la tecnica sarebbe di per sé malefica e renderebbe meccanica la vita, opponendosi al libero sviluppo della virtù creativa. Quella che il Mounier chiamerà «la paura del XX secolo» la si vince, invece, penetrando il significato della tecnica e inserendo con energia nella coscienza civile e politica il problema morale del suo uso. Sintesi creativa di elementi obbedienti a leggi naturali determinate, la tecnica nasce dall’intelligenza e dalla tenacia dell’uomo, anche se «nessuno intuisce tra quali dolori, a prezzo di quali sacrifici, tentativi falliti, scoraggiamenti risorgenti un’opera sia maturata». Il principio della ‘unicità delle soluzioni migliori’ («per ogni scopo appieno riconosciuto e determinato non vi può essere che una soluzione veramente ottima») sta a significare che le soluzioni esistono in potenza e che lo scienziato-tecnico converte l’essere potenziale di forme già date in una realtà attuale del mondo dell’esperienza [5].

Tre libri fanno spicco e si rileggono ancor oggi con vero godimento: Socrate di A. J. Festugière (1936), Pascal (1938) e Bergson (1937) di Jacques Chevalier. Si sono moltiplicati gli studi sul grande iniziatore della filosofia, ma il profilo di Festugière conserva intatta la sua freschezza. «La grandezza di Socrate – scrive epigraficamente lo studioso francese – è di aver condotto la Grecia all’età della ragione. Questa è la portata dell’assioma: ‘conosci te stesso’. Ogni azione dell’uomo è umana e morale, dato che è ragionevole. Vi è una perfezione che ci è propria e noi dobbiamo tendervi sotto pena di non essere più uomini» (p. 186). Tale saggezza è così chiara nel designare il nostro vero scopo di reclamare un completamento: l’uomo non si compie nella sua umanità se non sorpassandosi. Bergson, nelle pagine dedicate all’inquietante Sileno ne Le due sorgenti della morale e della religione, avrebbe sostenuto proprio la stessa tesi interpretativa: «l’insegnamento di Socrate, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione».

Chevalier è uno dei massimi studiosi di Pascal e pertanto il profilo che egli ci dà di colui che forse è il più contemporaneo tra i pensatori moderni è illuminante. Discepolo e amico di Bergson, egli ne tracciò l’itinerario della mente nel saggio appositamente scritto per la Morcelliana. In un ambiente dominato dall’idealismo fu impresa benefica e opportuna fa capire Bergson, liberarlo dal cliché irrazionalista e pragmatista, ascoltare la sua lezione di metodo. Péguy aveva colto nel segno quando aveva scritto: «La denuncia d’un intellettualismo universale, ossia di una pigrizia universale, la quale consiste nel servirsi di tutto ciò che è bello e pronto, è stata una delle grandi conquiste, l’instauratio magna, della filosofia bergsoniana. La filosofia bergsoniana vuol che si pensi su misura e non secondo formule standardizzate».

Bergson non solo aveva riaperto tutti i problemi, ma obbligava a fare altrettanto. Non si era attardata a combattere delle ombre, ma si era collocato alla presenza di fatti e problemi ben definiti, cercando di vederci chiaro, senza trappole dialettiche e senza apriorismi di sorta.

Dopo l’immane flagello del conflitto, la Morcelliana dà vita alla rivista mensile «Humanitas» (il primo numero è del gennaio ’46) e ad una vera e propria collana di filosofia. Si vuol cercare «una risposta alle inquietudini e ai problemi maturati dalle dolorose esperienze», attraverso il confronto con le posizioni più tipiche della cultura contemporanea e mediante uno sforzo di autocomprensione del pensiero cristiano. L’onere della cristianità esige la costituzione e il largo sviluppo di una filosofia francamente autonoma, che proponga le sue conclusioni sul terreno della discussione razionale. Con la guerra le filosofie ufficiali erano entrate in crisi. Persone di più generazioni, poste troppo spesso di fronte a una morte imminente e a spettacoli di atroce sofferenza, avevano imparato a ripiegarsi su se stesse e a pesare il valore di una vita così fragile e così cara. Quell’esperienza lasciò il suo segno. Oltre i sistemi onnivori, oltre la sicurezza orgogliosa delle ricerche particolari, tendenti ad oscurare i grandi problemi, che pure sono inseparabili dallo stesso esercizio dell’intelligenza, l’uomo tornava a scoprire in sé «l’animale che ha lo stupore d’esistere» e che si fa problema a se stesso.

Nel ’46 appariva la seconda edizione de Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale di Michele Federico Sciacca (1a ed. 1944). Al centro l’autore poneva la discussione svoltasi alla «Società francese di filosofia» intorno al problema di Dio e quella intorno all’esistenza e al valore di una filosofia cristiana. Henri De Lubac descriveva Il dramma dell’umanesimo ateo (il testo francese era apparso nel 1944, l’edizione italiana è del 1949), attraverso i suoi esponenti più tipici, Feuerbach Comte Nietzsche; ma ne rintracciava anche la catarsi e il superamento in Dostoevskij. Per il genio russo, tanto profondamente umano e cristiano (ed è l’uno in virtù dell’altro), non è che l’uomo sia incapace di organizzare la terra senza Dio; ma senza Dio egli non può, alla fine dei conti, che organizzarla contro se stesso.

Le opere decisive del periodo 1945 – 46 in campo filosofico vedono intrecciarsi felicemente direttrici diverse, senza esclusioni di sorta. Vi fu un alto contributo alla riscoperta seria e puntuale del significato filosofico, nel senso specifico del termine, del pensiero del padre dell’Europa cristiana con il S. Agostino di Sciacca (1949). È il libro più bello di Sciacca, anche se l’illustrazione diretta del suo pensiero personale è in Filosofia e metafisica (1950), in seguito rielaborata e pubblicata presso Marzorati nel 1962. Le correnti della «philosophie de l’esprit» e del realismo spiritualistico furono presenti con opere significative di Louis Lavelle e René Le Senne[6], con L’io e la ragione di Augusto Guzzo (1947)[7] e con i volumi Perché credo (1950) e Cattolicesimo e pensiero moderno (1953) di Armando Carlini. La traduzione dall’originale danese e la presentazione organica da parte di Cornelio Fabro del grande Diario di Kierkegaard (1a ed. 1948-1951; 2a ed. riveduta 1962) fu e rimane avvenimento di eccezionale rilevanza, essendo quel capolavoro punto di riferimento obbligato per ogni uomo di cultura e non solo per i filosofi. Il Socrate del Nord, infatti, è uno dei pensatori veramente universali, del cui tormentoso pungolo abbiamo sempre più bisogno in un’epoca come la nostra[8]. Contemporaneamente l’editrice fece conoscere tre maestri della rinascita tomistica: Ètienne Gilson, attraverso la sua opera migliore, Lo spirito della filosofia medievale (1a ed. 1947; 3a ed. 1969), Antonin-Dalmace Sertillanges, con Il cristianesimo e le filosofie (1a ed. 1948; 3a ed. 1956) e con Il problema del male (vol. I, 1951; vol. II, 1954) e Josef Pieper con i suoi inimitabili saggi[9]. Il confronto storico-critico del pensiero tomista con le più agguerrite correnti della filosofia contemporanea fu condotto soprattutto attraverso gli scritti di Fabro (Dall’Essere all’esistente, 1a ed. 1957, 2a ed. 1965; La fenomenologia della percezione, 1a ed. 1941, 2a ed. 1961; Percezione e pensieri, 1a ed. 1941, 2a ed. riveduta 1962) e L’idealismo e la storia di Nicola Petruzzellis (1957), opera fondamentale per l’insuperata analisi critica dello storicismo di Hegel, Croce e Gentile.

Il quadro della produzione filosofica va inoltre completato ricordando gli otto volumi del Trattato di filosofia di Régis Jolivet (1959-1966) e gli «Atti dei convegni di Gallarate», dal 1952 al 1974, convegni nei quali docenti di filosofia stranieri ed italiani di ispirazione cristiana mettono a fuoco ogni anno un problema. I temi dibattuti sono: la storia, la scienza, la pedagogia, la fenomenologia, il problema del valore, economia politica e morale, la prospettiva cosmologica, l’esperienza religiosa, l’ateismo, potere e responsabilità, il potere politico, sociologia e filosofia, tempo ed eternità nella condizione umana, ideologia e filosofia, evoluzionismo e storia, pensiero mitico ed analisi dell’esperienza, coscienza legge autorità, filosofia e religione,, storia ed escatologia, tradizione e rivoluzione, ontologia e assiologia, filosofie e teologie contemporanee. Tra le ‘guide di cultura’ non si può tacere di due opere pregevolissime: Gnoseologia di Sofia Vanni Rovighi (1963) e Psicologia di Giorgio Zunini (1a ed. 1948; 12a ed. 1975). La rivista «Humanitas» nel periodo 1945 – 1960 non dette spazio alla trattazione di problemi filosofici, se non in misura limitata[10]; costituiscono una eccezione i numeri speciali su S. Agostino (ottobre-novembre 1955), Antonio Rosmini (settembre-ottobre 1955) e Henri Bergson (novembre 1959).

Con il 1960 la direzione e la redazione dell’editrice e della rivista «Humanitas» passano nelle mani di uomini della generazione post-resistenziale. L’attenzione ai temi del rinnovamento conciliare diventa preminente; ma nello stesso tempo dalle pagine della rivista si invoca «una più vivace coerenza», un più franco coraggio nell’essere presenti «con la parola e il giudizio» in tutte le discussioni più rivelatrici della nostra epoca. La frattura tra politica e cultura è apertamente denunciata come l’insidia più pericolosa per lo sviluppo democratico della comunità nazionale e in primo luogo per i cattolici direttamente impegnati nell’azione politica. «È necessario parlare chiaro: occorre un nuovo modo d’intendere l’informazione, di comunicare le opinioni e le idee»: così suonava l’Invito al discorso politico apparso nell’aprile 1960 in «Humanitas». Ma quanto più aperto è il dibattito sui modi del rinnovamento e sulle reali situazioni storiche, tanto più si avverte la necessità di immettere sistematicamente nella nostra cultura pensatori di vasto respiro, di elevata meditazione, d’intensa ricchezza spirituale. Bisogna essere tanto moderni da rifiutare la mitopoiesi di tanta parte del pensiero moderno. Il pensiero cristiano è in continua gestazione e conosce sviluppi molteplici, ma è altresì impegnato a rivendicare le sue indeclinabili esigenze di unità sostanziale, continuità vitale, coerenza logica[11]. Di qui l’impegno dell’editrice di pubblicare l’opera omnia di due tra i più illustri maestri dell’ultimo mezzo secolo: Jacques Maritain e Romano Guardini. Di Maritain in Italia si conosceva quasi soltanto Umanesimo integrale (1a ed. Studium, Roma, 1946; 4a ed. Borla, Torino, 1968). Oggi si possono leggere opere come I gradi del sapere (1974), L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia (1957), Filosofia morale (1971), Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente (1965), Filosofia della natura (1974), Il contadino della Garonna (1a ed. 1969; 7a ed. 1975). Il pensiero di Maritain, come quello di ogni filosofo di razza, si evolve, si autocorregge, cerca conferme e sviluppi di opera in opera; ma esso possiede una rara capacità di sintesi, un senso potente dell’unità e sa veramente «distinguere per unire» (è l’insegna, il programma della sua opera maggiore). La filosofia maritainiana a qualcuno non sembra apportare che l’eco affascinante del passato; ma altri, per servirci di un’espressione bergsoniana, «vi sentono già il canto gioioso dell’avvenire», perché essa sa proporre la dottrina di una umanità sempre in ricerca, ma che ha trovato, su alcune questioni fondamentali – facendo leva su tutto ciò che in qualsiasi campo è razionalmente dimostrato, collegandosi a dati controllati che non possono essere sacrificati a vane chimere – una base solida e ampia per impostare correttamente e avviare a soluzione i problemi della vita[12].

Romano Guardini, felicemente definito «un matrimonio mistico tra anima romana ed anima germanica», veronese di nascita e tedesco per formazione, è una delle figure più eminenti della cultura europea degli ultimi cinquant’anni. Bendiscioli, che per primo in Italia ne comprese la grandezza e si adoperò a farlo conoscere, ne abbozzò il ritratto in Romanesimo e germanesimo nel lontano 1933. «Castigatezza di forma e plastica vivezza di stile, senso della comunità e intensità di vita personale, rispetto dell’ordine oggettivo e vivace affermazione consapevole del soggetto e del suo mondo interiore» (p. 45). «Pur combattendo l’individualismo come isolamento e depauperamento della personalità nel suo distacco dal concreto ambiente sociale ed il soggettivismo come rinuncia alla molteplice ricchezza del cosmo, Guardini sostiene la cultura, non il culto di sé, e si preoccupa di salvare le esigenze della personalità; come latino, infatti, intuisce il valore del motivo germanico della interiorità e dell’individualità» (p. 46). La parola di Romano Guardini risalta per la calma assenza della controversia e per la sua visione dell’ortodossia, che è cattolica in quanto universale, inclusiva cioè e non esclusiva, capace di penetrare fino in fondo l’umano proprio perché idonea a integrarlo nel compimento cristiano. Nella lotta contro la presente negazione di Dio, Guardini ha dedicato la propria vita al compito di rendere possibile nella nostra epoca un’esistenza cristiana, determinandone il significato ed i valori. Egli ci ha insegnato che questa lotta non può essere condotta con le sole armi della controversia teologica e non più nello stile della vecchia apologetica. Quando, infatti, in luogo dell’attacco subentra l’indifferenza, un’opposizione diretta non ha più un significato. La battaglia deve essere combattuta ora sul terreno dell’avversario. Si deve dimostrare che il mondo, con la sua pretesa assoluta, contraddice se stesso; che esso non può volere il regno dell’uomo, senza oltrepassare allo stesso tempo i limiti stessi di tale regno; che esso, ignorando l’ultima, non può rimanere sempre attaccato alla penultima realtà, per così dire, senza perdere anche quella. Poiché il compito di realizzare un’esistenza cristiana non è affidato all’uomo in genere ma a noi, figli dell’epoca moderna, la risposta all’appello evangelico deve dunque scaturire dalla profondità dell’esistenza storica dell’uomo moderno. Guardini lottò contro l’ateismo, il totalitarismo, l’idolatria tecnologica, cioè contro quelle illusioni tragiche che portano l’uomo moderno alla schiavitù spirituale, al caos, al demonismo. Egli sapeva che il mondo storico è proiettato «in avanti» e la risposta all’interrogativo «che cosa sarà?» è inseparabilmente bipolare per ogni cristiano, chiamato a congiungere e a testimoniare una speranza trascendente ed una responsabilità immanente, assunta con coraggio[13].

III. Gli studi storici e l’impegno civile dopo il ’45

 Non pochi degli uomini di cultura e di fede che in Brescia erano stati tra i più fervidi animatori dell’attività della Morcelliana si impegnarono nella lotta resistenziale e ne conobbero direttamente i rischi. Quell’esperienza non andò perduta. Fu uno di quegli acquisti fatti per sempre, da cui partire per una più vigorosa definizione dei propri compiti in una fase storica nuova, mossa, aperta all’iniziativa e alla libertà.

Tra i quaderni di «Humanitas» apparvero ben presto Autobiografie di giovani del tempo fascista (1947), La psiche germanica (osservazioni sulla psicogenesi del totalitarismo) di G. Lami (1948) e il breve, denso saggio La persona e il bene comune di J. Maritain (1948). Unitamente agli intellettuali delle altre nazioni europee, cristiani e non cristiani discutevano liberamente in «Humanitas» su La cultura oggi e i suoi problemi (agosto-settembre ’49), Cattolicesimo e marxismo (maggio ’50), Che cos’è l’Europa (agosto-settembre ’50), La Germania oggi (aprile ’51), Idea europea e concetto di nazione (ottobre-novembre ’56). Vi sono in quei fascicoli non solo scritti ‘datati’, il cui valore si esaurisce appunto nell’attestare un certo orientamento degli animi, ma anche scritti in cui si esprime una problematica viva e tormentata, una nobile ansia di chiarezza morale e intellettuale, un’ardita prospettazione del futuro. La rivista informa assiduamente sulla persecuzione nazista alle chiese cristiane, rivaluta il cattolicesimo liberale e Rosmini, difende apertamente Maritain dall’ingiusto attacco di P. Messineo, esprime giudizi critici attentamente meditati su P. Gemelli e sui Patti Lateranensi.

Nella nuova serie, quella che comincia col gennaio del ’60, la rivista allarga la cerchia dei collaboratori. Gabriele De Rosa, Raffaele Colapietra, Giorgio Gualerzi, Lorenzo Bedeschi, Pietro Scoppola, Bruno Bertoli, Giacomo Martina e tanti altri portano nelle loro indagini storiche una acuta sensibilità per il cattolicesimo sociale, per l’esperienza sturziana, per la crisi dello stato liberale, per i rapporti tra stato e chiesa durante il fascismo; così come Chenu, Domenach, Aranguren lumeggiano la tensione dinamica tra morale e politica, tra politica e religione, tra mondo del lavoro e annuncio evangelico. I numeri speciali della rivista su Aspetti e figure del Risorgimento (agosto-settembre ’61), A cento anni dalla breccia di Porta pia (agosto-settembre ’70), Concordato: revisione o superamento? (gennaio-febbraio ’74) La resistenza trent’anni dopo  (ottobre ’75) sono momenti di un dibattito che è storico, ma che tende altresì a farsi strumento di verifica e di risveglio della coscienza civile.

Nel campo degli studi storici propriamente detti le pubblicazioni abbracciano un arco di tempo di oltre un millennio, dall’Europa nell’età medievale dal 900 al 1250 di K. Hampe (1963) ai due volumi De Gasperi scrive (1975). I contributi più numerosi e importanti riguardano l’età delle due riforme religiose e l’età contemporanea, con particolare riferimento alla storia del movimento cattolico dell’Ottocento e del Novecento in Italia. Fa quasi da introduzione al primo argomento la poderosa e affascinante opera di G. De Lagarde, Alle origini dello spirito laico. I due volumi già pubblicati (vol. I, Bilancio del XIII secolo, 1961; vol. II, Stato e chiesa nei secoli XIII e XIV, 1965) mostrano con quale rigore e maestria l’autore ha indagato uno dei fattori essenziali della vicenda storica dell’occidente cristiano. L’effettivo pensiero di Innocenzo III, il senso «laico» insito nello sviluppo degli ordini mendicanti e nel costruirsi delle nazioni e dei comuni, la disputa tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello, la filosofia sociale della scolastica vengono individuati e inquadrati in una sintesi organica, fortemente documentata ma del tutto priva di pesantezze erudite.

Hubert Jedin ha dedicato la sua vita di ricercatore indefesso e appassionato a un’opera che rimarrà tra i classici della storiografia del nostro tempo, la Storia del Concilio di Trento. Dopo vent’anni di studi preparatori, nel 1949 Jedin pubblicava il primo volume della Storia del Concilio di Trento, contemporaneamente in edizione tedesca e italiana (1a ed. 1949; 2a ed. 1973). Dopo ventisei anni, nel 1975 l’illustre maestro ha potuto completare la sua fatica e consegnare il testo del quarto e ultimo volume, che apparirà in due tomi. Dal tempo del Sarpi gallicano e del Pallavicino curiale, il mondo attendeva una storia del Concilio di Trento, che non fosse più un atto di accusa o di difesa. Ranke riteneva che fosse una cosa impossibile, anche perché ai suoi tempi nessuno aveva accesso alle fonti più importanti. L’ostacolo fu superato e, anzi, una delle difficoltà maggiori oggi deriva dalla tremenda vastità delle fonti e dalla necessità di dominare distinti ma interferenti ambiti di conoscenze. Più di una volta all’autore venne la tentazione di posare la penna, ma Jedin non lo fece perché virilmente convinto che «dalla volontà e dalla capacità di arrivare ad una sintesi dipende la prosecuzione della nostra esistenza spirituale». Forse solo un tedesco che ha conquistato le ragioni di un’adesione profonda al cattolicesimo poteva scrivere un’opera come questa, sempre tesa a cercare di comprendere e di chiarire le posizioni via via assunte dall’altra parte e sempre pronto a dire apertamente spiacevoli verità nei confronti della propria parte. Jedin fa scrupolosamente suo l’insegnamento di Leone XIII contenuto nella lettera del 18 agosto 1883 indirizzata ai cardinali De Luca, Pitra e Hergenröther: Primam esse historiae legem, ne quid falsi dicere audiat, deinde ne quid veri non audeat; ne qua suspicio gratiae sit in scribendo, ne qua simultatis. La critica ha detto, e con un consenso che assai di rado si verifica, quanto la Storia di Jedin abbia corrisposto a questo ideale regolativo, e non è certo un caso che essa sia una delle opere di storia religiosa che si sono maggiormente imposte all’attenzione degli storici laici, ottenendo che le grandi tensioni religiose del Cinquecento fossero plenariamente reintegrate nel quadro della storia generale, occupandovi anzi un posto sempre più privilegiato. Jedin non persegue scopi ecumenici o controversistici, ma il lungo e faticoso lavoro di ricerca e sistemazione, fornendo una nuova e decisiva interpretazione anche dottrinale delle due riforme, supera nettamente il piano controversistico e, praeter intentionem, dà un contributo indiretto ma efficace anche all’orientamento ecumenico che caratterizza la coscienza cristiana contemporanea. Jedin giustifica sul piano metodologico, commenta, situa il suo capolavoro in altri scritti, quali Il tipo ideale del vescovo secondo la riforma cattolica (1950), Riforma cattolica o controriforma? (1a ed. 1957; 3a ed. 1974), il grosso volume Chiesa della fede Chiesa della storia (1972) e l’Introduzione alla storia della Chiesa (1973). Sul periodo delle riforme meritano particolare menzione i contributi arrecati da Joseph Lecler nella Storia della tolleranza nel secolo della Riforma (vol. 2, 1967) e da Massimo Marcocchi nella raccolta di documenti e testimonianze su La Riforma cattolica. Lecler ha studiato il problema della tolleranza in se stesso, in un periodo quanto mai intenso, quando lo spezzarsi della cristianità pose con singolare acutezza il problema del pluralismo religioso nello stato. La posta in gioco è forte e coinvolge non solo gli interessi della coscienza, ma anche le esigenze della religione. Tra l’altro si tratta di sapere, in definitiva, fino a dove possa estendersi la cosiddetta missione religiosa dello stato. Le meditate conclusioni cui perverrà il Lecler arricchiscono senza dubbio la storia generale, sia perché inducono a esaminarla da un nuovo punto di vista, sia perché lo storico francese tiene conto delle strette correlazioni allora esistenti tra gli stati della cristianità e pertanto non si limita a studiare il problema della tolleranza in un solo paese per non spezzarne la prospettiva. Lecler, storico di grande finezza, può a ragion veduta ammonire che «la trascuratezza delle sfumature non risulta favorevole alla obiettività».

Marcocchi ci ha dato due poderosi volumi di documenti e testimonianze sulla genesi, sull’efficacia storia, sull’ampiezza de La Riforma cattolica (vol. I, 1967; vol. II, 1970). L’opera può essere considerata «una raccolta di fonti sussidiarie della Storia del Concilio di Trento di H. Jedin», secondo l’autorevole giudizio di Bendiscioli (Introduzione al vol. I, p. 30). Nella grande antologia, in cui ogni brano ha un preciso inquadramento, è spiccata la preferenza per il «momento dell’iniziativa dal basso», per l’aspetto della spontaneità e dell’interiorità delle coscienze nella riforma cattolica, così come si va svolgendo tra il secolo XV e la prima metà del secolo XVII.

Fa da sutura, tra l’età della protesta e del Concilio di Trento e quella contemporanea, la meditata opera di Giacomo Martina, La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, che va da Lutero ai nostri giorni (1a ed. 1970; 2a ed. 1974). L’ampia tematica è affrontata sotto il profilo storico con acutezza di informazioni, con mirabile sforzo di obiettività e con sicura competenza teologica e giuridica. A. C. Jemolo e Paolo Brezzi hanno posto in risalto l’importanza dell’opera per il dibattito culturale che va coraggiosamente approfondito nel nostro paese, se si vogliono superare contrapposizioni rozze e infondate, nate da veri e propri «pregiudizi», duri a morire soprattutto se volgarizzati e avallati da un certo tipo di intellettuali privi sia di senso storico che di autenticità morale.

La «Biblioteca di Storia Contemporanea», diretta da Gabriele De Rosa, fu iniziata nel 1963 e comprende ormai oltre trenta volumi. Di essi vanno segnalati in primo luogo quelli che hanno il merito di mettere a disposizione degli studiosi testi divenuti ormai introvabili: La riforma dello stato e il problema regionale di Stefano Iacini (1a ed. 1968; 2a ed. 1975) a cura di F. Traniello; le Cronache italiane di Vilfredo Pareto, a cura di C. Mongardini (1965); Gli atti dei congressi del Partito Popolare Italiano, raccolti e inquadrati da F. Malgeri (1969), una vera e propria miniera di informazioni e di idee; Il potere cristiano di J. Donoso-Cortés (1965); Il diario di Don Minzoni (1965), il parroco di Argenta ucciso dieci mesi prima di Matteotti, e gli Scritti Politici di F. Lanzoni a cura di L. Bedeschi (1965). A questo gruppo appartengono anche gli Ultimi scritti politici di G. Bernanos (1964), Religione e politica (popolari liberali e fascisti nella lotta politica 1919-1924) di Vito G. Galati, un libro edito da Gobetti nel 1925, e, in un certo senso, Sindacalismo rivoluzionario e umanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio di R. De Felice (1966).

Numerosi sono gli studi incentrati su personaggi espressivi di correnti e movimenti che ebbero un loro peso nella storia del nostro paese: Carlo Santucci e i conservatori nazionali (G. De Rosa), Vito d’Ondes Reggio (E. Frattini), Luigi Cerutti (S. Tramontin), il cardinal Svampa (A. Albertazzi), Salvatore Minocchi (A. Agnoletti), Geremia Bonomelli ( C. Bellò), Felice Cavallotti e la democrazia radicale (R. Colapietra), Alfredo Rocca (Ungari). Né meno interessanti sono gli studi su periodi e aspetti finora meno indagati: il decennio 1820-30 in Italia (S. Fontana), il pontificato di Leone XII (R. Colapietra), la questione demaniale nel Mezzogiorno (A. Cestaro), la democrazia italiana e l’emigrazione in America (G. Dore), la stampa cattolica a Roma dal 1870 al 1915 (F. Malgeri). La collana comprende anche scritti di valenti storici europei.

Documento, agile, acuto è il saggio di Heinrich Lutz (1970) I cattolici tedeschi dall’Impero alla Repubblica (1914-1925). L’autore ci dà un ritratto non solo delle vicende politiche, ma soprattutto del dibattito delle idee, scrivendo pagine molto belle su Max Scheler, su Friedrich Wilhelm Foerster e su Romano Guardini.

Maurice Vaussard, il migliore interprete francese delle vicende del movimento cattolico contemporaneo in Italia, delinea Il pensiero politico e sociale di Luigi Sturzo (1966), in modo essenziale e anche stilisticamente efficace. Sullo stesso tema ritorna ne L’utopia politica di Luigi Sturzo (1972) Gabriele De Rosa per tentare, con la competenza che su quell’argomento gli è da tutti riconosciuta, una precisa collocazione del grande siciliano nella storia d’Italia, intendendo il termine utopia come ipotesi di lavoro e critica delle istituzioni politiche e sociali.

Di Émile Poulat nel 1967 furono tradotte le opere Storia, dogma e critica nella crisi modernista (1902-1907) e I preti operai (1943-1947). I due libri attestano il vasto moto di rinnovamento cattolico, un insieme di aspirazioni e di tendenze a comporre il dissidio fra la Chiesa e la società, a vari livelli, in uno «spietato confronto» di idee, di documenti, di interpretazioni del senso cristiano della vita e della cangiante realtà sociale, da lasciare spesso col fiato sospeso. Queste opere – è stato detto – rischiano di porre al lettore più questioni di quante non ne riescano a risolvere. Ma non è forse un pregio?

In questa rassegna rientrano a giusto titolo due scritti di A. De Gasperi, Lettere sul Concordato (1a e 2a ed. nel 1970), con saggi di M. R. Catti De Gasperi e G, Martina, e i due volumi De Gasperi scrive (1974). L’epistolario degasperiano ha contribuito a rimettere in discussione la figura del leader trentino che la politica, con le sue polemiche e le sue esigenze di propaganda, aveva creato. «Rispetto al De Gasperi della politica prende corpo un De Gasperi della storia» – ha scritto Pietro Scoppola («Humanitas», marzo 1975, p. 234). Infatti si delinea finalmente una immagine dello statista cattolico più ricca, più complessa, più spessa di quella che il suo stesso partito da un lato, i suoi avversari dall’altro, avevano accreditato. De Gasperi ebbe una consapevolezza così acuta dei guasti introdotti dal fascismo negli italiani e sulla stessa mentalità dei cattolici da impegnare tanta parte dei suoi sforzi a scongiurare il pericolo di una formazione di cattolici a destra della DC, formazione il cui successo avrebbe significato per noi il gemellaggio con la Spagna e il Portogallo e non certo la garanzia di un quadro democratico e liberale per la vita politica italiana. La corrispondenza De Gasperi-Sturzo mette in evidenza il disegno complesso del leader trentino sul problema istituzionale – cioè giungere alla repubblica con i più larghi consensi e senza lacerazioni nel mondo cattolico, eliminando ogni sospetto di un colpo di mano dei partiti contro la volontà della maggioranza popolare – e smentisce così, indirettamente ma in modo inequivocabile, l’accusa rivoltagli in una lettera da Dossetti («tu hai voluto la monarchia», vol. I, p. 289) di aver favorita la soluzione monarchica. Lo scontro De Gasperi-Dossetti dopo il ’48 è rivelatore di due diverse mentalità: il capo della sinistra della DC voleva un partito autonomo portatore di un disegno di radicale rinnovamento della società e dello stato; De Gasperi realisticamente non vedeva nell’Italia post-fascista una maturità democratica tale da sostenere quel disegno e anzi cercava in un’alleanza laica una garanzia contro le spinte integralistiche. Di particolare interesse le lettere a Togliatti, che nella loro limpidezza, senza tortuosità e sottintesi, con visione storica ampia e duttile, dibattono quei problemi che oggi ci incalzano così da presso. In ogni caso, a un quarto di secolo di distanza da quegli avvenimenti, gli storici di ogni tendenza possono legittimamente convenire nel riconoscere che De Gasperi spinse i comunisti a una opposizione di governo e non di regime (e gli anni ’50 erano gli anni dello stalinismo e della minaccia incombente di un nuovo conflitto mondiale) e rifiutò, fino all’ultimo, lo schieramento di destra per dare spazio alla politica centrista, che allora, in un’età dominata dalla «guerra fredda», era forse la sola politica democratica possibile in una situazione come la nostra.

* * *

Al di là delle inevitabili omissioni e delle nostre personali valutazioni, il bilancio di mezzo secolo di vita della editrice bresciana attesta un tipo di presenza, negli studi storici e filosofici così come nell’impegno etico-civile, di cui sarebbe vano dissimulare il ruolo e l’importanza. La Morcelliana, pur nella limitatezza dei mezzi, non ha ceduto alle suggestioni della moda, del mercato, della propaganda di parte. È stata sostanzialmente capace di darsi uno «stile» ed una precisa ragion d’essere nel mondo della cultura, nella serena consapevolezza che la cultura autentica non è tale se non è costantemente percorsa e vivificata da un pensiero vigile, se scissa dalla vita morale, se chiusa ai valori della coscienza religiosa. Oggi più che mai la vita individuale e sociale ha bisogno di linfe e di reattivi, ma gli uni e le altre scaturiscono solo dalle sorgenti più pure della spiritualità, che è sempre meditata consapevolezza, onde la vita s’illumina e si schiarisce nel suo significato altamente umano.

[1] Humanitas, 1976.

[2] «Se noi a buon diritto respingiamo gli ebrei dalla politica, dall’economia, dall’arte, dal diritto, non possiamo certo ricevere da essi la nostra religione. Noi non riconosciamo alcuna religione internazionale dell’umanità, perché i popoli e le razze sono diversi. Noi non crediamo più allo Spirito Santo, crediamo alla santità del sangue». Queste parole d’un foglio studentesco di Kiel, riportato in  «Christliche Welt» del 16 marzo 1935, esprimono bene la logica irreligiosa dell’antisemitismo; vale a dire il suo sfociare fatale nell’anticristianesimo.

[3] Il cardinale di Monaco non s’era accontentato di rivendicare i valori morali e religiosi dell’Antico Testamento, lumeggiandone la funzione subordinata rispetto al messaggio di Gesù; passando alla controffensiva, aveva messo in rilievo l’apporto incontestabile di civiltà di cui il mondo germanico era debitore al cristianesimo. «Certo il dogma della razza fu abolito dal dogma della fede» (p. 171), alle cui ragioni va subordinata ogni considerazione razziale. «Noi non siamo stati redenti dal sangue tedesco, bensì dal sangue di Nostro Signore» (p. 172). E per noi che abbiamo visto la catastrofe della Germania nazista hanno un suono profetico le seguenti parole: «Il popolo tedesco o sarà cristiano, o sarà nulla, perché un’apostasia del cristianesimo e una ricaduta nel paganesimo sarebbe il principio della fine del popolo tedesco» (pp. 153 – 154).

[4] Quando nel luglio del 1934 il cancelliere austriaco Dollfuss fu assassinato dai nazisti, il dramma dell’Austria commosse l’opinione pubblica europea e, in particolare, quella italiana. Ma per i cattolici l’Austria non era solo una repubblica mal congegnata, alle prese con ostacoli troppo grandi; era un paese che per secoli era stato l’antemurale dell’Europa e una roccaforte della cultura cristiano-tedesca. Da questo particolare stato d’animo nacquero due volumetti che apparvero nel ’35: La vita interiore di Ignazio Seipel di M. Bendiscioli e L’eredità politica di Dollfuss a cura di A. Tauscher e M. Bendiscioli.

[5] Dessauer lumeggia la finalità intrinseca alla tecnica («la rigorosa conformità allo scopo»), la sua destinazione etica e sociale, il suo carattere di  «superamento degli ostacoli derivanti dalle leggi naturali». La guerra avrebbe fatto toccar con mano a tutta l’umanità quanto tremenda e reale sia la possibilità di usare la scienza e la tecnica contro l’uomo. Fu un altro tedesco, Friedrich Muckermann, a riprendere il problema da un punto di vista non epistemologico, ma esistenziale, ne L’uomo nell’età della tecnica, scritto in un nascondiglio, in Francia, nel 1942, senza libri da consultare, ma con intensa partecipazione alle angosce dell’umanità contemporanea (trad. it. 1950). Altro volume del Dessauer edito dalla Morcelliana è L’uomo e il cosmo (trad. it. 1951).

[6] Ne La filosofia francese tra le due guerre (1918-1940), in edizione italiana nel ’49, Lavelle ci dà una serie di «cronache filosofiche» di rara lucidità e penetrazione. La discussione metafisica e l’aspetto psicologico si fondono perfettamente in uno stile elevato e chiaro. Gli studi sul cartesianesimo, Bergson e Le Roy, Blondel e Brunschvicg, Lalande e Meyerson, le correnti filosofiche sono i temi di un discorso unitario, che è storico e insieme teoretico. La «filosofia dello spirito» si misura apertamente con chi tiene, a priori, in sospetto tutti gli sforzi con i quali la coscienza tenta di raggiungere nel suo essere il legame con l’Essere assoluto, e cerca di approfondire la propria vita interiore per illuminarla e purificarla. Ma in che modo ridare a ciascuno una coscienza chiara e ferma dell’attività interiore, che procede da un’attività assoluta alla quale l’uomo attinge continuamente, per la quale è in comunicazione con tutto ciò che è ed assume, rispetto a se stesso e a tutto l’universo, una responsabilità che gli è impossibile declinare? A questo interrogativo Ostacolo e valore di Le Senne (1950), tradotto con vera arte da Cordelia e Augusto Guzzo, offre molto al lettore attento per una risposta sul piano metafisico e morale.

[7] Il libro del Guzzo, meditato in ogni sua affermazione, è una delle poche opere filosofiche veramente creative. L’io e la ragione merita la più grande attenzione sia per la «teoria» sistematica e per le «discussioni e giustificazioni», che costituiscono una difesa della teoria ed un modello di discorso filosofico di cui non possiamo smarrire l’ispirazione e i procedimenti senza rinunciare all’attività stessa del filosofare.

[8] Kierkegaard ci insegna la necessità dell’opzione e nessun insegnamento è oggi più opportuno di questo. Malgrado le apparenze, la scelta è quanto di meno comune esiste nella nostra epoca, non soltanto nel campo dell’azione, ma nell’ambito stesso dello spirito. Quest’epoca coltiva la confusione dei concetti e, ora valendosi della statistica, ora facendo ricorso a una presunta «base reale», dissolve i contrasti e riduce tutto all’omogeneo. Tutti i misteri umani e divini vengono ridotti a problemi la cui soluzione è talmente semplicistica che non ci vuole molto ad accorgersi della sua mediocre qualità. Si tratta sempre di volatilizzare le difficoltà, di annullare le differenze, di creare dei compromessi, di fare dell’abilità la regola di pensiero e dell’azione (e si sa, purtroppo, osserva Kierkegaard, che «l’abilità consiste nel testimoniare falsamente, per tutta la vita, contro l’eterno, nel sottrarre a Dio la nostra esistenza»). Lo spirito di sintesi si riduce alla troppo facile tattica di conciliare i contrari, il che è esattamente l’opposto del precetto, pascaliano e kierkegaardiano, di «tenere i contrari». L’abitudine di pensare estensivamente segna la rovina del vero e dell’universale a vantaggio del generale. L’epoca intera tende a divenire comitato e il gusto del gregario contamina la vita stessa dello spirito.«»«»

[9] Joseph Pieper, dal 1950 professore di filosofia all’università di Münster, partendo dalle sollecitazioni del pensiero contemporaneo, centra la sua riflessione filosofica nel far scoprire le risposte serie ed autentiche che la tradizione classica e cristiana può dare agli interrogativi di sempre. La Morcelliana ha tradotto del Pieper: La fine del tempo (1954), Otium e culto (1956), Sulla fortezza (1956), Sulla giustizia (1956), Sulla prudenza (1956), Sulla temperanza (1957), Sulla speranza (1960), Felicità e contemplazione (1962), Sulla fede (1963), Speranza e storia (1969), Sull’amore (1973).

[10] I pensieri e le meditazioni pubblicati su  “Humanitas”, da Goriano di Gona e da Apricus, gli pseudonimi di Sciacca, pur nella loro apparente frammentarietà, svolgono un lavoro di snebbiamento e di demistificazione nei confronti di una certa mentalità pseudo-dialettica e della crisi del costume che l’accompagna. Questi scritti sono raccolti nel volume In spirito e verità (1952).

[11] Il pensatore spagnolo José Luis L. Aranguren ha dato un contributo significativo con Etica e Politica (1966) e soprattutto con Cattolicesimo e protestantesimo come forme di vita (1961), le cui pagine rivelano un autentico «esprit de finesse» nel mettere in luce, in prospettiva antropologica la «disposizione religiosa» di Lutero, Calvino, Barth, Pascal, Ignazio da Loyola, Unamuno. Louis Bouyer nel suo Erasmo tra umanesimo e riforma 81962) ha restituito a Erasmo i tratti che gli sono propri, sottolineando la continuità d’ispirazione del pensiero umanistico cristiano e l’improponibilità del cosiddetto modernismo erasmiano. Un particolare rilievo meritano le due opere che ci danno forse il meglio di Luigi Stefanini: Trattato di estetica (1a ed. 1954; 2a ed. 1960), l’inventario e l’elaborazione critica dell’esperienza conseguita dal Croce in poi sulla complessa e ardua problematica del fatto estetico, e Personalismo filosofico (1962), l’ultima e più matura definizione della sua posizione speculativa.

[12] Il pensiero politico è un aspetto importante della Weltanschauung del filosofo francese, ma sarebbe una grave mutilazione ridurre, come si è soliti fare, ad esso tutto Maritain. Sull’argomento si possono leggere nelle edizioni della Morcelliana: H. Bars, Il pensiero politico di Maritain (1965), G. Campanini, L’utopia della nuova cristianità (1975). Campanini è autore anche di uno studio sul pensiero politico di E. Mounier, La  rivoluzione cristiana (1968): L’editrice ha pubblicato di Maritain-Mounier la Corrispondenza 1929-1939. Delle tante cose inesatte, talora persino stolte, che i filistei dello pseudo-progressismo hanno scritto su Maritain dopo la pubblicazione de Le paysan de la Garonne, ha fatto giustizia il quaderno  monografico di «Humanitas» a cura di Antonio Pavan, L’ultimo Maritain (agosto-settembre 1972). «Al suo inizio il nostro discorso – scrive giustamente V. Melchiorre – incontra il luogo comune di un ‘secondo’ o di un ‘altro’ Maritain, quello che con la protesta della Garonna si sarebbe rivoltato contro l’autore di Humanisme intégral e contro coloro che ne avevano tratto forza e vigore per una nuova cristianità. Vorremmo subito dire che un’opinione del genere non avrebbe dovuto nascere. L’evidenza di un messaggio e di una continuità era a portata di mano e non solo perché Maritain la reclamava con risentito vigore» (p. 589).

[13] H. Kuhn, nel suo profilo Romano Guardini – l’uomo e l’opera (Morcelliana, Brescia, 1963) fa emergere con chiarezza le componenti del pensiero del Nostro, così come H. Urs von Balthasar, Romano Guardini – riforma dalle origini, Jaca Book, Milano, 1970. Su Guardini filosofo ha scritto V. Melchiorre in La coscienza utopica, Vita e Pensiero, Milano, 1970. Ampi e analitici sono i due volumi di A. Babolin, Romano Guardini filosofo dell’alterità, Zanichelli, Bologna 1968.