Fonte: Seneca. L’immagine della vita a cura di Matteo Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998.
LE OPERE DI SENECA
Le opere di Seneca possono essere classificate utilmente in sei gruppi: i “Dialoghi”; gli scritti programmaticamente politici “La clemenza” e “I benefici”; le “Questioni naturali”; le “Lettere a Lucilio”; le “Tragedie”; infine, due opere atipiche, la “Metamorfosi in zucca del divo Claudio” e gli “Epigrammi”.
Con quel termine sono designati i dodici scritti inclusi nel “codex Ambrosianus”. Quel codice, che risale alla fine del secolo XI, reca il titolo “L. Annaei Senecae dialogorum libri num. XII”.
Tre scritti sono “consolationes”:
“Ad Marciam”, l’amica che aveva visto distrutta la sua famiglia nel volgere di pochi anni;
“Ad Helviam matrem”, perché accetti con serenità l’immeritato esilio del figlio;
“Ad Polybium”, il solo che possa intercedere presso Claudio affinché usi clemenza per il recluso in Corsica.
Il genere della “consolatio” si inserisce in un’antica tradizione, resa illustre a Roma da Cicerone, che ne aveva indirizzata una a se stesso dopo la morte della figlia Tullia. L’ “Ad Marciam” è molto probabilmente l’opera prima di Seneca. Marcia era figlia del senatore e storiografo Aulo Cremuzio Cordo, messo a morte da Tiberio per delitto di opinione, avendo elogiato i cesaricidi in cui vedeva i campioni della libertà contro la tirannide. In quel tempo la povera donna perdette, uno dopo l’altro, anche i due figli maschi. Cercò rifugio negli studi e ottenne da Caligola il permesso di ripubblicare i libri del padre; ma ciò non bastò a vincere la disperazione. Per questo, a tre anni dalla morte per suicidio del secondo figlio, Metillo, il filosofo compose per l’amica il suo scritto. La data di composizione risale, quindi, anteriormente alla svolta tirannica impressa da Caligola al suo regno dall’ottobre 39.
Le altre due “consolationes” furono scritte in Corsica. L’ “Ad Helviam” è opera degna dell’immagine di un filosofo, ma qui il filosofo è anche il figlio che si confida con la madre nel momento stesso in cui cerca di lenirne il dolore. La legge concede alle vedove dieci mesi per piangere il marito defunto; è un periodo di tempo ragionevole, scrive Seneca, perché anche una madre riesca ad assorbire i colpi a lei inferti dalla disgrazia toccata al figlio. Questo passo induce a datare lo scritto sul finire del primo anno di esilio, anteriormente, quindi, all’ “Ad Polybium”. Lo scritto dedicato al potente liberto dell’imperatore è un atto politico, sia perché mira a uno scopo preciso ( che si ponga fine all’esilio del filosofo), sia perché intende ricordare a Claudio le aperture e le nobili intenzioni che caratterizzarono l’inizio del suo regno. Nell’ “Ad Polybium” una frase sembra indicare nel 43 l’anno della sua composizione: Seneca si augura di poter assistere ai trionfi che Claudio sta per celebrare ed effettivamente, all’inizio del 44, all’imperatore fu tributato il trionfo per la vittoria sulla Britannia.
Gli altri nove scritti sono:
De providentia;
De constantia sapientis («La fermezza del sapiente»);
De ira;
De vita beata («La vita felice»);
De otio («La vita ritirata»);
De tranquillitate animi;
De brevitate vitae.
La successione con la quale questi dialoghi sono elencati nel codice non sta affatto ad indicare un ordine cronologico. Le ipotesi verosimili per situare nel tempo questi dialoghi ci vengono da allusioni all’una o all’altra vicenda della vita di Seneca; tuttavia, eccetto pochi casi, il margine di approssimazione rimane molto ampio. Gli scritti filosofici – che Quintiliano (Ist. or. 10, 1, 129) e la tradizione hanno designato col termine di “Dialoghi” – non hanno nulla in comune con quelli di Platone o di Cicerone, che mettono in scena più personaggi. Quel nome sta solo a dirci che Seneca non espresse le sue riflessioni in un modo astratto, ma in un colloquio con se stesso. Mettendo per iscritto il movimento stesso del suo spirito, egli insinua dubbi ed esitazioni, le quali sono del suo “io” che dubita ed esita, più che dell’ interlocutore-destinatario dello scritto.
Il tema del “De providentia” è: se esiste una provvidenza, come mai ai buoni toccano sofferenze e sventure? Seneca, che sa di dover trattare solo di una piccola parte del complesso problema (a toto particulam 1, 1), comincia a sgombrare il terreno da un equivoco: quello di chiamare mali (mala) ciò che è sofferenza e sventura (incommoda). È difficile accettare povertà, ignominia, malattia, carcere, esilio; ma tutti questi eventi a noi sfavorevoli non hanno il potere di rendere malvagia la nostra anima. Le durezze della vita ci sono e ci feriscono, ma a noi è dato il potere di far servire una situazione avversa al nostro perfezionamento morale. Per farlo occorre, però, un difficile combattimento; tuttavia solo l’uomo messo seriamente alla prova si libera da illusioni e pretese assurde, a differenza di chi è viziato dal favore della sorte. La dedica a Lucilio fa pensare che il dialogo sia da collocare nell’ultimo triennio di vita dell’autore, tra il 62 e il 65. La “Lettera 74” – che riassume la dottrina del “De providentia”, o ne indica il canovaccio – è sicuramente dell’aprile 64.
Nel “De constantia sapientis” («La fermezza del sapiente») Seneca si chiede: se ci sono uomini che compiono azioni con l’intento di nuocere ad altri, riuscirà l’uomo saggio a non farsi travolgere dall’offesa (iniuria), che gli si vuol recare? Epicuro aveva detto che il saggio può sopportare le ingiurie, dal momento che la laidezza morale (turpitudo) rimane in colui che pensa e compie azioni malvagie; Seneca va più in là e nega che possa essere colpito da esse. Il sapiente è al di là delle offese che sono dirette contro di lui, non perché non le avverta, ma perché le sa schivare. Le offese, invece, rovinano l’esistenza di quegli individui che dipendono quasi totalmente dalle opinioni altrui o dalle proprie passioni. Non così Socrate e Antistene, uomini veramente liberi dalla “doxa” e dalla “fortuna”.
Il “De ira”, in tre libri, è dedicato al fratello Novato. Forse questa è la prima organica opera di filosofia morale e di psicologia delle passioni che Seneca abbia preso a comporre. Il primo libro traccia una vera e propria fenomenologia dell’ira e confuta le teorie che vedono in essa un’arma utile all’attuazione del bene, purché usata, secondo l’affermazione di Aristotele, come gregario, non come capo (1, 9). In ogni società è necessario anche punire, ma la pena dev’essere misurata col metro della legge, la quale non si adira quando punisce e mira al riscatto di chi ha sbagliato. Un castigo dettato dall’ira è, invece, un cedimento alla volontà di vendetta. Non c’è nulla di nobile nell’ira, manifestazione palese di nevrastenia e di totale mancanza di autodominio. Lo dimostra il fatto che essa è più presente nelle persone malate, nei bambini e nei vecchi (1, 13). Nella sua aggressiva testardaggine, l’ira distrugge quei valori e calpesta quelle regole su cui si costruisce una comunità ordinata. Al contrario, la ragione sa attendere e lavora a preparare il futuro.
Nel secondo libro l’analisi è portata su ciò che genera e accresce l’irritabilità. Il percorso dell’ira è, del resto, quello di ogni altra passione: la prima manifestazione è involontaria, in quanto emozione irriflessa; il secondo momento è coscientemente voluto; il terzo è ormai sottratto alla ragione, la quale è dominata del tutto da questa sorta di pazzia (2, 1-4). Diverse e tra loro e numerose sono le cause che concorrono a renderci irascibili: le disposizioni del temperamento, l’eccessivo carico di lavoro e la stanchezza che ne consegue, le veglie prolungate, le bevande eccitanti, certe forme di divertimento, un’alimentazione sregolata. Ma vi sono anche le cattive abitudini acquisite: ad esempio, chi è viziato, troppo assecondato nei bisogni e anche nelle pretese, tenta poi di imporre agli altri il proprio volere e si adira se non è accontentato.
Nel terzo libro Seneca denuncia con veemenza, facendo ricorso a un’ampia esemplificazione, la pericolosità sociale di una passione che spinge a calpestare giustizia e tolleranza. L’ira moltiplica odi, offese e rivalse; è sempre funesta, ma lo è in misura insopportabile per l’intero corpo sociale se ad esserne dominati sono quelli che esercitano il potere al più alto livello. L’opera è scritta dopo la morte di Caligola, ma segnala anche una pericolosa inclinazione del suo successore, Claudio.
Nel “De vita beata” («La vita felice») Seneca pone questo problema: l’uomo tende alla felicità, ma in che cosa poi la ripone? Siamo inclini a inseguire false immagini di bene e ci lasciamo intrappolare dalle nostre illusioni. Solo mediante uno sforzo deciso possiamo rientrare in noi stessi e ritrovare con la purezza dello sguardo la libertà interiore. Infatti “nessuno può dirsi felice se è al di fuori della verità” ( 5, 2).
Seneca insiste su due punti. Primo: la virtù va cercata per se stessa e non perché ci procura il piacere, come invece afferma la dottrina epicurea (4-11). Secondo: il filosofo risponde senza mezzi termini a chi lo accusa di smentire con la sua condotta il suo pensiero. L’attuazione di un alto ideale avviene sempre per gradi. Si possono, però, usar bene anche le ricchezze, con liberale magnanimità, senza esserne asserviti (16-25). Il tono sferzante, a tratti aspro, di questa parte del dialogo fa pensare che esso sia stato scritto dopo l’affaire Suillio, cioè dopo il 58.
Nel codice Ambrosiano andò perduto l’ultimo foglio del “De vita beata” e il primo del “De otio” («La vita ritirata»), così che quest’ultimo dialogo non fu individuato come a sé stante, se non a partire da Giusto Lipsio, nella seconda metà del Cinquecento. “Otium” designa la dimensione meditativa, o contemplazione, che deve accompagnare qualsiasi genere di vita, anche la politica attiva. Ma in questo dialogo quel termine sta a indicare anche l’intensa attività culturale e spirituale a cui può dedicarsi, finalmente a tempo pieno, “chi ha già terminato la sua milizia e volge al termine della vita” (2, 2). Gli epicurei rifiutano la partecipazione alla vita politica, gli stoici ne fanno un preciso dovere; ma gli uni e gli altri riconoscono che vi sono casi in cui la presenza del filosofo è necessaria alla città e circostanze che ne consentono il ritiro. Si ha l’impressione che Seneca parli qui di ciò che aveva in animo di fare, o aveva fatto nel 62 chiedendo a Nerone di ritirarsi. Il “De otio”, però, si spinge oltre. Al di là dell’obbligo morale che impone al saggio di essere attivamente presente nella vita pubblica, non è opportuno – si chiede Seneca – che altri provvedano al maggior bene della collettività proprio attraverso una vita ritirata, interamente spesa nella ricerca della verità e a far grandeggiare nelle coscienze quei valori senza i quali la politica diventa oppressione? È perciò di grande importanza la distinzione che Seneca fa tra i due Stati: quello “piccolo”, che la sorte ci ha assegnato al momento della nascita, e l’altro, veramente universale, “che abbraccia dei e uomini”.
Nel “De tranquillitate animi” gli interlocutori sono Seneca e l’amico Sereno, “sempre tormentato dall’instabilità verso le buone intenzioni” (1, 16). L’argomento è: per quali vie si possa arrivare alla tranquillità dello spirito. La tranquillità sta al di là della “fluctuatio animi”, ma è anche oltre l’assenza di timore. Essa è fiduciosa contentezza, che i greci chiamano “eutimìa” (2, 3). È tranquillo chi è arrivato ad essere in pace con se stesso e a saper custodire la sua letizia serena (2, 4). Gli indaffarati delle più diverse specie sono, invece, continuamente esposti a quella malattia dello spirito che si chiama “taedium vitae” (2, 5). Ad essa li portano l’accavallarsi di occupazioni frenetiche e vane, la mancata scelta delle poche cose giuste e convenienti a cui applicarsi, ed anche l’incapacità di allentare la tensione. Il dialogo ha tratti quasi oraziani ed è giudicato non a torto il meno stoico tra gli scritti senecani. Richiama molto da vicino, e quasi sicuramente segue, il “De brevitate vitae”. Sereno è indeciso sulla via da imboccare e, a parere di Seneca, il filosofo stoico Atenodoro, a cui egli si è rivolto, ha avuto molta fretta a consigliargli il non impegno nella vita pubblica. La calma interiore, osserva Seneca, si può conservare anche esercitando funzioni pubbliche e servendo lo Stato (3, 1-7; 4, 1; 6, 8).
È molto difficile stabilire la data di composizione. Vi è un “terminus post quem” indicato alla fine del capitolo 11, laddove si parla del re Mitridate d’Armenia. L’imbarazzo dei traduttori di quel brano non ha più ragion d’essere da quando il Grimal ha accertato che la lezione esatta della frase rebus non è “in exilium missus est”, ma “in exitium missus est” (“Seneca”, trad. it. Garzanti, Milano 1992, pp. 187-188). Mitridate, infatti, non fu mandato in esilio, ma messo a morte nell’anno 51 dal fratello, a cui l’aveva consegnato a tradimento il comandante della guarnigione romana. Ma come fissare il “terminus ad quem”? Le ipotesi sono due: il dialogo risale al 52-53, oppure occorre situarlo dopo il 59. Quando Seneca scrive il “De tranquillitate animi”, Sereno è realmente quell’uomo desideroso di bene ma incerto sul da fare, descritto nel dialogo, o l’opera vuol essere una rivisitazione a distanza di un momento così importante per il futuro dell’amico, chiamato a ricoprire incarichi di grande responsabilità? A favore della seconda ipotesi sta un fatto innegabile: alcuni passi decisivi del dialogo – in particolare 2, 2; 2, 10; 4, 1; 15, 1 da noi citati nel saggio introduttivo – gettano una luce impressionante su ciò che accadde la notte di Capo Miseno, nel marzo del 59, e prefigurano esplicitamente quel “combattimento mentre ci si ritira” che caratterizza l’ultimo periodo della vita di Seneca.
Nel dialogo vi sono riflessioni particolarmente felici. Questa, ad esempio: non basta dire che si deve far politica, occorre anche saperla fare. Un severo esame di se stessi, delle proprie attitudini alla politica, è preliminare rispetto a tutto il resto; ma i politici hanno assoluto bisogno di acquisire le competenze necessarie e una grande capacità di discernimento (6, 1-7). E ancora: chi non sia giunto a darsi una forte autodisciplina e un giusto orientamento rispetto ai valori autentici della vita deve tenersi il più possibile lontano dalle ricchezze. Per lui, infatti, i “patrimonia” diverrebbero solo “suprema fonte di guai” (8, 1). Il dialogo si chiude con un delizioso capitolo interamente dedicato al bisogno di contemperare lavoro e riposo, concedendo al relax il posto che gli spetta in una vita sana ed equilibrata. Seneca ricorda che un viaggio al tempo opportuno, un buon bicchiere di vino, una cena con gli amici servono a farci sentire contenti e ad elevare il tono vitale. “Ogni tanto va lasciata via libera alla gioia e alla libertà, va messa un po’ da parte la sobrietà austera” (17, 9). Sta bene, dunque, lasciarsi andare in qualche occasione per ritrovare naturalezza e sincerità nei nostri modi e anche per aprire la mente a qualcosa di sublime e di elevato, attingibile solo a chi sa scostarsi dal già fatto, dall’abituale, e spingersi di slancio laddove prima non osava (17, 11).
Il “De brevitate vitae” è dedicato al suocero Paolino, di cui si sa solo che sta per concludere la sua attività al servizio dello Stato. Vi è un solo appiglio per una possibile datazione: come esempio di occupazioni inutili Seneca cita le discussioni – interminabili e inconcludenti, ma furibonde – che c’erano state nel 49, quando Claudio, in rapporto all’ampliamento dell’Urbe, aveva fatto spostare le pietre terminali che segnavano il pomerio, ossia la fascia di terreno interna ed esterna alle mura. Il De brevitate vitae affronta uno dei temi più cari all’autore, il valore del tempo, ed è un vero gioiello. La nostra esistenza si svolge nel tempo e finisce per identificarsi con il tempo. La vita sembra breve, ma solo perché perdiamo quasi tutto il tempo a nostra disposizione (1, 3). Sciupare il tempo o lasciarcene derubare significa, infatti, perdere ciò che conferisce senso al nostro vivere. Al contrario, riappropriarsi del tempo vuol dire ritrovare se stessi, diventare liberi dalle proprie illusioni e dai condizionamenti della pressione sociale. Ma imparare a vivere non si può, se non s’impara a morire e a trovare tutto il tempo necessario per la saggezza. Le due cose vanno insieme più di quanto non si pensi. Ma l’uomo che fa di solito? Arriva all’orlo della fossa come il distratto alla soglia di casa, senza accorgersene. Chi, però, ha coscienza di ciò che la dignità della sua natura esige e comanda, non ha paura della morte e muove in cerca della saggezza con tutte le proprie forze. In tal modo egli adempie il compito a cui è chiamato; ma, così facendo, sperimenta fin d’ora, nella dimensione temporale in cui la sua esistenza si svolge, il dono di qualcosa che è “supra tempus” (14, 1). A distanza di quindici secoli un altro pensatore stoico, l’olandese Baruch Spinoza, si riferisce alla medesima esperienza spirituale – di cui celebra l’infinita risonanza nell’anima nostra e insieme la divina sorgente – quando scrive: “sentimus experimurque nos aeternos esse”: “sentiamo e sperimentiamo di essere eterni” (“Ethica” 4, scolio propos. 23).
Il “De clementia” e il “De beneficiis” sono due tra le opere maggiori del filosofo. Esteriormente la forma è quella del dialogo. Esse sono associate nel «codex Nazarius», che ne costituisce la fonte principale. La sensibilità degli studiosi medievali le ha accostate non a caso, vedendo nel secondo scritto una continuazione e un approfondimento del primo. Nella trama del dialogo i consigli a Nerone, che “non ha ancora versato una goccia di sangue” (1, 11, 3), si alternano alle argomentazioni e ad esempi tratti dalla storia.
Il “De clementia” si rivolge direttamente al principe, che “ha appena compiuto diciotto anni” (1, 9, 1); lo scritto è, dunque, collocabile tra la fine del 55 e quella del 56, perché il destinatario era nato il 15 dicembre 37. Opera di carattere politico, il “De clementia” vuol essere una chiara riaffermazione delle idee ispiratrici del programma di buon governo, scritto da Seneca ed esposto da Nerone in Senato all’inizio del regno, nel suo discorso del trono; nello stesso tempo è un appello, un’ “admonitio”, fervida e insieme già preoccupata, all’ex-allievo perché nel suo cuore abbia stabile dimora una virtù così eminentemente umana e politica come la clemenza. Infatti, solo se vive nel cuore di Cesare, la clemenza potrà tradursi in misura e forza ispiratrice della sua azione di governo. Nel testo di cui disponiamo, lo scritto è formato da due libri: il primo ha unità, simmetria tra le parti e scioltezza, al punto da far pensare a un discorso pronunciato dall’autore in un’occasione solenne; il secondo, che è un quarto dell’altro per estensione, ha un andamento teorico, giacché discute le definizioni di virtù, e dà l’impressione di non essere completo. Il discorso che Seneca rivolge a Nerone mira a delineare con forza la funzione di una monarchia costituzionale nella nuova Roma. Esso si incentra su due figure: l’antitesi e lo sviluppo perfettivo. L’antitesi è fra il “re buono” e i “tiranni”; fra i tiranni il filosofo pone Tiberio, Caligola e Claudio. Dei principi buoni il capofila è Augusto; al suo fianco l’ex-precettore si augura che ben presto trovi posto Nerone. Il cammino che porta dallo “ius” alla sua umanizzazione più alta, alla “aequitas”, appare a Seneca la caratteristica propria di una politica liberale. Ma la spinta dinamica che innalza all’equità la coscienza del sovrano, di fronte alle decisioni da prendere di volta in volta, viene dalla clemenza. La clemenza, infatti, non è un sentimento e non è mera pietà; essa è una virtù e, dunque, un comando della ragione e un giudizio pratico conforme ad esso, nonché una salda e costante disposizione dello spirito. Il criterio normale di un re saggio e buono è la clemenza. Per misurarne l’efficacia costruttiva e la positività basti ricordare i guasti irreparabili e le rovine a cui conduce il vizio che ne è la negazione: la collera.
Il “De beneficiis” fu composto certamente negli anni del ritiro dalla vita pubblica. L’opera, in sette libri, è l’unica che abbia l’andamento e la struttura del trattato, pur conservando la veste del dialogo. Essa prende in considerazione il saper concedere e il saper ricevere un beneficio, e perciò anche la fenomenologia della riconoscenza e dell’ingratitudine. È un tema introdotto nella riflessione filosofica dagli stoici Crisippo ed Ecatone, e in ambito latino da Cicerone con il “De officiis” («Sui doveri»). Le analisi, spesso di grande finezza, sull’arte di donare – volentieri, subito e senza esitazioni, proprio come noi vorremmo ricevere (2, 1-8) – e su quella, ancor più difficile, di ricevere occupano quasi per intero i primi sei libri. In una lettera, però, Seneca dichiara di non aver chiarito abbastanza la questione più delicata e per lui di maggior importanza: il giusto modo di comportarsi con uno che, dopo averci fatto del bene, ci ha fatto del male (Ad Luc. 81, 3). La lettera fu scritta nella primavera dell’64 e il problema su cui richiama l’attenzione sarà l’oggetto diretto dell’indagine svolta nel settimo libro del “De beneficiis”. Sia il passo ora citato della lettera, sia il settimo libro del “De beneficiis” alludono a Nerone e ai suoi rapporti con il filosofo. In realtà l’ultimo scritto sistematico di Seneca è il compimento perfettivo di quell’ideale di politica illuminata, mite e magnanima, di cui il “De ira” e il “De clementia” avevano già posto le premesse e i fondamenti. L’interlocutore, non nominato ma che minacciosamente incombe, è sempre Nerone. Il “De beneficiis” è l’ultimo appello, tacito e appassionato, al principe ed è insieme il testamento politico del filosofo.
Malgrado certe insistenze – su procedimenti dialettici e di confutazione, ricorrenti proprio nella parte finale degli ultimi scritti – il “De beneficiis” è libro di capitale importanza nella storia della morale classica per più di una ragione. La posizione di Seneca di fronte alla ricchezza è ribadita in termini inequivocabili. Chi non ha responsabilità politiche, come Demetrio il Cinico, amico e parco commensale di Seneca, può liberamente disprezzare a priori le ricchezze; ma chi ne è investito, può fare di meglio. Egli ha, infatti, la libertà di trasformare i “patrimonia” in “beneficia”, donando largamente, senza per questo sperperare, a coloro che meritano di essere aiutati a realizzare se stessi e a porre le loro qualità superiori al servizio della città. Il ricco che sia saggio, interiormente libero, non può non essere magnanimo: avendone i mezzi, ha l’obbligo di liberare gli indigenti dai lavori servili che ne soffocano la personalità. In tal modo egli concorre, per quanto sta in lui, a ristabilire le condizioni materiali che consentano ai migliori l’accesso alla saggezza. Insomma, dopo e oltre la clemenza, viene la grandezza d’animo. C’è di più: nel “De beneficiis” Seneca tira le conseguenze dei suoi principi morali. Egli allora oltrepassa le pur nobili preoccupazioni per la pace e il benessere dell’impero e addita agli uomini il compito di rendere effettiva quell’uguaglianza in cui sono stati creati. In una prospettiva del genere la schiavitù non può essere più legittimata e uno schiavo può beneficare, nel senso più alto del termine, il suo padrone (3, 18-28).
Le “Naturales quaestiones” è una vasta opera in sette libri; nelle edizioni più recenti i libri diventano otto perché è accertato che la conclusione dell’opera è costituita dalla prima parte del quarto libro. Come la “Provvidenza” e le “Lettere”, le “Questioni naturali” sono dedicate a Lucilio, allora procuratore imperiale in Sicilia. Seneca, finalmente libero di disporre del suo tempo, riordina e completa in quest’opera le ricerche scientifiche di cui si era occupato in Egitto e in Corsica. Il suo scopo è duplice: fare il punto sullo stato delle conoscenze raggiunte sugli argomenti studiati, ma anche liberare i lettori dalla superstizione e dalla paura dei fenomeni naturali. Infatti, i prologhi e gli epiloghi dei singoli libri sono di carattere morale. I fenomeni indagati sono quelli “celesti, meteorologici e terrestri” (2, 1, 1). Ciascun libro è dedicato a un fenomeno: i fuochi celesti, i tuoni e i fulmini, le acque del globo terrestre, le inondazioni e le sorgenti del Nilo, le nubi, i venti, i terremoti, le comete. Il 5 febbraio del 62 un violento terremoto distrugge Pompei – da non confondere con l’eruzione vulcanica che seppellì la città diciassette anni dopo – e il ricordo del tragico evento introduce lo studio di quel fenomeno nel libro sesto. La data di composizione delle “Questioni naturali” risale, quindi, con certezza al 62-63 e non prima. Seneca fornisce, qua e là, qualche spiegazione vera, o non troppo lontana dal vero: scrive, ad esempio, che lo spazio tra le stelle è immenso e che i pianeti sono a diversa distanza dalla terra; identifica l’origine dei terremoti nei movimenti delle falde terrestri; abbozza pure l’ipotesi eliocentrica. Non è poco se si pensa che Seneca non è uno scienziato. Ha comunque il merito di rifiutare il conservatorismo, dommatico e ripetitivo, nonché lo scetticismo di quanti hanno per insegna l’ “ignoramus et ignorabimus”. Seneca è, invece, consapevole del carattere progressivo e parziale della conoscenza che l’uomo può acquisire della natura e prevede che “i nostri posteri si stupiranno perché noi non sapevamo niente di cose che poi sono divenute così chiare” (7, 25, 5). In questo campo la conoscenza avanza solo attraverso ipotesi e congetture provvisorie (7, 29, 3).
Anche nelle “Quaestiones naturales” si leva la critica sociale di Seneca. Le sue invettive contro i ricchi che tentano di rapinarci dei beni naturali, mercificando ogni cosa, al punto che niente è buono se non è pagato a caro prezzo, colpiscono nel segno e sono oggi assai più attuali che nel suo tempo; ma sfugge al filosofo romano, come a tutta la civiltà del mondo antico, il valore dell’invenzione tecnica e la possibilità di un suo uso retto e benefico. Per lui è la “luxuria” che inventa, la “dementia” che escogita ogni cosa. Cercare di raffreddare le bevande anche nella calura estiva è un lusso inaccettabile e corruttore (2, 59, 2), e così pure servirsi della stenografia, dei vetri di mica o provvedere al riscaldamento mediante i tubi di acqua calda nelle pareti. Seneca diffida persino delle nuove tecniche per accrescere la fertilità dei campi, nonché dei nuovi sistemi di lavorazione dei marmi e dei graniti (Ad Luc. 90, 19-21, 26 e altrove). Il guadagno che Seneca si attende dalla scienza riguarda solo il progresso nella conoscenza e nella vita spirituale. È sua convinzione – espressa più volte, e in particolare nella “praefatio” al primo libro – che la contemplazione della natura è uno dei mezzi perché l’uomo dismetta pretese assurde e impari a collocarsi al giusto posto nel mondo, in cui si attua un ordine oggettivo che è divino. Seneca sa – e ciò costituisce una novità importante – che l’universo non è fatto per l’uomo, il quale non deve credersi la misura di tutte le cose: “Troppo noi presumiamo di noi stessi, se crediamo che a causa nostra si muovano cose così grandi”, aveva già scritto nel “De ira” (2, 27). Tuttavia, strappandoci alle tenebre in cui siamo avvolti, la scienza della natura “ci conduce fino al punto da cui proviene la luce” (1, praef. 2). Lo studio degli arcana naturae esige a suo compimento una scienza del primo principio, una teologia.
Le “Quaestiones naturales” non influenzarono la “Naturalis historia” che Plinio il Vecchio pubblicò nel 77 e furono studiate solo nella letteratura filosofico-scientifica dei secoli XII e XIII (Guglielmo di Conches, Vincenzo di Beauvais, Alberto Magno, Ruggero Bacone). Non a caso è a quel periodo che risale la maggior parte dei numerosi codici, 101 di cui 79 integri, a noi pervenuti. Il Seicento dedicò qualche attenzione all’opera di Seneca, che nel primo Ottocento ebbe due lettori d’eccezione: Goethe e Leopardi.
L’ “Ad Lucilium epistulae morales” è il capolavoro di Seneca dal punto di vista filosofico, educativo e artistico. Le lettere costituiscono la più compiuta immagine della vita di Seneca che le scrisse tra il 62 e il 65, negli anni del definitivo ritiro dalla vita pubblica, quando non c’era più speranza di arrestare la corsa di Nerone verso la crudeltà e la catastrofe. Nei manoscritti del Medioevo anteriori al IX secolo le “Epistulae” sono smembrate in due gruppi, comprendenti le lettere 1-88 il primo e 89-124 il secondo. Nel «codex Querinianus» di Brescia, che risale al X secolo, l’opera appare indivisa. Il destinatario è lo stesso amico a cui il filosofo ha dedicato le “Quaestiones naturales”, Gaio Lucilio, detto Junior per distinguerlo dall’altro Lucilio, il primo poeta satirico romano vissuto nel II secolo a. C. Del corrispondente non abbiamo neppure una lettera, ma di lui conosciamo i sentimenti, gli interessi culturali, le oscillazioni dello spirito attraverso quello che Seneca scrive. Egli è, insomma, un personaggio vero e non una finzione letteraria. L’epistolario consta di 124 lettere, raccolte artificiosamente in 20 libri. I libri 21 e 22 sono andati perduti. La cosiddetta “Epistula 125” risulta, in realtà, dall’accostamento di estratti citati da Aulo Gellio nelle “Notti Attiche” (12, 2-13). La successione delle domande e delle risposte, nonché il frequente rinvio a eventi e ad allusioni, di cui si era parlato in precedenza, attestano che le lettere furono scritte nell’ordine in cui ci sono pervenute.
Il tono è per lo più quello della conversazione, quasi uno scambio di ricordi e di riflessioni tra amici. Ma questo diario sui generis – che ci permette di ricostruire con precisione la vita quotidiana di Seneca, negli ultimi tre anni, i suoi viaggi, le sue “letture” e le “riletture”, le sue predilezioni – è l’opera filosofica per eccellenza del Nostro, sicché la “vitae meditatio” e l’esplorazione dell’animo umano ai più diversi livelli ne costituiscono l’essenza. Le lettere sono, pertanto, sia un dialogo di Seneca con se stesso, sia un dialogo con Lucilio. Il filosofo non si sottrae all’ufficio, che lo stesso interlocutore gli assegna, di direttore spirituale, ma egli vuol veder chiaro innanzi tutto nella sua coscienza e purificarla nella speranza di poter giovare meglio a Lucilio e a quanti in futuro leggeranno le sue lettere. Seneca, infatti, sa di scrivere anche – e lo dice espressamente – per i posteri: “Posterorum negotia ago. Illis aliqua quae possum prodesse conscribo” (“Mi occupo degli affari dei posteri. Scrivo cose che possano giovare ad essi” – 8, 2). Egli confessa il suo intento educativo, ma lo fa senza presunzione alcuna, consapevole com’è delle proprie debolezze: “Mostro agli altri la retta via, che io ho conosciuto tardi e ormai stanco per il lungo errare” (8, 3). Le “Epistulae” fanno risplendere, come accade in poche altre opere, la bellezza del bene e la sua intrinseca evidenza razionale. Esse hanno una fortissima valenza pedagogica e psicologica in quanto inducono chi le mediti a rientrare in sé e a cercare saggezza. Il loro charme consiste anche in questo: deciso nell’indicare la meta a cui tendere e perspicuo nel consigliarci i molteplici mezzi per attingerla, o per avvicinarci il più possibile ad essa, Seneca ha un’attenzione delicata per le incertezze e le difficoltà di ordine psicologico con le quali deve misurarsi l’animo umano se vuol diventare veramente libero. Verso la fine dell’epistolario vi sono pagine in cui la difesa dello stoicismo come sistema diventa insistente, ma non è certo per aver scritto quelle lettere, poche per fortuna, che Seneca è riuscito a parlare agli uomini per duemila anni.
I temi che dominano l’epistolario, intrecciandosi spontaneamente tra loro, sono la condizione umana colta nelle sue ambivalenze, il tempo, la morte, le vie dell’auto-formazione, il primato dell’intenzione, la responsabilità dell’«io» verso gli «altri». Continua qui, né poteva essere diversamente, la contrapposizione strutturale fra valori oggettivi e valori d’opinione, fra verità e illusione, progresso reale dello spirito e accecamento bestiale; tuttavia nel gusto per le sfumature, il che vuol dire per l’esperienza concreta, e nell’incisività dello stile Seneca supera nelle “Epistulae” ogni altro suo scritto. A differenziare poi, sul piano più strettamente filosofico, le lettere dalle opere precedenti concorrono, insieme al pieno raggiungimento della maturità del pensatore, il fatto nuovo della scoperta del valore della volontà personale e l’accresciuta influenza della dottrina platonica. L’autore delle Epistulae, in realtà, non cessa mai di sorprendere il lettore per la verità delle sue analisi, per la forza di smascheramento dei sofismi e dei pregiudizi sociali, per la sincera aspirazione a una società aperta meno ingiusta e più fraterna.
Le “Tragoediae” di Seneca, le sole scampate di tutto il teatro tragico latino, sono nove e nei codici si succedono in quest’ordine: “Hercules furens”, “Troades” («Le troiane»), “Phoenissae” («Le fenicie»), “Medea”, “Phaedra, Oedìpus”, “Agamemnon”, Thyestes”, “Hercules Oetaeus” («Ercole sul monte Eta»).È tramandata come senecana una decima tragedia, l’ “Octavia”, riguardante l’infelice figlia di Claudio, divenuta moglie legale di Nerone, che se ne sbarazzò sottoponendola a un processo infamante e poi ordinando di ucciderla. L’attribuzione è messa in dubbio sostanzialmente per due motivi: Seneca entra in scena e nel testo si fanno profezie sulla brutta fine che sarebbe toccata al regale assassino. Ma se è impensabile che l’opera fosse fatta conoscere finché Nerone era in vita, Seneca poteva averla composta in attesa di tempi meno calamitosi per pubblicarla. La tragedia comunque disegna in modo perfetto il ruolo drammatico di Seneca a corte agl’ inizi degli anni Sessanta e la frase messa in bocca a Nerone – “Mi sia permesso finalmente di fare ciò che Seneca disapprova!” – esprime in modo icastico la situazione.
Gli argomenti delle tragedie sono desunti dal teatro greco. Ogni tentativo di datazione appare un’impresa disperata. Ci si è domandato a lungo se le tragedie furono scritte solo per essere lette o anche per essere portate in scena. Nel 1961, nella sua edizione delle tragedie senecane Theodor Thomann ha mostrato le loro qualità tecniche e persino le notazioni di regia contenute nei cori e in altri passi conclusivi, sostenendo che le tragedie erano destinate al “teatro di corte” di Nerone (“Sämtliche Tragödien”, I, Zürich/Stuttgart 1961, Introduzione). A rinforzo di questa tesi, Villy Soerensen ricorda che le stesse accuse di voler superare nell’arte poetica l’imperatore indicano che Seneca appoggiò Nerone nei suoi interessi artistici, del resto indirettamente difesi nell’ “Hercules furens”. Ma, come dimostra anche il caso di Lucano, Nerone, che per un certo periodo amò circondarsi di poeti e filosofi, fu poi preso da gelosia nei loro confronti e la collaborazione si trasformò in persecuzione (“Seneca”, Copenaghen 1976; trad. it. Salerno Editrice, Roma 1988, p. 305).
Noi pensiamo che sia più utile chiedersi se le tragedie senecane abbiano giocato o meno un loro ruolo nella storia del teatro. Ebbene, a sedici secoli di distanza, le tragedie senecane esercitarono un’influenza determinante durante l’età barocca, dando un contributo di prim’ordine alla nascita del teatro moderno europeo. Il debito nei confronti di Seneca tragico è forte soprattutto in Shakespeare, Corneille e Racine. Il teatro senecano fu giudicato negativamente sia nell’età romantica, a partire da August W. Schlegel, sia nella prima metà del Novecento da esponenti della filologia classica, ma anche da Karl Vossler e da Thomas S. Eliot. Nella seconda metà del secolo, però, si sono letteralmente moltiplicate le versioni e le rappresentazioni delle tragedie di Seneca, nonché gli studi e i giudizi che tendono a rivalutare l’una o l’altra di esse, soprattutto quelle in cui l’orribile cede il passo alla coscienza della debolezza umana e della parte immensa che la sofferenza ha nel mondo. Coscienza da cui nasce quella tristezza maestosa, che costituisce la ragione principale del fascino di una tragedia artisticamente riuscita.
Certamente, nel testo di Seneca vi sono scene in cui prevalgono la declamazione retorica e il macabro; ma ve ne sono altre in cui parla forte la vita interiore dei personaggi e l’umanità. Seneca è autore di versi sublimi, di alta ispirazione, come quelli sull’incontro tra Andromaca e Ulisse nelle “Troiane”, o quelli della scena centrale di “Fedra” e della scena finale del “Tieste”. Seneca, sia ben chiaro, non s’identifica affatto con gli eroi distruttivi delle sue tragedie, che sembrano chiamare su di sé la catastrofe, e con il cinismo di tante loro affermazioni sul modo di impadronirsi del potere e di gestirlo. Anzi, uno dei temi dominanti del teatro di Seneca è l’implacabile denuncia di un potere che, ponendosi al di sopra di ogni legge dello Stato e della coscienza, si trasforma in strumento infernale di sofferenza per tutti. A differenza delle tragedie greche, i cori non dialogano più con i personaggi principali, ma in essi è lo stesso Seneca che sembra rivolgersi agli spettatori e ai lettori per sottrarli all’incantesimo della grandiosità perversa dei personaggi e delle loro passioni estreme, restituendoli così alla coscienza di ciò che solo è giusto e degno. Questa è la via attraverso la quale agisce la catarsi nell’opera teatrale di Seneca. In conclusione: Seneca è grande talora anche come autore di tragedie, ma in esse poche volte riesce ad operare la magia sublime che è propria della grande arte, la quale sa darci persino una rappresentazione bella del brutto. Magia che caratterizza l’ “Inferno” di Dante, i migliori drammi di Shakespeare e l’opera dei due veri iniziatori dell’arte moderna, Dostoevskij e Baudelaire.
L’ “Apokolokyntosis” («Metamorfosi in zucca») e gli “Epigrammata” («Epigrammi») sono due scritti atipici, che stanno a sé. L’ “Apokolokyntosis” narra appunto, in prosa e in versi, le goffe peripezie del divo Claudio trasformato in zucca dopo la morte. Il libello dissacratore – che dovette divertire non poco con la sua vivacità indiavolata, i lettori del tempo – ha un forte significato politico: il successore di Claudio non deve battere le vie di Claudio, la “domus” del principe non può esautorare gli organi costituzionali, un imperatore iracondo e zimbello di cortigiani non può avere onori divini.
Gli “Epigrammata” comprendono settantadue gustose, talora raffinate, composizioni poetiche che, se non sono di Seneca, sono certamente di scuola senecana. L’ipotesi, però, della paternità senecana di tutti gli epigrammi non può essere esclusa interamente.